lunedì 22 novembre 2021

Rapporto sui prigionieri, parte 5

Pubblico alcuni estratti del "Rapporto sui prigionieri di guerra italiani in Russia" a cura di Carlo Vicentini e Paolo Resta, fonte UNIRR, 2a edizione, anno 2005, a mio avviso la fonte più autorevole per fare chiarezza sulle perdite e sulle vicissitudini dei nostri soldati in Russia durante il secondo conflitto mondiale.

LA CATTURA.

L'animo esasperato e la tensione della battaglia. non lasciavano molto spazio a sentimenti umanitari quando la cattura avveniva al termine di un combattimento, specialmente se i russi avevano subito parecchie perdite. Ai soldati russi era stato inculcato un odio profondo contro questi invasori, dipinti come razziatori, incendiari, che deportavano le donne. Certo, questo profilo non si addiceva al soldato italiano, ma i russi non facevano troppa differenza tra noi ed i tedeschi: parecchie volte i soldati italiani, soprattutto gli ufficiali, furono passati per le armi appena catturati. Ai tedeschi questo succedeva quasi sistematicamente.

Quando la cattura avveniva da parte di truppe asiatiche, gli episodi di brutalità ed efferatezza erano certi. I comandanti ed i singoli gregari avevano ampia discrezionalità e, secondo gli umori personali, erano capaci dell'assassinio dei feriti o del mitragliamento dei prigionieri appena consegnatisi. A queste atrocità non si sono sottratti nemmeno i partigiani. Comportamento di malvagità più raffinata era la spogliazione dei prigionieri. Erano ambitissimi i pastrani con la pelliccia, i giubbetti, i maglioni casalinghi, i berretti di pelo, le coperte, gli stivaloni di feltro russi di cui erano stati dotati alcuni reparti della "Julia". Queste razzie inutili, perché il soldato russo non aveva certo bisogno del nostro equipaggiamento, lasciavano i malcapitati scalzi, senza guanti, condannandoli al congelamento ed a morte sicura.

A parte questi casi, frequenti ma non generalizzali, la massa dei prigionieri era sottoposta alla sistematica requisizione di tutto quanto avevano in tasca: orologi, penne stilografiche, accendisigari, temperini, portafogli e la sistematica distruzione di immagini sacre e fotografie. Queste perquisizioni si ripetevano ad ogni cambio della scorta e mano mano il prigioniero rimaneva sempre più spoglio perché i russi, non trovando più nulla di ambito, delusi d'essere arrivati per ultimi, si attaccavano alle gavette, ai cucchiai di alluminio, ai pettinini, alle cinghie dei pantaloni. I prigionieri venivano immediatamente avviati all'indietro, naturalmente a piedi, e poi raggruppati in colonne sempre più numerose fino al migliaio di uomini, sorvegliati da pochi guardiani poco più che adolescenti, ma oltremodo risoluti e spietati. I prigionieri non venivano interrogati, nessuno segnava le loro generalità.

Nella confusione dei primi giorni, qualche prigioniero, specialmente se ferito, riuscì a sottrarsi agli incolonnamenti ed a trovare rifugio presso un'isba, una famiglia impietosita che di solito lo invitava ad allontanarsi dopo averlo rifocillato e sommariamente curato. Aiutare e proteggere un soldato nemico era reato punito con la deportazione e non c'era cittadino russo che osasse sottrarsi agli ordini dell'NKVD la quale aveva mille occhi ed ancor più delatori. Questi prigionieri furono rastrellati tutti ancora nei primi mesi del 1943.

Moltissimi prigionieri feriti o congelati che, impossibilitati a camminare, erano stati lasciati dai russi in accantonamenti provvisori a Valuiki, a Rossosc oppure erano stati trovati nei nostri ospedali da campo, non potuti sgomberare per mancanza di mezzi di trasporto, furono spediti successivamente in appositi lager-ospedali situati negli Urali ed in altre località a migliaia di chilometri dal Don, dove arrivarono dimezzati o in condizioni tali che sopravvissero poche settimane. Ci sono stati dei prigionieri italiani che dopo catturati furono adibiti per alcuni mesi alla riparazione e ripristino delle centinaia di nostri automezzi abbandonati nella ritirata, ma in seguito furono mandati nei campi. La fortuna di questi soldati fu quella di evitare le marce ed i trasporti nei carri bestiame. Più fortunati ancora, quei piccoli gruppi che, catturati e rinchiusi in attesa di poterli sgomberare, furono, dopo uno o due giorni, liberati dai nostri reparti che, nell'aprirsi la strada delle ritirata, avevano infranto lo sbarramento russo in quella località.

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