giovedì 11 novembre 2021

Enrico "Richéto" Chiapponi

Ho avuto il piacere di conoscere per la prima volta di persona Enrico "Richéto" Chiapponi lo scorso fine settimana, quando con gli amici del trekking del 2018 siamo stati a Medesano (PR) a raccontare della Campagna di Russia e della nostra indimenticabile esperienza, prima ai ragazzi delle scuole medie e poi in serata alle persone interessate, richiamati all'auditorium di Felegara dai bravi e simpatici Alpini del Gruppo di Medesano. Enrico è davvero un "personaggio" con una carica vitale davvero unica e una forza d'animo invidiabile. Riporto per sua gentile concessione la storia di Enrico sotto le armi; fonte UNIRR.

Enrico Chiapponi è nato a Riccò di Fornovo, il 22 giugno 1922, da Attilio e Larini Caterina. Come tutti i giovani della sua epoca (erano gli anni del Fascismo) aveva fatto parte della G.I.L . Gioventù italiana del Littorio. Alla visita di Leva, nell'aprile 1941, sul suo foglio matricolare fu annotato: "titolo di studio 5a elementare, professione meccanico", ma lui ci tiene a precisare che aveva frequentato fino alla 3° Avviamento professionale, conseguendo un titolo di studio abbastanza avanzato per quei tempi, e che la sua professione era: commesso di stoffe.

Enrico fu chiamato alle armi il 15 gennaio 1942 nell'8° Reggimento Alpini e due giorni dopo assegnato al Battaglione Gemona bis in zona dichiarata in stato di guerra. Il Battaglione Gemona era di stanza a Tarcento (UD) ma le reclute delle classi 1921-1922-1923, trascorsero la prima fase di addestramento a Plezzo, cittadina allora in territorio italiano (ora Bovec in Slovenia), dove c'erano alcune caserme e accantonamenti degli alpini. Da questa località, poco distante da Caporetto, le reclute effettuavano marce e ascensioni sul Rombon e sul Canni. Chiapponi ricorda che a Plezzo il rancio era scarso e si pativa discretamente la fame. La loro presenza non era particolarmente gradita dalla popolazione, in maggioranza slovena. Questi territori erano stati assegnati all'Italia alla fine della Prima Guerra Mondiale e torneranno alla Jugoslavia (Slovenia) dopo la fine del secondo conflitto.

Mentre le reclute del Gemona bis, della classe 1922, erano in addestramento a Plezzo, una grave sciagura si abbatteva sul battaglione permanente che stava rientrando in Patria proveniente da Patrasso. Nella notte fra il 28 e 29 marzo 1942, un convoglio di navi che trasportava parte della Julia fu attaccato da sommergibili inglesi e il piroscafo Galilea, con a bordo gli alpini del Gemona e soldati di altri reparti, fu affondato nel Mar Jonio. Gli alpini del suddetto battaglione erano 691 e se ne salvarono solo 144; la maggior parte erano giovani della classe 1921 e tanti provenivano dalle valli e dalle montagne del parmense. Questi ragazzi, dopo un primo addestramento a Plezzo, nell'agosto 1941 avevano raggiunto la Divisione Julia nella zona del canale di Corinto, dove questa grande Unità era rimasta di presidio al termine della vittoriosa ma disastrosa campagna di Grecia (ottobre 1940 - aprile 1941).

Nella primavera del 1942 anche i giovani alpini dislocati a Plezzo erano rientrati alle caserme di Tarcento. "Dopo una lunga ed estenuante marcia a piedi, siamo arrivati nei pressi di Tarcento", racconta Enrico, "stanchi morti, al limite delle nostre forze, per fortuna ad attenderci c'era la fanfara che suonando il "Trentatrè" ci ridiede coraggio e ci risollevò il morale". All'inizio dell'estate del 1942 la Julia, ricostituita con i giovani della classe 1922 e diversi richiamati anche di classi anziane, venne mobilitata e radunata al completo nelle sue basi del Friuli. Insieme alla Cuneense e alla Tridentina era stata inserita nel Corpo d'Armata Alpino destinato a far parte dell'A.R.M.I.R.: Armata Italiana in Russia.

Il 9 agosto 1942 Chiapponi, che nel frattempo era stato trasferito dalla 69a alla Compagnia Comando, con l'incarico di radio-telegrafista, parte in tradotta da San Giovanni al Natisone - Udine con il battaglione Gemona. Alcuni alpini anziani, reduci dalla guerra di Grecia, erano talmente contenti di andare in Russia che al momento della partenza presero a sassate le vetrine degli uffici della stazione, ma l'incidente non poteva certo fermare un ingranaggio che ormai si era messo in movimento e il convoglio si mosse portando gli alpini verso un'altra spaventosa tragedia.

Le tradotte ferroviarie trasportarono alpini, muli e materiali, dall'Italia all'Ucraina, seguendo un lungo percorso attraverso l'Europa: Brennero - Monaco di Baviera - Lipsia - Berlino — Varsavia — Minsk - Charkow - Izjum. Per trasportare il Corpo d'Armata Alpino occorsero 200 tradotte, per riportare in Italia i superstiti ne furono sufficienti 17! Un tenente di Artiglieria, addetto alla 2a Base tradotte C.S.I.R. di Vicenza, su una pagina "internet" descrive cosi la composizione dei convogli diretti al fronte: "Una carrozza passeggeri di II classe adibita a Comando, una di III classe coi sedili di legno per i militari di scorta, un carro merci adibito a cucina, uno per il deposito viveri e a seguire altri carri merci per la truppa, per i muli e il materiale. A volte davanti alla locomotiva veniva agganciato un carro pianale in funzione antimina. Il viaggio durava dai dieci ai quindici giorni e i treni, trainati da locomotive a vapore, erano condotti da ferrovieri tedeschi fino a Varsavia e da ferrovieri polacchi da li in poi".

Una volta giunti ad Izjum, in Ucraina, gli alpini percorsero a piedi circa altri 300 km, lungo piste polverose che si snodavano attraverso sterminati campi di girasoli, per raggiungere, ai primi di settembre del 1942, le postazioni loro assegnate sul Don. Il periodo trascorso in riva al Don, dall'arrivo fino all'inizio dell'offensiva sovietica del dicembre 1942, fu tutto sommato un periodo relativamente calmo. Gli alpini avevano costruito tutta una serie di rifugi e di bunker in previsione dell'inverno imminente.

La vita scorreva tranquilla nella loro piccola cittadella sotterranea, interrotta solo dai turni di guardia e dai colpi di mano che soldati dell'una e dell'altra parte effettuavano ogni tanto. Gruppetti di alpini arditi, a bordo di barconi, attraversavano nottetempo il Don effettuando incursioni sulla sponda opposta per catturare prigionieri e meritarsi una licenza premio. In proposito, Enrico ricorda che alcuni alpini friulani rinunciarono stoicamente alla licenza premio, pentendosene poi amaramente durante i giorni della ritirata. A metà dicembre i russi diedero inizio all'offensiva denominata "Piccolo Saturno" scatenando l'inferno contro un settore del fronte tenuto dalle Divisioni italiane Cosseria e Ravenna che dopo aspri combattimenti furono sopraffatte.

Il 16 dicembre un Gruppo di pronto intervento della Julia formato dal Battaglione L'Aquila, da alcune Batterie dei Gruppi Conegliano e Udine, più il Battaglione Monte Cervino, fu inviato d'urgenza sul luogo della rotta per cercare di tamponare la falla. Nel giro di pochi giorni furono raggiunti da tutta la Divisione che, abbandonati i suoi comodi e sicuri rifugi sul Don, fu trasferita nella zona di confluenza fra i fiumi Kalitwa e Don dove maggiore era il pericolo di sfondamento. Gli alpini dovettero lottare contro truppe meglio equipaggiate e armate, in condizioni atmosferiche proibitive, trincerandosi alla meglio in provvisorie trincee scavate perfino con le baionette nel terreno indurito dal gelo.

I russi potevano ricevere continuamente viveri e rinforzi, comprese truppe corazzate, mentre la Divisione Alpina si andava dissanguando per il freddo, la fame e gli assalti continui. I suoi battaglioni disseminarono di morti, feriti e congelati le lande innevate nei pressi di Nowo Kalitwa, Selenyj-Jar, Golubaja Krinitza, Ivanowka, ma per circa un mese la Julia, che aveva ricevuto l'ordine di resistere ad ogni costo, tenne quel settore senza arretrare e combattendo in condizioni disperate. Di quel primo periodo Enrico ricorda i tanti morti, dell'uno e dell'altro schieramento, rimasti sulla neve gelata. Anche i russi, pur essendo in possesso di mezzi e armamenti superiori, spesso mandavano avanti le loro fanterie, a ondate successive, in assurdi assalti frontali destinati ad essere decimati dalle armi automatiche e dalla pur scarsa artiglieria italiana; i comandi russi sembravano quasi incuranti delle enormi perdite di uomini che una tattica del genere causava ai loro reparti.

All'inizio della seconda metà di gennaio, le truppe corazzate sovietiche avevano sfondato il fronte ai lati dello schieramento italiano nei settori tenuti da reparti tedeschi e ungheresi, ed erano arrivate a Rossosch chiudendo in una sacca il Corpo d'Armata Alpino e quello che restava di altre Divisioni. Il 17 gennaio 1943 arrivò finalmente l'ordine di ripiegamento, ma ormai era intempestivo. Iniziò cosi la tragica ritirata dal Don che sottopose gli uomini a sofferenze inaudite, a marce estenuanti nel gelo, in mezzo alle bufere di neve, senza indumenti adatti e armamento adeguato. Dopo un primo scontro a Popowka, il 19 e 20 gennaio a Nowo Postojalowka reparti della Julia (battaglioni Tolmezzo, Gemona e Cividale dell'8° Reggimento e il Gruppo Conegliano del 3* Reggimento Artiglieria Alpina) e quasi tutti i reparti della Cuneense, vennero impegnati in una durissima battaglia durata trenta ore dalla quale uscirono praticamente distrutti. Il sacrificio delle due Divisioni Alpine, tuttavia, non fu vano perché permise alla Tridentina, che ancora non era stata toccata dagli scontri e che a ranghi compatti ora guidava la colonna dei disperati, di poter affrontare tutti i combattimenti successivi fino all'uscita dalla sacca a Nikolajewka.

Chiapponi in una intervista alla Gazzetta di Parma del febbraio 2017 racconta che a Nowo Postojalowka 10 alpini del suo reparto persero la vita, fra di essi anche il sergente Guglielmo Vari di Riccò - Fornovo. Guglielmo apparteneva alla 116° compagnia armi di accompagnamento del Gemona, plotone cannoni anticarro, ma i nostri cannoncini da 47/32 non riuscivano nemmeno a scalfire quei bestioni d'acciaio. Egli lo aveva incrociato poco prima mentre col suo reparto si apprestava ad entrare in azione, lo aveva salutato, con qualche parola di incoraggiamento, ma lui non rispose niente e prosegui col suo plotone, triste e rassegnato come uno che sa di andare incontro a morte certa. Enrico assistette da lontano allo scontro e vide chiaramente le scintille provocate dai proiettili dei nostri 47/32 che, all'impatto sulla corazza dei carri, schizzavano via innocui. Un gigantesco T-34 prosegui, inarrestabile, la sua corsa e travolse il pezzo comandato dal sergente Guglielmo Vari che, rimasto fino all'ultimo al suo posto, fu schiacciato sotto i cingoli.

Quando sulla steppa innevata calavano le ombre della sera i vari gruppi cercavano di raggiungere un villaggio per passare la notte al caldo di una isba; dormire all'addiaccio equivaleva ad andare incontro all'assideramento. Non sempre era possibile dare una sistemazione a tutti e a volte accadeva che proprio i reparti che durante il giorno avevano sostenuto il peso maggiore degli scontri, quando arrivavano nei paesi, trovavano le isbe già occupate da torme di sbandati, dai tedeschi prepotenti e dai soliti furbi.

Una notte Enrico, trovato fortunatamente rifugio in una casa, si tolse gli scarponi e si addormentò. Al mattino presto dovette ripartire in fretta per il pericolo di un accerchiamento sovietico, ma gli scarponi non entravano più nei piedi gonfi e usci scalzo nella steppa gelata. Camminò cercando di non fermarsi per non congelare e poi durante una sosta riuscì finalmente ad avvolgere i piedi con dei pezzi di stoffa, non prima, però, di averli frizionati energicamente con della neve per riattivare la circolazione. Da quel giorno imparò a fasciarli con delle pezze di stoffa e ritagli di teloni dei muli, metodo sbrigativo ma più efficiente degli scarponi chiodati che aveva in dotazione, che si irrigidivano col gelo e bloccavano la circolazione favorendo il congelamento.

Nello specchio D del suo foglio matricolare è annotato, oltre alla ferita ricevuta a Nikolajewka, anche un congelamento di 2° grado al piede destro, conseguenza probabile di quella disavventura. Alle ore 3 del 22 gennaio i resti dell'8° Reggimento Alpini e del Gruppo Conegliano, al comando del colonnello Cimolino, raggiunsero l'abitato di Nowo Georgewskij e si fermarono per riposare qualche ora. Alle 10.30, quando i reparti cominciarono ad incolonnarsi per la partenza, vennero improvvisamente attaccati da truppe sovietiche autotrasportate e dotate di carri armati (8 secondo Chiapponi). Una parte dei reparti italiani erano ancora sparsi per il paese e quindi non in grado di opporre una resistenza organizzata. Un gruppo di slitte cariche di feriti, sorprese nella piazzetta del villaggio, vennero prese a cannonate e poi travolte dai carri russi he massacravano inesorabilmente uomini e muli senza nessuna pietà.

Il colonnello Cimolino, visto lo scempio che veniva fatto degli alpini feriti e indifesi, decise la resa. Al capitano Magnani che incaricato di offrire la resa insisteva invece per fuggire, obiettando che i feriti sarebbero stati uccisi comunque, il colonnello Cimolino, pur sapendo che la fuga era ancora possibile e avrebbe permesso di salvare il Comando, replicò: "Comunque, se con la resa riusciremo a salvare anche un solo uomo, dobbiamo tentarlo!". Magnani obbedì e il Comando dell'8°, quasi al completo, fu fatto prigioniero. Cimolino, nobile e paterna figura di comandante, che aveva rifiutato la salvezza personale per tentare di salvare quella dei suoi uomini, fini i suoi giorni in prigionia, come tanti dei suoi ufficiali e soldati.

Nell'intervallo di tempo intercorso durante la capitolazione, una parte degli alpini e artiglieri riuscì a sfuggire alla cattura guadagnando di corsa la balka che si apriva subito a ovest del paese. Anche Chiapponi fu tra i pochi favoriti dalla sorte. Per sfuggire ai colpi sparati dai carri armati adottarono una tattica semplice quanto efficace: quando i carri giravano la torretta col cannone verso di loro si buttavano a terra mimetizzandosi nella neve, quando la giravano in altre direzioni ne approfittavano per compiere sbalzi e allontanarsi dal raggio d'azione. Riuscirono cosi, con un po' di fortuna, ad allontanarsi da quella zona martoriata dove tanti commilitoni avevano già perso la vita.

Finalmente, dopo ore di cammino, videro da lontano una grossa formazione di soldati italiani in marcia: si trattava della Divisione Alpina Tridentina. Per dei poveri alpini, malridotti, sbrindellati e ormai al limite delle forze, vedere dei loro compagni d'armi ancora inquadrati in reparti efficienti fu una visione da sogno. Il gruppetto di cui faceva parte Enrico si aggregò subito alla colonna. Un ufficiale della Tridentina chiese se erano disposti a combattere e avuta risposta affermativa consegnò ad ognuno un fucile "modello 91" (fucile ormai antiquato in dotazione già dalla Prima Guerra Mondiale), visto che nella fuga precipitosa da Nowo Georgewskij avevano abbandonato armi e zaino.

Da quel momento seguirono le sorti e le vicissitudini della Tridentina che si diresse a marce forzate verso Nikolajewka. I russi cercarono più volte di sbarrarle la strada verso la libertà, a Scheljakino, Warwarowka, Nikitowka, Arnautowo e tante altre località, ma ogni volta il sacrificio e la determinazione degli alpini ebbero il sopravvento, anche se il numero dei morti, feriti e congelati aumentava continuamente. I resti della Cuneense, della Divisione di Fanteria Vicenza e del Comando della Julia si diressero invece verso Valuiki. Il Comando del Corpo d'Armata Alpino tentò invano di mettersi in contatto con i resti di quelle Divisioni per avvisarli che la località era caduta in mano ai sovietici e di dirigersi verso Nikolajewka, ma ogni tentativo fu inutile per l'inefficienza delle comunicazioni radio e la colonna fini, inesorabilmente, nelle mani del nemico.

Quando i reparti della Cuneense erano arrivati nei pressi di Scheljakino un aereo tedesco (una cicogna) atterrò con l'ordine specifico di prendere a bordo il generale Battisti, comandante della Divisione, per portarlo in salvo, ma questi rifiutò dicendo che preferiva restare a fianco dei suoi uomini. Al suo posto fece caricare due feriti ed egli segui la sorte dei suoi alpini. Nei pressi di Valuiki, il 26 e 27 gennaio caddero prigionieri, insieme ai loro soldati che non avevano mai abbandonato, il generale Battisti, il generale Ricagno comandante della Julia e il generale Pascolini comandante della Vicenza. La colonna della Tridentina, nel frattempo, aveva proseguito nella sua marcia seguita da sbandati e da soldati non più in grado di combattere appartenenti a diverse Divisioni e nazionalità; questi uomini formavano un serpentone lungo parecchi chilometri e a volte si frammischiavano ai reparti combattenti intralciandone la marcia. La Divisione arrivò in vista di Nikolajewka il mattino del 26 gennaio 1943 e trovò nuovamente ad attenderla un poderoso sbarramento russo, attestato sul terrapieno della ferrovia che passava a fianco del paese.

In testa alla colonna si trovavano i battaglioni del 6° Reggimento Alpini (Vestone, Verona e Valchiese), alcuni reparti del Genio Alpini, la 32a batteria del Gruppo Bergamo e alcuni semoventi tedeschi. Alle 9.30 del mattino questi reparti, seppure esigui, ridotti come effettivi e armamento, furono mandati all'assalto delle forti postazioni russe. La battaglia, dall'esito incerto, infuriò subito durissima. Dopo alcune ore giunsero finalmente i rinforzi costituiti dai resti del 5° Reggimento Alpini (battaglioni Edolo e Tirano) e dai Gruppi di Artiglieria Alpina Vicenza e Val Camonica, attardati nella marcia dagli scontri sostenuti in precedenza a Nikitowka. Enrico arrivò sulla collinetta di fronte a Nikolajewka insieme ai pochi superstiti della Julia e della Cuneense aggregatisi alla Tridentina.

Con lui erano quattro amici fraterni coi quali aveva condiviso tutte le vicissitudini della ritirata: Terpin, Florian, Bolzoni e Bianchet Antonio di Belluno. In vista dello scontro ormai imminente i cinque amici promisero di aiutarsi a vicenda, soprattutto nel caso che qualcuno di loro fosse stato ferito. "In quello stesso momento, a poca distanza, vedemmo il generale Reverberi parlare in modo concitato con altri ufficiali"; racconta Enrico, "ad un tratto, decisamente, egli alzò il braccio e gridò: "Avanti Tridentina". Il generale, salito su un semovente tedesco, guidò personalmente l'attacco trascinando gli uomini con l'esempio. Un istante dopo, il tenente Pio Marelli, Aiutante Maggiore in II del Battaglione Gemona, uno dei pochi ufficiali dell'8° sfuggiti alla cattura a Nowo Georgewskij, in sella ad un cavallo bianco incitò i suoi uomini al grido di "Avanti Gemona". Enrico con i suoi amici e altri superstiti si accodarono al Battaglione Edolo della Tridentina e andarono all'assalto.

In fondo alla collinetta, davanti al sottopasso della ferrovia, Chiapponi arrivò da solo e ferito all'avambraccio sinistro da una scheggia di mortaio. Subito fu soccorso da un maresciallo della Compagnia Comando, Girolamo Zuradelli, da un sergente friulano e da un alpino cornigliese, i quali gli legarono il braccio con una corda per arrestare l'emorragia e poi lo fasciarono con una fascia mollettiera che gli tolsero da una gamba. L'alpino cornigliese, che poi resterà con loro fino a Belgorod, ma del quale purtroppo non ricorda il nome, commentò con una frase in dialetto poco incoraggiante: "Che bruta ferida, an so miga se chilò l'artunarà a cà". Mentre lo stavano medicando, Enrico girò lo sguardo verso la collina da cui erano scesi e gli sembrò di vedere un grosso gregge di pecore al pascolo: erano i morti e i feriti che giacevano riversi nella neve.

Questo tremendo scontro, durato dieci ore, permise al nostro Corpo d'Armata e a migliaia di sbandati di uscire dalla sacca, ma il costo fu altissimo perché circa 6.000 uomini vi persero la vita. Tanti feriti, che in altre situazioni si sarebbero potuti salvare, furono abbandonati sul campo di battaglia. "Dolore e pietà si alternavano nel mio animo", rammenta Enrico, "ma non si poteva far nulla per loro, perché mancavano i mezzi per soccorrerli". Dei suoi amici rivide solo Bianchet che, a sua volta ferito ad una gamba, fu fatto trasportare in una isba dal maresciallo Zuradelli, mentre degli altri non seppe più nulla. Per Bianchet Antonio essi avevano già predisposto il trasporto su una slitta, ma nella notte qualcuno rubò il mulo che doveva trainarla e il mattino seguente, impotenti, dopo averlo salutato col cuore gonfio di tristezza, dovettero abbandonarlo al suo destino. Come lui centinaia di feriti, non più in grado di camminare e che nessuno aveva più la forza di trasportare, furono abbandonati sperando in una improbabile clemenza del nemico.

Paride Rastelli un caro amico di Enrico, nativo di Felegara, anche lui del Gemona, racconta cosi la sua tremenda esperienza personale vissuta nella ritirata e il tragico destino dei feriti: "Qualcuno provava ad attaccarsi alle gambe del passante implorando "aiutami, non lasciarmi morire qui" ma il passante era anche lui uno degli ultimi, sfinito, senza più forza per poterlo aiutare. A 38 gradi sotto zero buttai via la coperta perché non ce la facevo più a portarla. Quale aiuto avrei potuto dare ad uno che aveva bisogno di farsi portare? Dove potevo pensare di portare un moribondo dal momento che nemmeno io sapevo dove stavo andando?".

Poco dopo i fatti di Nikolajewka, Enrico incontra casualmente Paride Rastelli il quale, felicissimo di averlo ritrovato, tira fuori da una tasca una patata e gliela dona: "Era tutta nera come il carbone", dice Enrico, "ma in quella circostanza mi sembrò di non avere mai mangiato nulla di cosi buono in tutta la mia vita!". Paride era della sua stessa classe ed era partito per la Russia con la 116a Compagnia Armi d'Accompagnamento del Gemona comandata dal Capitano Rago, che poi morirà in prigionia. Nel novembre del 1942 fu trasferito al Comando di reggimento per partecipare ad un corso anti-paracadutisti. Paride si era trovato anche lui a Nowo Georgewskij, il 22 gennaio, quando il Comando dell'8° fu costretto ad arrendersi e il capitano Rago, il capitano Magnani, il colonnello Cimolino e altri ufficiali vennero fatti prigionieri. Lui si salvò rocambolescamente gettandosi giù per una vallata (probabilmente la stessa balka di cui parla Enrico) e poi accodandosi, dopo alcune ore, ad una colonna in transito formata da un centinaio di soldati con quattro slitte trainate da muli e cariche di feriti e congelati. Da quel momento, perso il suo reparto e tutti i conoscenti, prosegui a caso seguendo la colonna degli sbandati, dei feriti e dei congelati fino a Nikolajewka.

A volte la salvezza dipendeva da un puro caso, dalla fortuna di prendere una direzione invece di un'altra o da fattori imperscrutabili del destino. Chiapponi, in proposito, ricorda quanto accadde all'alpino Bertinelli di Medesano. Questi era un conducente delle salmerie ed era andato in Russia con gli stessi due muli avuti in dotazione nella campagna di Grecia. Nella ritirata i suoi muli trainarono una slitta con a bordo otto soldati feriti e congelati e, alla fine, riuscirono a caricarne un altro perché era piccolo "o corto come dice Enrico" e ci stava appena. Un giorno egli si trovò nel bel mezzo di una battaglia, il suo reparto fu circondato e ormai la resa sembrava l'unica alternativa possibile, ma Bertinelli, alpino forte e deciso, disse che lui non si sarebbe mai fatto prendere prigioniero e incitando i muli si inoltrò risoluto verso una pista nella steppa. Riuscì a passare indenne fra i nemici, forse sbalorditi dal suo ardire, forse distratti da altre necessità, oppure, semplicemente, si trovò davanti a qualcuno che in quel momento preferì non sparare e infierire su dei feriti. Il suo coraggio, comunque, gli permise di salvarsi e di portare in salvo gli uomini inermi caricati sulla slitta.

Dopo i fatti di Nikolajewka, i disagi per i superstiti del Corpo d'Armata Alpino e delle Divisioni aggregate non erano purtroppo finiti e per raggiungere Belgorod, il primo centro dove ricevettero finalmente un pasto caldo, degli indumenti e delle cure, dovettero marciare ancora per sei giorni percorrendo centinaia di km a piedi. A Belgorod, finalmente, i feriti e i congelati furono caricati su automezzi e trasportati all'ospedale militare di Karkow. Dal foglio matricolare, Enrico risulta ricoverato il 1° febbraio 1943 nell'ospedale da campo n.8 (probabilmente Karkow dove egli ricorda di essere stato trasportato in camion dopo l'arrivo a Belgorod). Dell'ospedale di Karkow egli rammenta il grande stanzone pieno di feriti; si dormiva su materassi a terra e gli uomini, in grado di camminare, si recavano da soli in infermeria per ricevere le cure necessarie. Alla funzione di gabinetto (bagno per i bisogni corporali) era adibito un angolo dello stanzone che ogni giorno si ingrossava e puzzava sempre più. Finalmente, il 7 febbraio successivo venne trasbordato su treno ospedale per il rimpatrio e dopo otto giorni di viaggio giunse all'ospedale militare di Loano, dove risulta ricoverato il 15 febbraio 1943. La sua lunga degenza a Loano dura fino al 26 giugno 1943, quando viene dimesso e mandato a casa in licenza di convalescenza di novanta giorni.

Termina cosi la parte più tragica dell'odissea vissuta dall'alpino Chiapponi Enrico all'età di vent'anni e conclusasi, almeno per lui, con un esito felice, ma con l'animo scosso e profondamente angosciato dal ricordo dei tanti amici morti nella steppa innevata, ai quali, in quelle drammatiche circostanze, non fu umanamente possibile essere né di aiuto né di conforto.

Nessun commento:

Posta un commento