Tutto il materiale proposto fa riferimento all'articolo 70 comma 1 della legge numero 633 del 22 Aprile 1941 che cita "Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l'utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali".
Il Corpo d'Armata Alpino non si arrende, di Julius Bogatasvo - terza parte.
Erano ormai le tre di notte; fra poco sarebbe sorta l'alba e forse sarebbe stato già troppo tardi; bisognava tornar fuori ad ogni costo, ributtarsi sulla neve ghiacciata, sulle fantomatiche tracce di un battaglione che era scomparso nel buio, volatilizzato nella notte fonda, fra quelle tenebre ingannatrici. Russi... alpini... alpini... Russi; chissà dov'erano gli uni e dove stavano cercando riparo gli altri... Un'occhiata alla bussola; un balzo fuori, lui, Damini, e Sanguinetti alle calcagna. La linea... ma chissà dov'è la linea. Occorre prudenza, cautela per non finire in bocca al nemico; certo l'esperienza di quella pattuglia dev'essere stata tragica; credere di trovare degli amici e imbattersi a faccia a faccia con il nemico!
Le mani erano contratte sul mitra, la cui canna fendeva il buio come un sinistro braccio metallico che sporgeva dal curioso giubbone senza maniche col pelo all'interno. Ogni tanto la mano correva anche al tascapane, per vedere se le bombe a mano fossero ancora lì, al sicuro. Tascapane e mitra erano gli unici oggetti neri a sporgere dalla tuta mimetica che avvolgeva il corpo come un bianco sudario. All'improvviso Damini fece un cenno a Sanguinetti. Delle ombre bianche s'erano mosse nell'oscurità. Ombre con tute mimetiche, identiche a quelle portate dagli alpini... Alpini o Russi? Anche i Russi (erano, infatti, loro) s'arrestarono di colpo, colti dal medesimo dubbio: Nostri o nemici? Sarebbe bastato un comando secco: "Stoi!" e una raffica, perché a quella distanza la morte degli avversari fosse Sicura. Ma l'apparizione era stata troppo improvvisa e subitanea per poter reagire. E quando Damini aprì bocca disse proprio quello che non doveva dire; gli usci, chissà perché: "Alpini, di che compagnia siete?".
Ma i Russi non risposero; s'erano già dileguati, preferendo non ingaggiare battaglia, per non attirare l'attenzione di altri Italiani, forse, su truppe assai maggiori impegnate in ben altre incombenze che non quelle del pattugliamento... Oppure no... Chi lo sapeva... Veniva da piangere e Damini si morse le labbra in silenzio. Il cammino ripreselento, circospetto. In quell'istante una raffica vicinissima sibilò attorno ai due. I Russi s'erano appostati poco distante, pronti a cogliere gli Italiani in una trappola mortale. In quel momento la steppa appariva pullulante di bianchi fantasmi. No, non era possibile, doveva essere un'allucinazione. Eppure si stava sparando; quella raffica ne aveva attirate altre; ma erano colpi inconfondibili di armi russe... e allora? Allora niente, non bisognava rispondere; meglio filare alla svelta; ma dov'era il Val Cismon? Dov'erano gli alpini?
Quattro puntini bianchi: due ufficiali e due alpini, tutti in tuta mimetica, quattro vite sospese a un filo; quello erano in quel preciso istante Damini, Sanguinetti e i due "bocia". Ecco una balka; meglio infilarsi lì vicino, cercare di raggiungerla, ma carponi stavolta, con il passo del gattino, scivolando sulla coltre rilucente. Si udivano dei rumori, come un parlottare sommesso. Damini tese le orecchie, cercando di distinguere se si trattasse di Italiani o di Russi. No, niente da fare: erano Russi e molti anche, tanti. Ma com'era possibile? Quello non era più uno sfondamento, era un dilagare... come un fiume che avesse rotto gli argini, come la piena di un torrente gonfiato dalle acque primaverili fino a scoppiare, a invadere i campi circostanti. Bisogna ancora cambiare direzione, allontanarsi anche da lì. Ma dove andare? Come non perdere l'orientamento in mezzo a quella distesa bianca senza segni di riconoscimento, senza confini? Meglio tornare indietro, cercare di riprendere collegamento con le linee. Altrimenti si rischiava di essere inghiottiti da quel nulla.
Ancora altri sforzi, un lasciare, in silenzio perfetto, dietro le spalle quel luogo pericoloso: poi, quando la distanza di sicurezza era stata raggiunta, un mettersi in piedi di colpo, un gettarsi a camminare talmente di fretta da correre, quasi, guardando qua e là, cercando di fendere quel buio, quella caligine, agitando dinanzi a sè il mitragliatore silenzioso come uno spauracchio; per farsi coraggio, anche. Si camminava da un'ora, ormai. Le lancette fosforescenti dell'orologio venivano consultate a ogni piè sospinto, ma parevano immobili tanto il tempo scorreva lentamente; eppure non s'era smesso un solo secondo di camminare, agitando le braccia in segno di via libera, non dicendo una parola per non attirare qualche nemico in agguato. Fu in quell'istante che si udi un grido nell'oscurità: "Alt!". ...seguito poco dopo da un rassicurante "Chi va là?". Erano proprio loro, quelli del Val Cismon. Ridotti allo stremo, con l'umore a terra, ma ancora vigili.
Si trattava di dieci uomini sprofondati nella neve accanto a un piccolo ponticello di legno. L'unica arma, una mitragliatrice pesante, sembrava poca cosa di fronte a infiltrazione nemica in quella direzione. "Come mai vieni da quella parte?", urlò un alpino dopo il "chi va là"; "non ti hanno preso i Russi?". Damini involontariamente sorrise; la calma di cui dava prova quell'uomo era ammirevole; eppure quegli alpini da tre ore erano immobili e silenziosi nei pressi dell'arma ed era dalla mattina presto che non toccavano cibo. Damini si affrettò a chiedere notizie del battaglione Val Cismon: "Dovevamo prendere posizione più avanti", risposero quelli, "ma abbiamo trovato i Russi: un nostro plotone che si era fatto più in là e si era impegnato ha avuto la peggio. Il nostro comandante, il capitano Valente, ha tentato invano un attacco con la compagnia; ma i Russi erano ormai troppo saldi nella posizione, possedevano dei cannoncini e l'azione è stata impossibile. Adesso siamo schierati lungo la balka, della quale noi siamo la punta. Abbiamo avuto molte perdite e prigionieri anche, a causa delle posizioni del nemico, sconosciute. I Russi si sono cacciati tra di noi silenziosamente, all'improvviso. Ogni tanto ci prendevano a raffiche di mitragliatrice. C'è mancato un pelo che il battaglione non si disfacesse. Ma il capitano Valente è riuscito a tenerci in pugno e ci ha schierato qua. Come va negli altri settori?".
Damini era confuso di fronte a quella esposizione, cosi precisa, cosi pacata. Ma in fondo era anche contento di aver trovato degli uomini che in quei frangenti non avevano perso il controllo dei propri nervi. Perciò, per infondere un po' di coraggio, Damini spiegò alle dieci penne nere del Val Cismon che tutto, sul fronte, andava bene e che solo lì si stava verificando un tentativo di penetrazione da parte russa. Pensò poi a quanto avrebbero potuto resistere quegli uomini sdraiati neve senza un riparo nè una buca nel terreno nè il calore di una fiamma cui esporre le membra intirizzite e prossime al congelamento. Loro e i loro compagni, (un centinaio di uomini in tutto) se ne stavano in silenzio attendendo il momento della verità.
La voce del Damini aveva intanto attirato l'attenzione di uno che lo bene; si trattava proprio del Capitano Valente: "Damini, sei tu?". "Si, sono io...". "Ma che cosa fai qui... come hai fatto...". Valente era meravigliato; come aveva potuto Damini giungere fino al Val Cismon completamente isolato? Ma lo sapeva che i Russi avevano sfondato proprio nel punto di congiunzione fra il Val Cismon e il Cividale e che i collegamenti con i reparti tedeschi sulla destra del battaglione erano completamente interrotti? Possibile che con il Sanguinetti e i due alpini fosse riuscito a passare indenne attraverso la breccia russa colma di truppe? Eppure era proprio accaduto questo; un miracolo. Ma era successo. E adesso Damini si trovava in carne ed ossa davanti a lui. Valente era sconvolto. Parlava di fretta, agitatissimo. Avrebbe voluto andarsene via subito da quel mattatoio senza scampo... ma c'era il dovere; era un ufficiale che aveva giurato e avrebbe rispettato il proprio grado, il proprio onore; avrebbe resistito sino alla fine.
Le parole gli uscivano una dietro l'altra senza interruzione; era l'effetto della tensione nervosa che cercava sfogo, della stanchezza mortale che gli si leggeva in volto, di tutte quelle ore insonni e febbrili. "I due apparecchi radio non funzionano... i telefonisti sono scomparsi con tutto il materiale... Damini, è un disastro ti dico... la situazione è disperata, disperata... prevedo che moriremo tutti senza che il nostro sacrificio giovi al momento... capisci Damini?". Damini non sapeva che cosa dire. Il suo pensiero era altrove. Doveva raggiungere al più presto il comando del Cividale, dove aveva lasciato la macchina, doveva riattraversare quella fascia di Russi... Cosi Damini si congedò da Valente e si ricacciò nel buio lasciando presso il Val Cismon Sanguinetti e due alpini. Il tenente si trovò quindi solo nell'immensità delle tenebre popolate a tratti dalle ombre furtive dei Russi.
Si dice Che quando un uomo è in pericolo, dentro di lui si risvegli l'istinto animale, quello che dovette indubbiamente possedere il suo primitivo antenato delle caverne. Certo è che quella sera Damini riuscì, per virtù di quest'istinto, a ritrovare, chissà come, la pista battuta che portava a Krinitsknaja, la località che gli alpini, al primo vederla, avevano soprannominato "Crist-che naja". Damini era soddisfatto di sé; finalmente poteva informare il comandante del Cividale, raccontandogli per filo e per segno quello che era successo. Ancora un balzo nella notte e sarebbe stato ben presto fra i suoi, a riferire.
È in questo modo, proprio come l'abbiamo narrato sulla scorta della testimonianza di un uomo, che ha inizio l'ultimo atto del Corpo d'Armata Alpino, la più tragica delle ritirate che mai storia di Russia ricordi, superiore, come perdite e come drammaticità, perfino a quella napoleonica. In questo quadro dalle tinte fosche, non c'è possibilità di scorgere sprazzi di luce o tinte ottimistiche. Nulla di nulla. La storia del Corpo d' Armata Alpino è amara, dal principio alla fine, è la vicenda di un valore senza fortuna e senza speranza. Eppure era cominciata quasi allegramente, con la presenza in terra russa di un solo battaglione, giunto nei primi mesi del 1942, al tempo del disgelo.
L'avevano detto tutti: il disgelo, a volte, è peggio del ghiaccio; state dunque attenti. Ma nessuno, di quelli del CSIR, aveva mostrato di credervi. La fine del freddo, il volger dell'anno verso temperature più sopportabili, era un avvenimento cosi fausto che ciascuno si sentiva rinascere; si aveva insomma la sensazione che il cuore si allargasse, che il petto respirasse meglio, che una nuova vita nascesse dentro un corpo stanco e logorato dalle battaglie sostenute nell'inverno. Una sorta di euforia, una voglia di fare, aveva contagiato ognuno, dal capitano all'ultima recluta, piovuta, per disgrazia o... fatalità, in quel fronte impossibile, dalla morte facile.
Dal 2011 camminiamo in Russia e ci regaliamo emozioni
Trekking ed escursioni in Russia sui campi di battaglia della Seconda Guerra Mondiale
Danilo Dolcini - Phone 349.6472823 - Email danilo.dolcini@gmail.com - FB Un italiano in Russia
sabato 16 luglio 2022
martedì 12 luglio 2022
Rapporto sui prigionieri, parte 18
Pubblico alcuni estratti del "Rapporto sui prigionieri di guerra italiani in Russia" a cura di Carlo Vicentini e Paolo Resta, fonte UNIRR, 2a edizione, anno 2005, a mio avviso la fonte più autorevole per fare chiarezza sulle perdite e sulle vicissitudini dei nostri soldati in Russia durante il secondo conflitto mondiale.
I TRATTENUTI.
I modesti risultati della pur martellante propaganda tra gli ufficiali, aveva indispettito le autorità russe ed i comunisti italiani incaricati di svolgerla. Minacce e lusinghe, trattamenti di favore per chi aderiva, stretto controllo del comportamento e dei discorsi dei renitenti, loro torchiamento con reiterati interrogatori diurni e notturni, avevano fatto poca presa sulla massa degli ufficiali. Non solo, ma quasi tutti si rifiutavano di firmare appelli ed indirizzi giacobini al popolo italiano, ringraziamenti alle autorità russe per il trattamento cui erano oggetto, plausi e glorificazioni all'eroica Armata Rossa, "apportatrice di libertà ai popoli d'Europa".
Nella loro contorta mentalità poliziesca gli ufficiali della NKVD ammettevano che gli italiani fossero cosi tetragoni a verità lampanti come il marxismo ed il leninismo, erano stupefatti che mettessero molto in dubbio tutte le stupefacenti conquiste sociali, economiche e politiche sbandierate dai loro libri, dai loro conferenzieri, dagli articoli de "L'ALBA". Secondo loro i casi erano due: o tutti gli ufficiali erano rimasti pervicacemente fascisti o erano subornati da alcuni elementi che sabotavano l'opera dei loro propagandisti. Non prendevano in considerazione la probabilità che i prigionieri avessero occhi e cervello, che prima della cattura, nelle zone occupate ed anche dopo, nei loro contatti con la realtà russa in occasione dei lavori all'esterno del lager, avessero potuto vedere e giudicare a sufficienza cosa fosse veramente il comunismo.
I russi, dunque, ritennero che il modo giusto per convincere i tiepidi e gli agnostici fosse quello di individuare ed isolare quelli che, secondo loro, mal consigliavano i colleghi ed intimorire quest'ultimi, non più con blande minacce ma con un concreto ed esemplare provvedimento punitivo. Il compito fu facilitato da un gruppo di prigionieri onestamente, a viso aperto, sbugiardavano e controbattevano i commissari, li mettevano in difficoltà o li ridicolizzavano durante le riunioni o conferenze. Questi prigionieri, agli interrogatori dei russi della NKVD, non si facevano scrupolo di rinfacciare loro l'infame trattamento subito dopo la cattura e la responsabilità della morte di migliaia di prigionieri; nelle discussioni tra colleghi, non avevano peli sulla lingua nel mettere in evidenza le idiozie e le infamie di chi scriveva su "L'ALBA" e sul giornale murale ed il comportamento indegno ed anti italiano di chi firmava certi appelli. Erano sentimenti e ragionamenti che quasi tutti condividevano, ma non era saggio proclamarli ai quattro venti in un ambiente dove la libertà di parola e di pensiero era considerata un delitto e tutto era da permeato da menzogne, inganno, spionaggio e delazione.
Il provvedimento, maturato lungo tempo, fu preso gennaio del 1945. Tredici ufficiali ed un sergente (quest'ultimo un infiltrato con funzioni di spia) furono trasferiti dal campo degli ufficiali di Suzdal nel campo di punizione di Susslongher nella Repubblica Autonoma dei Mari, una regione oltre il Volga. Contemporaneamente anche il tenente medico Reginato, che nel frattempo era stato inviato, come parecchi altri medici italiani, in lager dei soldati a svolgervi assistenza sanitaria, fu prelevato e mandato a Susslongher. Nel nuovo campo la disciplina era durissima, le angherie. le percosse e le perquisizioni continue; per ogni nonnulla i prigionieri venivano messi in carcere in un bunker interrato senza riscaldamento.
Quando nel giugno del 1946, tutti gli altri ufficiali italiani rinchiusi a Suzdal furono mandati ad Odessa per il rimpatrio, anche una parte di quelli isolati a Susslongher, li raggiunsero, ma quale non fu la loro sorpresa quando, invece di partire con gli altri per l'Italia, furono mandati a Kiev dove trovarono quelli dai quali si erano separati qualche settimana prima nel campo di punizione. Nel nuovo campo i nostri "reazionari" (cosi erano stati bollati dai russi) trovarono quindici soldati italiani provenienti dal campo di Pakta Aral. Anche loro erano stati trattenuti quando gli altri loro compagni erano partiti per l'Italia, sei mesi prima. La ragione del mancato rimpatrio era la stessa che per gli ufficiali: nessuna concessione alla propaganda, rifiuto di firmare appelli e false dichiarazioni, ma anche scarso rendimento al lavoro, tentativi di fuga, vendette di capi brigata, prigionieri italiani come loro.
I russi erano furibondi con questi ufficiali italiani che anziché piegarsi, diventavano sempre più refrattari, insolenti, motivo di disordine e cattivo esempio per i prigionieri delle altre nazionalità egualmente isolati nello stesso campo di punizione. Gli italiani reagivano con scioperi della fame alle angherie, continuavano a scrivere istanze e proteste alle autorità del campo ed a quelle centrali, si rifiutavano di lavorare, davano risposte sprezzanti agli interrogatori, rifiutavano di sottoscrivere qualsiasi verbale. Così imbastirono contro di essi una serie di processi farsa, accusandoli delle cose più assurde. Processi che si concludevano nel giro di poche ore, dove sfilavano testimoni civili russi terrorizzati e dove il difensore d'ufficio era più ostile del pubblico accusatore.
Tra la fine del 1948 ed i primi del 1949, tutti gli ufficiali italiani trattenuti, vennero condannati a pene variabili dai 10 ai 25 anni di lavori forzati per "attività antisovietica". Da allora, ognuno di essi ebbe storie differenti, perché sparpagliati in campi e carceri diversi che, oltretutto venivano cambiate con frequenza. Nel 1950 si ritrovarono quasi tutti nelle carceri di Kiev mentre i tre generali Battisti, Ricagno e Pascolini, "ospiti" del lager 7062/11 di Kiev, stavano per essere rimpatriati. Nel novembre 1950, tutti gli italiani condannati furono raggruppati nel campo di lavoro di Providanka, vicino a Stalino, dove rimasero fino al giugno 1953. In questi tre anni, malgrado la gravosità del lavoro, la vita migliorò sensibilmente anche perché era stato loro concesso di ricevere pacchi dall'Italia. Dopo altri trasferimenti, finalmente nel gennaio del 1954, gli ultimi dodici prigionieri dell'ARMIR varcarono il confine e rientravano in Patria, dopo dodici anni di assenza.
Qualche caso merita un accenno a parte. I tre generali furono catturati a Valuiki il 27 gennaio 1943. Con un piccolo aereo vennero trasferiti a Bobrov, sede del Comando di Vassilievski, dove subirono un primo interrogatorio da parte di questi. In seguito vennero trasferiti a Mosca nel carcere della Butiskaja dove rimasero fino al maggio 1943 sottoposti estenuanti interrogatori. Dopo un breve periodo nel campo di Suzdal insieme a tutti gli altri ufficiali italiani, vennero trasferiti al lager 7048 di Vojkovo e poi al 7062/11 con la maggior parte dei generali tedeschi. Il capitano dei carabinieri, Dante Jovino, catturato a Valuiki fu trasferito in un campo dell'Asia, poi alla Lubianka di Mosca (la prigione del NKVD) indi al campo 27 nei dintorni della capitale. Condannato ai lavori forzati ritornò in Siberia fino al 1950. Dopo fu portato a Stalingrado ed infine riunito agli altri italiani nel 1951.
Il marinaio Riccò fu preso dai tedeschi nel Dodecaneso ed internato in Polonia dove nel 1945 fu liberato dai russi che lo mandarono prima a Tambov, poi a Stalingrado per finire a Kiev ed essere condannato ai lavori forzati come gli ufficiali. Analoga sorte quella del sottotenente Boletti del 5° Alpini. Catturato dai tedeschi in Alto Adige l'otto settembre '43, fu deportato in Germania. Fuggì dal lager nazista ed andò a combattere con i partigiani polacchi. Arrivati i russi, lo arrestarono, lo accusarono di spionaggio e fu condannato a venti anni di campo di lavoro. Trascorse un lungo periodo nel lager di Vorkuta, non lontano dal Mar Glaciale Artico. Dopo essere passato per altri campi fu rinchiuso a Kiev con gli altri ufficiali italiani trattenuti, ma poi fatto girovagare ancora. Ritornò in Patria solo nel settembre del 1954.
Un breve supplemento di prigionia venne inflitto anche ad un folto gruppo di ufficiali, al momento del rimpatrio. Quando la tradotta con tutti gli ufficiali giunse in Romania, cinquanta di loro furono trattenuti, evidentemente in ostaggio, in attesa delle reazioni che si sarebbero prodotte in Italia al rientro del gruppo principale. La scelta fu fatta da Robotti, appositamente giunto da Mosca, con la collaborazione degli ufficiali italiani comunisti. Rientrarono circa un mese dopo.
I TRATTENUTI.
I modesti risultati della pur martellante propaganda tra gli ufficiali, aveva indispettito le autorità russe ed i comunisti italiani incaricati di svolgerla. Minacce e lusinghe, trattamenti di favore per chi aderiva, stretto controllo del comportamento e dei discorsi dei renitenti, loro torchiamento con reiterati interrogatori diurni e notturni, avevano fatto poca presa sulla massa degli ufficiali. Non solo, ma quasi tutti si rifiutavano di firmare appelli ed indirizzi giacobini al popolo italiano, ringraziamenti alle autorità russe per il trattamento cui erano oggetto, plausi e glorificazioni all'eroica Armata Rossa, "apportatrice di libertà ai popoli d'Europa".
Nella loro contorta mentalità poliziesca gli ufficiali della NKVD ammettevano che gli italiani fossero cosi tetragoni a verità lampanti come il marxismo ed il leninismo, erano stupefatti che mettessero molto in dubbio tutte le stupefacenti conquiste sociali, economiche e politiche sbandierate dai loro libri, dai loro conferenzieri, dagli articoli de "L'ALBA". Secondo loro i casi erano due: o tutti gli ufficiali erano rimasti pervicacemente fascisti o erano subornati da alcuni elementi che sabotavano l'opera dei loro propagandisti. Non prendevano in considerazione la probabilità che i prigionieri avessero occhi e cervello, che prima della cattura, nelle zone occupate ed anche dopo, nei loro contatti con la realtà russa in occasione dei lavori all'esterno del lager, avessero potuto vedere e giudicare a sufficienza cosa fosse veramente il comunismo.
I russi, dunque, ritennero che il modo giusto per convincere i tiepidi e gli agnostici fosse quello di individuare ed isolare quelli che, secondo loro, mal consigliavano i colleghi ed intimorire quest'ultimi, non più con blande minacce ma con un concreto ed esemplare provvedimento punitivo. Il compito fu facilitato da un gruppo di prigionieri onestamente, a viso aperto, sbugiardavano e controbattevano i commissari, li mettevano in difficoltà o li ridicolizzavano durante le riunioni o conferenze. Questi prigionieri, agli interrogatori dei russi della NKVD, non si facevano scrupolo di rinfacciare loro l'infame trattamento subito dopo la cattura e la responsabilità della morte di migliaia di prigionieri; nelle discussioni tra colleghi, non avevano peli sulla lingua nel mettere in evidenza le idiozie e le infamie di chi scriveva su "L'ALBA" e sul giornale murale ed il comportamento indegno ed anti italiano di chi firmava certi appelli. Erano sentimenti e ragionamenti che quasi tutti condividevano, ma non era saggio proclamarli ai quattro venti in un ambiente dove la libertà di parola e di pensiero era considerata un delitto e tutto era da permeato da menzogne, inganno, spionaggio e delazione.
Il provvedimento, maturato lungo tempo, fu preso gennaio del 1945. Tredici ufficiali ed un sergente (quest'ultimo un infiltrato con funzioni di spia) furono trasferiti dal campo degli ufficiali di Suzdal nel campo di punizione di Susslongher nella Repubblica Autonoma dei Mari, una regione oltre il Volga. Contemporaneamente anche il tenente medico Reginato, che nel frattempo era stato inviato, come parecchi altri medici italiani, in lager dei soldati a svolgervi assistenza sanitaria, fu prelevato e mandato a Susslongher. Nel nuovo campo la disciplina era durissima, le angherie. le percosse e le perquisizioni continue; per ogni nonnulla i prigionieri venivano messi in carcere in un bunker interrato senza riscaldamento.
Quando nel giugno del 1946, tutti gli altri ufficiali italiani rinchiusi a Suzdal furono mandati ad Odessa per il rimpatrio, anche una parte di quelli isolati a Susslongher, li raggiunsero, ma quale non fu la loro sorpresa quando, invece di partire con gli altri per l'Italia, furono mandati a Kiev dove trovarono quelli dai quali si erano separati qualche settimana prima nel campo di punizione. Nel nuovo campo i nostri "reazionari" (cosi erano stati bollati dai russi) trovarono quindici soldati italiani provenienti dal campo di Pakta Aral. Anche loro erano stati trattenuti quando gli altri loro compagni erano partiti per l'Italia, sei mesi prima. La ragione del mancato rimpatrio era la stessa che per gli ufficiali: nessuna concessione alla propaganda, rifiuto di firmare appelli e false dichiarazioni, ma anche scarso rendimento al lavoro, tentativi di fuga, vendette di capi brigata, prigionieri italiani come loro.
I russi erano furibondi con questi ufficiali italiani che anziché piegarsi, diventavano sempre più refrattari, insolenti, motivo di disordine e cattivo esempio per i prigionieri delle altre nazionalità egualmente isolati nello stesso campo di punizione. Gli italiani reagivano con scioperi della fame alle angherie, continuavano a scrivere istanze e proteste alle autorità del campo ed a quelle centrali, si rifiutavano di lavorare, davano risposte sprezzanti agli interrogatori, rifiutavano di sottoscrivere qualsiasi verbale. Così imbastirono contro di essi una serie di processi farsa, accusandoli delle cose più assurde. Processi che si concludevano nel giro di poche ore, dove sfilavano testimoni civili russi terrorizzati e dove il difensore d'ufficio era più ostile del pubblico accusatore.
Tra la fine del 1948 ed i primi del 1949, tutti gli ufficiali italiani trattenuti, vennero condannati a pene variabili dai 10 ai 25 anni di lavori forzati per "attività antisovietica". Da allora, ognuno di essi ebbe storie differenti, perché sparpagliati in campi e carceri diversi che, oltretutto venivano cambiate con frequenza. Nel 1950 si ritrovarono quasi tutti nelle carceri di Kiev mentre i tre generali Battisti, Ricagno e Pascolini, "ospiti" del lager 7062/11 di Kiev, stavano per essere rimpatriati. Nel novembre 1950, tutti gli italiani condannati furono raggruppati nel campo di lavoro di Providanka, vicino a Stalino, dove rimasero fino al giugno 1953. In questi tre anni, malgrado la gravosità del lavoro, la vita migliorò sensibilmente anche perché era stato loro concesso di ricevere pacchi dall'Italia. Dopo altri trasferimenti, finalmente nel gennaio del 1954, gli ultimi dodici prigionieri dell'ARMIR varcarono il confine e rientravano in Patria, dopo dodici anni di assenza.
Qualche caso merita un accenno a parte. I tre generali furono catturati a Valuiki il 27 gennaio 1943. Con un piccolo aereo vennero trasferiti a Bobrov, sede del Comando di Vassilievski, dove subirono un primo interrogatorio da parte di questi. In seguito vennero trasferiti a Mosca nel carcere della Butiskaja dove rimasero fino al maggio 1943 sottoposti estenuanti interrogatori. Dopo un breve periodo nel campo di Suzdal insieme a tutti gli altri ufficiali italiani, vennero trasferiti al lager 7048 di Vojkovo e poi al 7062/11 con la maggior parte dei generali tedeschi. Il capitano dei carabinieri, Dante Jovino, catturato a Valuiki fu trasferito in un campo dell'Asia, poi alla Lubianka di Mosca (la prigione del NKVD) indi al campo 27 nei dintorni della capitale. Condannato ai lavori forzati ritornò in Siberia fino al 1950. Dopo fu portato a Stalingrado ed infine riunito agli altri italiani nel 1951.
Il marinaio Riccò fu preso dai tedeschi nel Dodecaneso ed internato in Polonia dove nel 1945 fu liberato dai russi che lo mandarono prima a Tambov, poi a Stalingrado per finire a Kiev ed essere condannato ai lavori forzati come gli ufficiali. Analoga sorte quella del sottotenente Boletti del 5° Alpini. Catturato dai tedeschi in Alto Adige l'otto settembre '43, fu deportato in Germania. Fuggì dal lager nazista ed andò a combattere con i partigiani polacchi. Arrivati i russi, lo arrestarono, lo accusarono di spionaggio e fu condannato a venti anni di campo di lavoro. Trascorse un lungo periodo nel lager di Vorkuta, non lontano dal Mar Glaciale Artico. Dopo essere passato per altri campi fu rinchiuso a Kiev con gli altri ufficiali italiani trattenuti, ma poi fatto girovagare ancora. Ritornò in Patria solo nel settembre del 1954.
Un breve supplemento di prigionia venne inflitto anche ad un folto gruppo di ufficiali, al momento del rimpatrio. Quando la tradotta con tutti gli ufficiali giunse in Romania, cinquanta di loro furono trattenuti, evidentemente in ostaggio, in attesa delle reazioni che si sarebbero prodotte in Italia al rientro del gruppo principale. La scelta fu fatta da Robotti, appositamente giunto da Mosca, con la collaborazione degli ufficiali italiani comunisti. Rientrarono circa un mese dopo.
Le fotografie di Mario Bagnasco, 20
Le fotografie di Mario Bagnasco, Primo Capo Squadra o Capo Squadra della Legione CC.NN. "Valle Scrivia".
Questa è una delle fotografie più interessanti della serie: "Guardia civile".
Questa è una delle fotografie più interessanti della serie: "Guardia civile".
lunedì 11 luglio 2022
I caduti di Pasturo
Qualche settimana fa durante uno dei miei giri solitari in montagna, mentre salivo verso la vetta della Grigna, partendo da Pasturo, ho trovato questa piccola cappella degli Alpini, dedicata a tutti i caduti in guerra. In particolare mi soffermo sui caduti di Russia, come sempre... 16 ragazzi, in maggioranza Alpini, mai più tornati a casa. 16 ragazzi morti in prigionia o dispersi per sempre in quelle terre lontane.
Ho verificato tutti quanti sul database di UNIRR e li ho raffrontati alla popolazione del paese nel censimento del 1936, quello più vicino a quei tragici eventi. Grazie agli Alpini che li hanno così ricordati.
Ho verificato tutti quanti sul database di UNIRR e li ho raffrontati alla popolazione del paese nel censimento del 1936, quello più vicino a quei tragici eventi. Grazie agli Alpini che li hanno così ricordati.
mercoledì 22 giugno 2022
martedì 21 giugno 2022
Considerazioni sulla serata ad Arconate
Alcune considerazioni sulla serata tenuta ad Arconate, invitato dal Gruppo Alpini locale... due ore filate di presentazione; oltre cento slide fra immagini storiche, dati, cartine e fotografie personali; circa 50 persone presenti; tanta emozione e ormai la capacità di trasmettere a tutti passione, dedizione ed interesse; i ringraziamenti e i complimenti per la riuscita delle serata. Chi mi conosce personalmente sa quanto io sia schivo e riservato di natura, poco incline a mettersi in mostra... ma con la Campagna di Russia evidentemente tutto questo viene sovvertito naturalmente; per me ormai è una missione raccontare di quei ragazzi, parlare di loro, raccontare anche le loro singole storie. Pertanto se avete piacere ad organizzare un incontro pubblico presso un auditorium, una scuola, una sede, sono assolutamente disponibile a partecipare, anche all'intero di contesti più ampi e differenti.
domenica 19 giugno 2022
Rapporto sui prigionieri, parte 17
Pubblico alcuni estratti del "Rapporto sui prigionieri di guerra italiani in Russia" a cura di Carlo Vicentini e Paolo Resta, fonte UNIRR, 2a edizione, anno 2005, a mio avviso la fonte più autorevole per fare chiarezza sulle perdite e sulle vicissitudini dei nostri soldati in Russia durante il secondo conflitto mondiale.
IL RIMPATRIO.
Dopo l'uscita dell'Italia dalla guerra, i nostri governi (Badoglio, Bonomi, De Gasperi) si premurarono di chiedere ai sovietici notizie sulla sorte degli 80.000 prigionieri che loro stessi avevano dichiarato di aver catturato nell'inverno 1942-43. Nei primi mesi del 1944, il maresciallo Messe, allora Capo di Stato Maggiore, non riuscì ad avere nessuna informazione da una missione sovietica venuta in Italia. Parimenti il nostro Ambasciatore a Mosca, Piero Quaroni. Solo il 31 agosto 1945, il governo sovietico, con una nota dell'Ambasciata dell'URSS a Roma ed indirizzata al nostro Ministero degli Esteri, faceva conoscere che era stata disposta la liberazione di 19.640 prigionieri di guerra italiani, soldati e sottufficiali. Poiché nella comunicazione non si faceva cenno agli ufficiali, Quaroni fu incaricato di chiedere spiegazioni ai russi. In data 28 settembre 1945, Quaroni cosi risponde: "Il sig.Dekanozov quando gli parlai della questione dei nostri prigionieri, fece riserva solo per la riconsegna di un numero non rilevante di essi, accusati di crimini di guerra. Escludeva che parte sovietica fossero fatte eccezioni per altri gruppi di prigionieri e particolarmente per gli ufficiali".
Anche prima di tali scambi di note, l'Unione Sovietica restituì un centinaio di militari mutilati ma anche parecchi sanissimi soldati ed ufficiali. Non furono spiegati i criteri per la scelta di quest'ultimi, ma essi divennero chiari quando, quasi un anno dopo, rientrarono tutti gli altri ufficiali e si seppe che chi aveva goduto di un anticipo di rimpatrio, era tutta gente che aveva frequentato la scuola di Mosca e che dai loro articoli su "L'ALBA", avevano dimostrato assoluta dedizione alla causa comunista. Tuttavia, sempre secondo il contorto comportamento dei russi, tutti gli altri ufficiali sovietizzati furono fatti rimpatriare con la massa e di ciò, molti di essi si lamentarono. Si erano illusi di meritare un trattamento di favore (probabilmente loro promesso dai russi) rispetto a quei colleghi incalliti anticomunisti, che essi avevano attaccato con tanto livore dalle pagine del loro giornaletto.
L'effettivo rimpatrio della massa dei soldati avvenne dal settembre 1945 al marzo 1946 a gruppi di diversa grandezza e ad intervalli molto irregolari. Come è già stato detto, solo 10.087 dei suddetti prigionieri appartenevano all'ARMIR, cioè facevano parte degli 80.000 catturati nell'inverno '42-'43, gli altri erano internati militari dai tedeschi trovati dall'Armata Rossa nei lager nazisti. In genere i nostri soldati furono consegnati dai sovietici alle truppe Alleate di stanza in Austria e Germania ed il proseguimento verso l'Italia, avvenne in maniera caotica qualche volta con tradotte, ma sovente individualmente o a piccoli gruppi che viaggiavano indipendenti ed usufruivano di mezzi di fortuna. Dopo un periodo di quarantena a Pescantina (Verona) e per gli ammalati, a Merano, Bologna o sulla riviera adriatica, raggiunsero le proprie case alla spicciolata.
L'accoglienza della popolazione era improntata a due diametrali posizioni. Comprensione, simpatia, coinvolgimento nella drammatica avventura vissuta dai Reduci da una parte; freddezza e ostilità dall'altra. Questi miracolati avevano il torto di raccontare come i russi avevano trattato loro e quelli che non erano tornati, di raccontare che la Russia non era affatto il "paradiso dei lavoratori" e questo non collimava con le convinzioni di gran parte degli italiani di allora. Un certo numero di soldati fu trattenuto per altri dieci mesi per modeste mancanze disciplinari o per aperta ostilità nei confronti dei commissari politici o dei loro tirapiedi italiani cioè i capi brigata ed i guardiani (armati) dei propri connazionali.
Alla fine di aprile del 1946, iniziò il rimpatrio degli ufficiali, quasi tutti internati nel campo 160 di Susdal, con il loro trasferimento ad Odessa, prima in due campi dell'entroterra, in seguito in uno stabilimento balneare in riva al Mar Nero. Qui vennero raggiunti dagli ufficiali medici che negli anni precedenti erano stati distaccati in numerosi campi ed ospedali per svolgervi assistenza sanitaria. Raggiunsero Odessa anche gli ufficiali "laureati" alla Scuola di Mosca che erano stati mandati come propagandisti nei campi dei soldati, nonché lo staff italiano della predetta scuola e della redazione de "L'ALBA". Furono ancora aggregati a questo scaglione i soldati lasciati a terra con i rimpatri dell'autunno precedente ed un gruppo di altoatesini che avevano combattuto con la Wermacht e che tutto ad un tratto si erano scoperti italiani.
Tutta questa gente rimase ad Odessa fino al 6 giugno, dopodiché fu trasferita in Romania a Maramarost Sighed dove sostò una settimana. Qui vennero trattenuti 50 ufficiali, scelti a cura di Robotti e dei membri più influenti del Gruppo Antifascista. Gli altri proseguirono per l'Austria e dopo una sosta di un'altra settimana a S. Valentino, vicino a Linz, furono consegnati, non senza incidenti e reticenze di ogni genere, alle autorità di occupazione inglesi di Vienna che li instradarono per Tarvisio dove giunsero il 7 luglio. Un rimpatrio durato circa tre mesi, con soste in cinque campi diversi e dopo aver cambiato per sei volte tradotta.
Perché una simile tortuosa riconsegna dopo più di un anno dalla fine della guerra? Data per scontata la proverbiale disorganizzazione russa, la ragione di tale rimpatrio da lumaca, stava nella volontà dei sovietici - naturalmente sollecitati da Togliatti allora già al governo - di non far rientrare gli ufficiali prima del referendum istituzionale. La partenza da Odessa, infatti, avvenne dopo il 2 giugno che sanciva l'avvento della Repubblica. Ancora timorosi di come avrebbe reagito l'opinione pubblica ai racconti degli ufficiali su quanto avvenuto nei campi di prigionia ed ammaestrati da quanto era successo al rientro dei soldati - che avevano reagito con tafferugli e scazzottate ai "compagni" che erano andati ad accoglierli con bandiere rosse e gli stantii slogan che avevano dovuto sorbirsi per quattro anni - i comunisti italiani ottennero che rimanessero ancora in mano russa quali ostaggi, i cinquanta prigionieri fermati a Sighed. Il loro rimpatrio avvenne dopo un mese, quando fu chiaro che le testimonianze degli ufficiali non avrebbero dato eccessiva noia. Per ulteriore precauzione, era stato predisposto un efficace sbarramento. Nessuna autorità, nessun rappresentante ufficiale, sia civile che militare si fece vedere ad accogliere questi reduci, il cui ritorno era stato sbandierato come un atto di generosità dei sovietici. Non fu autorizzata la pubblicazione di un messaggio di saluto rivolto al popolo italiano che la quasi totalità degli ufficiali aveva sottoscritto.
La stampa relegò nelle pagine interne e solo in ambito locale sorse durissima la polemica tra i fogli di ispirazione comunista e socialista e quelli cattolici o borghesi. Per i primi erano rientrati gli ufficiali che avevano condotto i soldati italiani ad invadere l'Unione Sovietica ed farli morire a migliaia. Che questi ufficiali avessero ubbidito al pari dei soldati a degli ordini, che avessero semplicemente compiuto il dovere di ogni cittadino chiamato alle armi, come avviene in tutti gli stati del mondo, compreso quello russo, non aveva importanza. Che il 90% di loro fosse di complemento, cioè non di mestiere e che circa la metà fossero semplici sottotenenti, in pratica studenti poco più che ventenni - come i soldati - strappati dagli studi e mandati a combattere, nessuno ne teneva conto. Essi, in più, avevano una colpa fondamentale: non erano tornati entusiasti del comunismo, malgrado tutti gli sforzi dei commissari politici e del giornale "L'ALBA"; dunque, secondo il metro di valutazione adottato allora - ma in auge per molti anni ancora - erano pervicacemente fascisti.
Per i secondi, il prigioniero rientrato dalla Russia era un ottimo elemento da sfruttare per la lotta e per la propaganda anticomunista specialmente a fini elettorali. Da ultimo, la loro insistenza a raccontare che in Russia non c'erano più italiani vivi, salvo poche eccezioni bene individuate e note, li aveva invisi alle decine di migliaia di famiglie dei Dispersi, che li ritenevano male informati se non addirittura propalatori di notizie false per oscuri motivi. Questa fu l'accoglienza che trovarono in Patria i superstiti di quattro anni di durissima prigionia.
Di frequente, sulla stampa si è fatta l'ipotesi che molti nostri prigionieri non sono tornati perché si sono formati una famiglia e una nuova esistenza nell'Unione Sovietica. Anche un film, "I Girasoli" proiettato una ventina di anni fa, avvalorava questa possibilità, attribuendo ad un soldato italiano, la stessa vicenda di un prigioniero ungherese della prima guerra mondiale che era rimasto in Russia, s'era formato una famiglia e non si fa riconoscere dalla moglie che era andata a cercarlo. Che ciò sia avvenuto nella Russia del 1917 è molto verosimile: sono noti i casi di numerosi soldati trentini - che allora combattevano nell'esercito austriaco sul fronte russo - ritornati in Italia dopo quattro, sei, anche dieci anni dalla fine del conflitto con moglie russa e figli. Naturalmente è possibile che altri non abbiano voluto tornare e si siano fermati.
Quello che si è verificato allora, però, non può avvalorare una simile ipotesi per l'ultima guerra. Allora le circostanze erano completamente diverse: c'era la rivoluzione e la controrivoluzione; nelle campagne e nei distretti periferici, la confusione era al massimo e non esisteva ancora il controllo a tappeto, totale, capillare della polizia politica, in particolare sugli stranieri, instaurato da Stalin. Che dei prigionieri di guerra italiani siano rimasti vivi in Russia dopo la fine dei rimpatri, presupporrebbe uno di queste tre condizioni, tutte sicuramente improbabili:
a) - che il soldato sottrattosi alle marce, e quindi ai campi, di prigionia, abbia vissuto per moltissimi anni nascosto, protetto da una famiglia che si assumeva una terribile responsabilità, assolutamente inconcepibile con la mentalità russa e con il terrore che ogni russo aveva della NKVD e delle delazioni da parte di tutti quelli che lo circondavano, compresi i figli e la moglie. E se la responsabilità se l'assumeva tutto un villaggio con l'assenso dei capi locali, l'epilogo poteva essere ancora più tragico. Un soldato italiano era stato ospitato in un paesino perché congelato. Dopo la guarigione, complice il direttore del kolkos ed il capo del soviet locale era stato trattenuto ed era diventato il factotum perché si arrangiava a fare tutti i mestieri, era benvoluto da tutti ed era un valido aiuto per i singoli e la comunità. Dopo circa un anno, tuttavia la cosa era giunta all'orecchio della polizia politica che cominciò ad indagare. Per evitare guai, le autorità del villaggio non trovarono di meglio che far sparire la prova della loro contravvenzione alle severe disposizioni che proibivano di ospitare prigionieri e uccisero il soldato italiano.
b) - che il soldato sia fuggito dal campo di concentramento, cosa relativamente facile quando i prigionieri furono in seguito adibiti ai lavori nei kolkos, nei boschi, negli abitati. Una volta libero, però, il fuggiasco doveva vivere, trasferirsi, avere denaro, conoscere bene il russo, sottrarsi agli innumerevoli controlli della polizia, degli organi amministrativi e di partito. Si tenga presente che tutti i cittadini russi non potevano allontanarsi, nemmeno occasionalmente, dalla loro residenza senza un lasciapassare della polizia. Il prigioniero doveva immediatamente allontanarsi moltissimo dal lager di evasione perché la regione circostante veniva battuta a tappeto ed i fuggitivi erano immancabilmente catturati e puniti con lunghi periodi di carcere duro che significava quasi sempre condanna a morte; quando non sottoposto ad esecuzione sommaria davanti a tutti i prigionieri del campo fatti schierare appositamente. Numerose testimonianze di reduci lo confermano. Un prigioniero scrive desolato: "fuggire? da dove? dal campo di concentramento? ma se tutta la Russia è unico campo di concentramento!".
c) - che qualche prigioniero, di sua volontà, abbia rinunciato al rimpatrio. Ci sono stati casi di soldati che hanno chiesto di rimanere per tema di procedimenti disciplinari ai quali sarebbero stati sottoposti appena rientrati (anche in Russia si sono verificati casi di diserzione, grave insubordinazione, procurate lesioni ecc. e le condanne inflitte dai tribunali militari erano rimandate al rientro del reparto di appartenenza in Italia) o perché la propaganda li aveva convinti che vivere in Russia era meglio che in Italia. Che si sappia, nessuno è stato accontentato. E' emblematico il caso del sergente Mottola. Messo alle costole degli ufficiali trattenuti, con le sue delazioni e false dichiarazioni, determinò la loro condanna ai lavori forzati. Successivamente usò angherie, fino alle percosse, nei loro confronti. Al momento del rimpatrio, conscio di quello che lo aspettava, aveva chiesto di rimanere, ma i russi lo rispedirono a casa, dove, come lui temeva, fu condannato a 10 anni che scontò nel carcere di Gaeta.
La tesi dell'esistenza in Russia, anche molti anni dopo la guerra di soldati italiani viventi ha avuto diversi patrocinatori. In particolare, un generale ed un sedicente storico, ben poco esperti di cose russe e nessunissima cognizione di cosa fosse la prigionia nei lager staliniani, hanno scritto assurde, pubblicando elenchi di campi inesistenti, cartine geografiche inventate ed anche recentemente, uno di loro con lettere ai giornali ha insistito di essere al corrente dell'esistenza in Russia di italiani. Diffidati a fornire documenti o prove, non hanno mai risposto e si sono sempre sottratti al contraddittorio. Che nella ex URSS vivano attualmente degli italiani, alcuni sposati a donne russe, è vero. Non si tratta però di prigionieri di guerra dell'ARMIR ma di civili che sono andati in Russia dopo la guerra per ragioni loro. Se ne conoscono i nomi e la residenza.
IL RIMPATRIO.
Dopo l'uscita dell'Italia dalla guerra, i nostri governi (Badoglio, Bonomi, De Gasperi) si premurarono di chiedere ai sovietici notizie sulla sorte degli 80.000 prigionieri che loro stessi avevano dichiarato di aver catturato nell'inverno 1942-43. Nei primi mesi del 1944, il maresciallo Messe, allora Capo di Stato Maggiore, non riuscì ad avere nessuna informazione da una missione sovietica venuta in Italia. Parimenti il nostro Ambasciatore a Mosca, Piero Quaroni. Solo il 31 agosto 1945, il governo sovietico, con una nota dell'Ambasciata dell'URSS a Roma ed indirizzata al nostro Ministero degli Esteri, faceva conoscere che era stata disposta la liberazione di 19.640 prigionieri di guerra italiani, soldati e sottufficiali. Poiché nella comunicazione non si faceva cenno agli ufficiali, Quaroni fu incaricato di chiedere spiegazioni ai russi. In data 28 settembre 1945, Quaroni cosi risponde: "Il sig.Dekanozov quando gli parlai della questione dei nostri prigionieri, fece riserva solo per la riconsegna di un numero non rilevante di essi, accusati di crimini di guerra. Escludeva che parte sovietica fossero fatte eccezioni per altri gruppi di prigionieri e particolarmente per gli ufficiali".
Anche prima di tali scambi di note, l'Unione Sovietica restituì un centinaio di militari mutilati ma anche parecchi sanissimi soldati ed ufficiali. Non furono spiegati i criteri per la scelta di quest'ultimi, ma essi divennero chiari quando, quasi un anno dopo, rientrarono tutti gli altri ufficiali e si seppe che chi aveva goduto di un anticipo di rimpatrio, era tutta gente che aveva frequentato la scuola di Mosca e che dai loro articoli su "L'ALBA", avevano dimostrato assoluta dedizione alla causa comunista. Tuttavia, sempre secondo il contorto comportamento dei russi, tutti gli altri ufficiali sovietizzati furono fatti rimpatriare con la massa e di ciò, molti di essi si lamentarono. Si erano illusi di meritare un trattamento di favore (probabilmente loro promesso dai russi) rispetto a quei colleghi incalliti anticomunisti, che essi avevano attaccato con tanto livore dalle pagine del loro giornaletto.
L'effettivo rimpatrio della massa dei soldati avvenne dal settembre 1945 al marzo 1946 a gruppi di diversa grandezza e ad intervalli molto irregolari. Come è già stato detto, solo 10.087 dei suddetti prigionieri appartenevano all'ARMIR, cioè facevano parte degli 80.000 catturati nell'inverno '42-'43, gli altri erano internati militari dai tedeschi trovati dall'Armata Rossa nei lager nazisti. In genere i nostri soldati furono consegnati dai sovietici alle truppe Alleate di stanza in Austria e Germania ed il proseguimento verso l'Italia, avvenne in maniera caotica qualche volta con tradotte, ma sovente individualmente o a piccoli gruppi che viaggiavano indipendenti ed usufruivano di mezzi di fortuna. Dopo un periodo di quarantena a Pescantina (Verona) e per gli ammalati, a Merano, Bologna o sulla riviera adriatica, raggiunsero le proprie case alla spicciolata.
L'accoglienza della popolazione era improntata a due diametrali posizioni. Comprensione, simpatia, coinvolgimento nella drammatica avventura vissuta dai Reduci da una parte; freddezza e ostilità dall'altra. Questi miracolati avevano il torto di raccontare come i russi avevano trattato loro e quelli che non erano tornati, di raccontare che la Russia non era affatto il "paradiso dei lavoratori" e questo non collimava con le convinzioni di gran parte degli italiani di allora. Un certo numero di soldati fu trattenuto per altri dieci mesi per modeste mancanze disciplinari o per aperta ostilità nei confronti dei commissari politici o dei loro tirapiedi italiani cioè i capi brigata ed i guardiani (armati) dei propri connazionali.
Alla fine di aprile del 1946, iniziò il rimpatrio degli ufficiali, quasi tutti internati nel campo 160 di Susdal, con il loro trasferimento ad Odessa, prima in due campi dell'entroterra, in seguito in uno stabilimento balneare in riva al Mar Nero. Qui vennero raggiunti dagli ufficiali medici che negli anni precedenti erano stati distaccati in numerosi campi ed ospedali per svolgervi assistenza sanitaria. Raggiunsero Odessa anche gli ufficiali "laureati" alla Scuola di Mosca che erano stati mandati come propagandisti nei campi dei soldati, nonché lo staff italiano della predetta scuola e della redazione de "L'ALBA". Furono ancora aggregati a questo scaglione i soldati lasciati a terra con i rimpatri dell'autunno precedente ed un gruppo di altoatesini che avevano combattuto con la Wermacht e che tutto ad un tratto si erano scoperti italiani.
Tutta questa gente rimase ad Odessa fino al 6 giugno, dopodiché fu trasferita in Romania a Maramarost Sighed dove sostò una settimana. Qui vennero trattenuti 50 ufficiali, scelti a cura di Robotti e dei membri più influenti del Gruppo Antifascista. Gli altri proseguirono per l'Austria e dopo una sosta di un'altra settimana a S. Valentino, vicino a Linz, furono consegnati, non senza incidenti e reticenze di ogni genere, alle autorità di occupazione inglesi di Vienna che li instradarono per Tarvisio dove giunsero il 7 luglio. Un rimpatrio durato circa tre mesi, con soste in cinque campi diversi e dopo aver cambiato per sei volte tradotta.
Perché una simile tortuosa riconsegna dopo più di un anno dalla fine della guerra? Data per scontata la proverbiale disorganizzazione russa, la ragione di tale rimpatrio da lumaca, stava nella volontà dei sovietici - naturalmente sollecitati da Togliatti allora già al governo - di non far rientrare gli ufficiali prima del referendum istituzionale. La partenza da Odessa, infatti, avvenne dopo il 2 giugno che sanciva l'avvento della Repubblica. Ancora timorosi di come avrebbe reagito l'opinione pubblica ai racconti degli ufficiali su quanto avvenuto nei campi di prigionia ed ammaestrati da quanto era successo al rientro dei soldati - che avevano reagito con tafferugli e scazzottate ai "compagni" che erano andati ad accoglierli con bandiere rosse e gli stantii slogan che avevano dovuto sorbirsi per quattro anni - i comunisti italiani ottennero che rimanessero ancora in mano russa quali ostaggi, i cinquanta prigionieri fermati a Sighed. Il loro rimpatrio avvenne dopo un mese, quando fu chiaro che le testimonianze degli ufficiali non avrebbero dato eccessiva noia. Per ulteriore precauzione, era stato predisposto un efficace sbarramento. Nessuna autorità, nessun rappresentante ufficiale, sia civile che militare si fece vedere ad accogliere questi reduci, il cui ritorno era stato sbandierato come un atto di generosità dei sovietici. Non fu autorizzata la pubblicazione di un messaggio di saluto rivolto al popolo italiano che la quasi totalità degli ufficiali aveva sottoscritto.
La stampa relegò nelle pagine interne e solo in ambito locale sorse durissima la polemica tra i fogli di ispirazione comunista e socialista e quelli cattolici o borghesi. Per i primi erano rientrati gli ufficiali che avevano condotto i soldati italiani ad invadere l'Unione Sovietica ed farli morire a migliaia. Che questi ufficiali avessero ubbidito al pari dei soldati a degli ordini, che avessero semplicemente compiuto il dovere di ogni cittadino chiamato alle armi, come avviene in tutti gli stati del mondo, compreso quello russo, non aveva importanza. Che il 90% di loro fosse di complemento, cioè non di mestiere e che circa la metà fossero semplici sottotenenti, in pratica studenti poco più che ventenni - come i soldati - strappati dagli studi e mandati a combattere, nessuno ne teneva conto. Essi, in più, avevano una colpa fondamentale: non erano tornati entusiasti del comunismo, malgrado tutti gli sforzi dei commissari politici e del giornale "L'ALBA"; dunque, secondo il metro di valutazione adottato allora - ma in auge per molti anni ancora - erano pervicacemente fascisti.
Per i secondi, il prigioniero rientrato dalla Russia era un ottimo elemento da sfruttare per la lotta e per la propaganda anticomunista specialmente a fini elettorali. Da ultimo, la loro insistenza a raccontare che in Russia non c'erano più italiani vivi, salvo poche eccezioni bene individuate e note, li aveva invisi alle decine di migliaia di famiglie dei Dispersi, che li ritenevano male informati se non addirittura propalatori di notizie false per oscuri motivi. Questa fu l'accoglienza che trovarono in Patria i superstiti di quattro anni di durissima prigionia.
Di frequente, sulla stampa si è fatta l'ipotesi che molti nostri prigionieri non sono tornati perché si sono formati una famiglia e una nuova esistenza nell'Unione Sovietica. Anche un film, "I Girasoli" proiettato una ventina di anni fa, avvalorava questa possibilità, attribuendo ad un soldato italiano, la stessa vicenda di un prigioniero ungherese della prima guerra mondiale che era rimasto in Russia, s'era formato una famiglia e non si fa riconoscere dalla moglie che era andata a cercarlo. Che ciò sia avvenuto nella Russia del 1917 è molto verosimile: sono noti i casi di numerosi soldati trentini - che allora combattevano nell'esercito austriaco sul fronte russo - ritornati in Italia dopo quattro, sei, anche dieci anni dalla fine del conflitto con moglie russa e figli. Naturalmente è possibile che altri non abbiano voluto tornare e si siano fermati.
Quello che si è verificato allora, però, non può avvalorare una simile ipotesi per l'ultima guerra. Allora le circostanze erano completamente diverse: c'era la rivoluzione e la controrivoluzione; nelle campagne e nei distretti periferici, la confusione era al massimo e non esisteva ancora il controllo a tappeto, totale, capillare della polizia politica, in particolare sugli stranieri, instaurato da Stalin. Che dei prigionieri di guerra italiani siano rimasti vivi in Russia dopo la fine dei rimpatri, presupporrebbe uno di queste tre condizioni, tutte sicuramente improbabili:
a) - che il soldato sottrattosi alle marce, e quindi ai campi, di prigionia, abbia vissuto per moltissimi anni nascosto, protetto da una famiglia che si assumeva una terribile responsabilità, assolutamente inconcepibile con la mentalità russa e con il terrore che ogni russo aveva della NKVD e delle delazioni da parte di tutti quelli che lo circondavano, compresi i figli e la moglie. E se la responsabilità se l'assumeva tutto un villaggio con l'assenso dei capi locali, l'epilogo poteva essere ancora più tragico. Un soldato italiano era stato ospitato in un paesino perché congelato. Dopo la guarigione, complice il direttore del kolkos ed il capo del soviet locale era stato trattenuto ed era diventato il factotum perché si arrangiava a fare tutti i mestieri, era benvoluto da tutti ed era un valido aiuto per i singoli e la comunità. Dopo circa un anno, tuttavia la cosa era giunta all'orecchio della polizia politica che cominciò ad indagare. Per evitare guai, le autorità del villaggio non trovarono di meglio che far sparire la prova della loro contravvenzione alle severe disposizioni che proibivano di ospitare prigionieri e uccisero il soldato italiano.
b) - che il soldato sia fuggito dal campo di concentramento, cosa relativamente facile quando i prigionieri furono in seguito adibiti ai lavori nei kolkos, nei boschi, negli abitati. Una volta libero, però, il fuggiasco doveva vivere, trasferirsi, avere denaro, conoscere bene il russo, sottrarsi agli innumerevoli controlli della polizia, degli organi amministrativi e di partito. Si tenga presente che tutti i cittadini russi non potevano allontanarsi, nemmeno occasionalmente, dalla loro residenza senza un lasciapassare della polizia. Il prigioniero doveva immediatamente allontanarsi moltissimo dal lager di evasione perché la regione circostante veniva battuta a tappeto ed i fuggitivi erano immancabilmente catturati e puniti con lunghi periodi di carcere duro che significava quasi sempre condanna a morte; quando non sottoposto ad esecuzione sommaria davanti a tutti i prigionieri del campo fatti schierare appositamente. Numerose testimonianze di reduci lo confermano. Un prigioniero scrive desolato: "fuggire? da dove? dal campo di concentramento? ma se tutta la Russia è unico campo di concentramento!".
c) - che qualche prigioniero, di sua volontà, abbia rinunciato al rimpatrio. Ci sono stati casi di soldati che hanno chiesto di rimanere per tema di procedimenti disciplinari ai quali sarebbero stati sottoposti appena rientrati (anche in Russia si sono verificati casi di diserzione, grave insubordinazione, procurate lesioni ecc. e le condanne inflitte dai tribunali militari erano rimandate al rientro del reparto di appartenenza in Italia) o perché la propaganda li aveva convinti che vivere in Russia era meglio che in Italia. Che si sappia, nessuno è stato accontentato. E' emblematico il caso del sergente Mottola. Messo alle costole degli ufficiali trattenuti, con le sue delazioni e false dichiarazioni, determinò la loro condanna ai lavori forzati. Successivamente usò angherie, fino alle percosse, nei loro confronti. Al momento del rimpatrio, conscio di quello che lo aspettava, aveva chiesto di rimanere, ma i russi lo rispedirono a casa, dove, come lui temeva, fu condannato a 10 anni che scontò nel carcere di Gaeta.
La tesi dell'esistenza in Russia, anche molti anni dopo la guerra di soldati italiani viventi ha avuto diversi patrocinatori. In particolare, un generale ed un sedicente storico, ben poco esperti di cose russe e nessunissima cognizione di cosa fosse la prigionia nei lager staliniani, hanno scritto assurde, pubblicando elenchi di campi inesistenti, cartine geografiche inventate ed anche recentemente, uno di loro con lettere ai giornali ha insistito di essere al corrente dell'esistenza in Russia di italiani. Diffidati a fornire documenti o prove, non hanno mai risposto e si sono sempre sottratti al contraddittorio. Che nella ex URSS vivano attualmente degli italiani, alcuni sposati a donne russe, è vero. Non si tratta però di prigionieri di guerra dell'ARMIR ma di civili che sono andati in Russia dopo la guerra per ragioni loro. Se ne conoscono i nomi e la residenza.
I carri L6 in Russia, 2
Pubblico con il permesso dell'amico Massimiliano Afiero la seconda ed ultima parte del bell'articolo "Il carro L6 ed il LXVII Bersaglieri corazzato in Russia" di Andrea e Antonio Tallillo; questo e altri interessanti articoli sulla Campagna di Russia sono disponibili sulla rivista "Fronti di guerra" distribuita gratuitamente ai soci dellʹAssociazione Ritterkreuz, fondata da Massimiliano Afiero, con il solo obiettivo di incentivare la ricerca storica sulla Seconda Guerra Mondiale ed in particolar modo sulle forze Armate dell'Asse (Italia, Germania, Giappone) e dei paesi alleati ad esso (Romania, Ungheria, Slovacchia, Croazia e Finlandia). Per aderire allʹAssociazione e ricevere la pubblicazione Fronti di Guerra (in formato PDF via email) basta semplicemente fare una donazione minima di 10,00 (dieci) euro, per l'anno solare in corso. Per coloro invece che desiderano ricevere la copia stampata della rivista (52 pagine, quattro pagine a colori), cadenza bimestrale, dovrebbero gentilmente inviare una donazione minima di 50,00 euro (cinquanta) a parziale copertura delle spese di stampa della stessa e della spedizione effettuata esclusivamente con posta prioritaria. Le donazioni vanno effettuate sul Conto corrente postale numero 93983450 o IBAN IT70 K076 0103 4000 0009 3983 450 intestato a Afiero Massimiliano - Via San Giorgio, 11 - 80021 Afragola (NA); nella causale indicare sempre ʺDonazione Associazione Culturale per...ʺ.
Considerazioni finali.
E’ difficile dare un sereno giudizio sull’impiego dello L6/40 su quel lontano fronte, era in ogni caso inferiore ai mezzi avversari di pari classe e la sua mobilità non ottimale non lo rendeva adatto neanche all’esplorazione. In più, il comando del reparto, prima di partire per il fronte orientale, aveva già segnalato che i cavi di traino erano eccessivamente deboli, ma senza esito. Colpisce poi la falcidia di guasti al famigerato ‘giunto a scatto del magnete’. Non deve avere impressionato i tecnici sovietici, che pure esaminarono una mezza dozzina di carri catturati, in vari stadi d’efficienza e completezza, sin dalla tarda estate del 1942. Un carro di quel reparto di Bersaglieri è stato conservato sino ai giorni nostri, ed è ancora in buono stato. Di recente è stato restaurato almeno a livello della presentabilità, ma riverniciato non correttamente. E sì che la documentazione su quei carri è abbastanza fitta.
Mimetizzazione e contrassegni.
Almeno per questa volta, non vi possono essere dubbi od interpretazioni, anche gli L6 di questo reparto erano stati consegnati nella livrea monocromatica in uso in quel periodo, cioè il ‘kaki sahariano’, in pratica un giallo sabbia simile allo FS 20260. Già prima della fine del periodo estivo, gli equipaggi mascherarono la poco idonea tinta con abbondanti applicazioni di fango sui carri, non risparmiando i contrassegni tattici ed a volte neanche la targa anteriore. Alcune fotografie scattate ad L6 mentre era indubbiamente pieno inverno mostrano però un ritorno - naturale ? - al colore originale, visibile sotto a ghiaccio e neve incrostati. Su alcuni carri, evidentemente ripuliti dal fango a fine autunno 1942, fu applicata della vernice bianca lavabile, ma a causa della cattiva qualità del prodotto e delle affrettate modalità d’applicazione, non poteva trattarsi d’una copertura uniforme.
Il Battaglione aveva contrassegni di compagnia / plotone più grandi del comune 20 x 12 cm regolamentare, dipinti posteriormente in torretta sino a coprire tutto il portello, bordi compresi e che si discostavano dal regolamento anche per: ‐ la posizione, essendo dipinti ai lati torretta e sul retro, ma anche sullo scafo anteriore; ‐ la presenza - caso più unico che raro - di un 5° Plotone, che implicava una barra trasversale sui rettangoli, tra l’alto disposta - su alcuni carri – in modo diverso secondo il lato del mezzo; ‐ la posizione del numero individuale arabo, da 10 cm, sempre in rosso (anziché bianco o nel colore della compagnia) davanti ai rettangoli laterali, anziché sopra; ‐ il colore e la posizione del numero romano di battaglione sul carro del comandante dell’unità, esso era nero, alto 10 cm e portato anteriormente sullo scafo e lateralmente sulla torretta.
Altre eccezioni erano, sul carro targato 3882, da un esame accurato delle fotografie rimaste, un tentativo di dipingere i rettangoli anche sui lati della sovrastruttura e su di un altro carro la presenza di rettangoli nella norma, ma con il numero individuale nella tipica posizione del Battaglione. A parte queste piccole differenze, il resto era abbastanza nella norma, come i rettangoli neri per il Plotone Comando, mentre alcuni dettagli restavano peculiari agli scafi L6 come per esempio la targa anteriore. Essa infatti era divisa in due blocchi, a causa della presenza in mezzo alla piastra verticale dello scafo dell’occhione di traino. Visti anteriormente, carri e semoventi L6 presentavano a sinistra la sigla del Regio Esercito ed una granata rossa, a destra il numero vero e proprio, di quattro cifre. Le targhe del reparto, per quello che si è potuto capire dall’esame di diverse fotografie, andavano dal numero 3812 al 4062. Sulla piastra inclinata di prua era fissato il regolamentare distintivo metallico circolare d’appartenenza al Regio Esercito. Il disco bianco per l’identificazione aerea era presente sulla livrea originale ma fu anch’esso parzialmente nascosto dal fango, come gli altri contrassegni.
Dalla relazione del tenente Albanese, comandante della 2a Compagnia carri del LXVII.
"Il 31 agosto 1942, la 2a Compagnia Carri ebbe l'ordine di dividersi nei due plotoni e Comando di Compagnia e mettersi a disposizione del Battaglione Vestone (6° Alpini) per un'azione offensiva da effettuarsi su Quota 236.2 e 209.6, ad ovest di Bolschoj. L'attacco delle tre Compagnie del Vestone cominciò alle 15 del 1° settembre, dopo una brevissima preparazione dʹartiglieria, con partenza sa Quota 228. Il 1° plotone carri aveva il compito di sorpassare la compagnia di sinistra ed eliminare eventuali resistenze lungo la direttrice dell'attacco, nonché dirigersi su Quota 236.2. Dopo pochi minuti, il plotone raggiunse un caseggiato chiamato “Ferma 4”, dove sostò per riorganizzarsi, procedendo subito dopo verso Quota 236.8. Il plotone carri d'avanguardia perse un carro ma proseguì, nei pressi dell'obiettivo si svelò una batteria dʹartiglieria nemica che fu eliminata, ma poi partì un forte contrattacco russo che costrinse una compagnia d'alpini a ritirarsi sulla posizione di partenza. Il 2° plotone venne inviato su Quota 209,6 per cooperare con una Compagnia d'alpini che non era riuscita a proseguire. Superato il caseggiato “Ferma 4”, il plotone subisce una forte reazione controcarri e la perdita di 3 carri ed il danneggiamento di un altro. I carri superstiti proseguono, ma arrivati nei pressi dell'obiettivo, vedendo la Compagnia alpini di sinistra ritirarsi e quella di destra che non riusciva ad arrivare, ripiegarono sulla posizione di partenza. Le perdite furono di 8 carri in tutto, oltre a 8 carristi. Ad azione terminata con 3 carri ed equipaggi volontari si tornò nella zona contesa e si riuscì a recuperare un carro armato immobilizzato".
Fotografia 1: carri del LXVII battaglione abbandonati durante le convulse fasi del dicembre 1942 (Leonardo Landi).
Fotografia 2: carri del LXVII battaglione abbandonati durante le convulse fasi del dicembre 1942 (Leonardo Landi).
Fotografia 3: carri del LXVII battaglione abbandonati durante le convulse fasi del dicembre 1942 (Leonardo Landi).
Fotografia 4: il carro armato del sergente Dell’Amico.
Fotografia 5: l’encomio solenne tributato al Dell’Amico a seguito dell’episodio citato nel testo (Famiglia Dell’Amico).
Fotografia 6: il sergente Giorgio Dell’Amico, qualche tempo prima, sullo stesso mezzo (Famiglia Dell’Amico).
Fotografia 7: l’unico carro del battaglione conservato ancora in Russia, al Museo di Kubinka.
Fotografia 8: divisa dei bersaglieri del LXVII (da una tavola di Pietro Compagni).
Considerazioni finali.
E’ difficile dare un sereno giudizio sull’impiego dello L6/40 su quel lontano fronte, era in ogni caso inferiore ai mezzi avversari di pari classe e la sua mobilità non ottimale non lo rendeva adatto neanche all’esplorazione. In più, il comando del reparto, prima di partire per il fronte orientale, aveva già segnalato che i cavi di traino erano eccessivamente deboli, ma senza esito. Colpisce poi la falcidia di guasti al famigerato ‘giunto a scatto del magnete’. Non deve avere impressionato i tecnici sovietici, che pure esaminarono una mezza dozzina di carri catturati, in vari stadi d’efficienza e completezza, sin dalla tarda estate del 1942. Un carro di quel reparto di Bersaglieri è stato conservato sino ai giorni nostri, ed è ancora in buono stato. Di recente è stato restaurato almeno a livello della presentabilità, ma riverniciato non correttamente. E sì che la documentazione su quei carri è abbastanza fitta.
Mimetizzazione e contrassegni.
Almeno per questa volta, non vi possono essere dubbi od interpretazioni, anche gli L6 di questo reparto erano stati consegnati nella livrea monocromatica in uso in quel periodo, cioè il ‘kaki sahariano’, in pratica un giallo sabbia simile allo FS 20260. Già prima della fine del periodo estivo, gli equipaggi mascherarono la poco idonea tinta con abbondanti applicazioni di fango sui carri, non risparmiando i contrassegni tattici ed a volte neanche la targa anteriore. Alcune fotografie scattate ad L6 mentre era indubbiamente pieno inverno mostrano però un ritorno - naturale ? - al colore originale, visibile sotto a ghiaccio e neve incrostati. Su alcuni carri, evidentemente ripuliti dal fango a fine autunno 1942, fu applicata della vernice bianca lavabile, ma a causa della cattiva qualità del prodotto e delle affrettate modalità d’applicazione, non poteva trattarsi d’una copertura uniforme.
Il Battaglione aveva contrassegni di compagnia / plotone più grandi del comune 20 x 12 cm regolamentare, dipinti posteriormente in torretta sino a coprire tutto il portello, bordi compresi e che si discostavano dal regolamento anche per: ‐ la posizione, essendo dipinti ai lati torretta e sul retro, ma anche sullo scafo anteriore; ‐ la presenza - caso più unico che raro - di un 5° Plotone, che implicava una barra trasversale sui rettangoli, tra l’alto disposta - su alcuni carri – in modo diverso secondo il lato del mezzo; ‐ la posizione del numero individuale arabo, da 10 cm, sempre in rosso (anziché bianco o nel colore della compagnia) davanti ai rettangoli laterali, anziché sopra; ‐ il colore e la posizione del numero romano di battaglione sul carro del comandante dell’unità, esso era nero, alto 10 cm e portato anteriormente sullo scafo e lateralmente sulla torretta.
Altre eccezioni erano, sul carro targato 3882, da un esame accurato delle fotografie rimaste, un tentativo di dipingere i rettangoli anche sui lati della sovrastruttura e su di un altro carro la presenza di rettangoli nella norma, ma con il numero individuale nella tipica posizione del Battaglione. A parte queste piccole differenze, il resto era abbastanza nella norma, come i rettangoli neri per il Plotone Comando, mentre alcuni dettagli restavano peculiari agli scafi L6 come per esempio la targa anteriore. Essa infatti era divisa in due blocchi, a causa della presenza in mezzo alla piastra verticale dello scafo dell’occhione di traino. Visti anteriormente, carri e semoventi L6 presentavano a sinistra la sigla del Regio Esercito ed una granata rossa, a destra il numero vero e proprio, di quattro cifre. Le targhe del reparto, per quello che si è potuto capire dall’esame di diverse fotografie, andavano dal numero 3812 al 4062. Sulla piastra inclinata di prua era fissato il regolamentare distintivo metallico circolare d’appartenenza al Regio Esercito. Il disco bianco per l’identificazione aerea era presente sulla livrea originale ma fu anch’esso parzialmente nascosto dal fango, come gli altri contrassegni.
Dalla relazione del tenente Albanese, comandante della 2a Compagnia carri del LXVII.
"Il 31 agosto 1942, la 2a Compagnia Carri ebbe l'ordine di dividersi nei due plotoni e Comando di Compagnia e mettersi a disposizione del Battaglione Vestone (6° Alpini) per un'azione offensiva da effettuarsi su Quota 236.2 e 209.6, ad ovest di Bolschoj. L'attacco delle tre Compagnie del Vestone cominciò alle 15 del 1° settembre, dopo una brevissima preparazione dʹartiglieria, con partenza sa Quota 228. Il 1° plotone carri aveva il compito di sorpassare la compagnia di sinistra ed eliminare eventuali resistenze lungo la direttrice dell'attacco, nonché dirigersi su Quota 236.2. Dopo pochi minuti, il plotone raggiunse un caseggiato chiamato “Ferma 4”, dove sostò per riorganizzarsi, procedendo subito dopo verso Quota 236.8. Il plotone carri d'avanguardia perse un carro ma proseguì, nei pressi dell'obiettivo si svelò una batteria dʹartiglieria nemica che fu eliminata, ma poi partì un forte contrattacco russo che costrinse una compagnia d'alpini a ritirarsi sulla posizione di partenza. Il 2° plotone venne inviato su Quota 209,6 per cooperare con una Compagnia d'alpini che non era riuscita a proseguire. Superato il caseggiato “Ferma 4”, il plotone subisce una forte reazione controcarri e la perdita di 3 carri ed il danneggiamento di un altro. I carri superstiti proseguono, ma arrivati nei pressi dell'obiettivo, vedendo la Compagnia alpini di sinistra ritirarsi e quella di destra che non riusciva ad arrivare, ripiegarono sulla posizione di partenza. Le perdite furono di 8 carri in tutto, oltre a 8 carristi. Ad azione terminata con 3 carri ed equipaggi volontari si tornò nella zona contesa e si riuscì a recuperare un carro armato immobilizzato".
Fotografia 1: carri del LXVII battaglione abbandonati durante le convulse fasi del dicembre 1942 (Leonardo Landi).
Fotografia 2: carri del LXVII battaglione abbandonati durante le convulse fasi del dicembre 1942 (Leonardo Landi).
Fotografia 3: carri del LXVII battaglione abbandonati durante le convulse fasi del dicembre 1942 (Leonardo Landi).
Fotografia 4: il carro armato del sergente Dell’Amico.
Fotografia 5: l’encomio solenne tributato al Dell’Amico a seguito dell’episodio citato nel testo (Famiglia Dell’Amico).
Fotografia 6: il sergente Giorgio Dell’Amico, qualche tempo prima, sullo stesso mezzo (Famiglia Dell’Amico).
Fotografia 7: l’unico carro del battaglione conservato ancora in Russia, al Museo di Kubinka.
Fotografia 8: divisa dei bersaglieri del LXVII (da una tavola di Pietro Compagni).
martedì 7 giugno 2022
Ricompense - 8a Armata - Milizia Stradale
Ricompense al Valor Militare attribuite per le operazioni sul Fronte Russo, a cura di Carlo Vicentini, fonte UNIRR.
MOVM - Medaglia d'Oro al Valor Militare, MAVM - Medaglia d'Argento al Valor Militare, MBVM - Medaglia di Bronzo al Valor Militare, MOVM - Medaglia d'Oro al Valor Militare, CGVM - Croce di Guerra al Valor Militare.
8a ARMATA - MILIZIA STRADALE.
MBVM Capo Manipolo TACCONI Mario
MBVM vice brigadiere GREGANTI Otello
MBVM milite ANGELINI Belardo, alla memoria
MBVM milite FIORAVANTI Domenico
CGVM Seniore GIROTTO Ferrante
CGVM Capo Manipolo PALMIERI Francesco
CGVM milite BELLI Raimondo
CGVM milite CIANFALDONI Tito
CGVM milite DELLA BELLA Remo
CGVM milite FRIXIONE Antonio
CGVM milite GIACOMELLI Otello
CGVM milite LATILLA Ezio
CGVM milite MAINARDI Giuseppe
CGVM milite MALIZIA Guido
CGVM milite MORESI Tullio
CGVM milite PANTALEI Carlo
CGVM milite PARISE Tullio
CGVM milite PETILLO Francesco
CGVM milite ROSSI Giuseppe
CGVM milite ROVERSI Celeste
CGVM milite SBRANA Enzo
CGVM milite SORZIA Ernesto
MOVM - Medaglia d'Oro al Valor Militare, MAVM - Medaglia d'Argento al Valor Militare, MBVM - Medaglia di Bronzo al Valor Militare, MOVM - Medaglia d'Oro al Valor Militare, CGVM - Croce di Guerra al Valor Militare.
8a ARMATA - MILIZIA STRADALE.
MBVM Capo Manipolo TACCONI Mario
MBVM vice brigadiere GREGANTI Otello
MBVM milite ANGELINI Belardo, alla memoria
MBVM milite FIORAVANTI Domenico
CGVM Seniore GIROTTO Ferrante
CGVM Capo Manipolo PALMIERI Francesco
CGVM milite BELLI Raimondo
CGVM milite CIANFALDONI Tito
CGVM milite DELLA BELLA Remo
CGVM milite FRIXIONE Antonio
CGVM milite GIACOMELLI Otello
CGVM milite LATILLA Ezio
CGVM milite MAINARDI Giuseppe
CGVM milite MALIZIA Guido
CGVM milite MORESI Tullio
CGVM milite PANTALEI Carlo
CGVM milite PARISE Tullio
CGVM milite PETILLO Francesco
CGVM milite ROSSI Giuseppe
CGVM milite ROVERSI Celeste
CGVM milite SBRANA Enzo
CGVM milite SORZIA Ernesto
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