sabato 16 luglio 2022

Il Corpo d'Armata Alpino non si arrende, 3

Il Corpo d'Armata Alpino non si arrende, di Julius Bogatasvo - terza parte.

Erano ormai le tre di notte; fra poco sarebbe sorta l'alba e forse sarebbe stato già troppo tardi; bisognava tornar fuori ad ogni costo, ributtarsi sulla neve ghiacciata, sulle fantomatiche tracce di un battaglione che era scomparso nel buio, volatilizzato nella notte fonda, fra quelle tenebre ingannatrici. Russi... alpini... alpini... Russi; chissà dov'erano gli uni e dove stavano cercando riparo gli altri... Un'occhiata alla bussola; un balzo fuori, lui, Damini, e Sanguinetti alle calcagna. La linea... ma chissà dov'è la linea. Occorre prudenza, cautela per non finire in bocca al nemico; certo l'esperienza di quella pattuglia dev'essere stata tragica; credere di trovare degli amici e imbattersi a faccia a faccia con il nemico!

Le mani erano contratte sul mitra, la cui canna fendeva il buio come un sinistro braccio metallico che sporgeva dal curioso giubbone senza maniche col pelo all'interno. Ogni tanto la mano correva anche al tascapane, per vedere se le bombe a mano fossero ancora lì, al sicuro. Tascapane e mitra erano gli unici oggetti neri a sporgere dalla tuta mimetica che avvolgeva il corpo come un bianco sudario. All'improvviso Damini fece un cenno a Sanguinetti. Delle ombre bianche s'erano mosse nell'oscurità. Ombre con tute mimetiche, identiche a quelle portate dagli alpini... Alpini o Russi? Anche i Russi (erano, infatti, loro) s'arrestarono di colpo, colti dal medesimo dubbio: Nostri o nemici? Sarebbe bastato un comando secco: "Stoi!" e una raffica, perché a quella distanza la morte degli avversari fosse Sicura. Ma l'apparizione era stata troppo improvvisa e subitanea per poter reagire. E quando Damini aprì bocca disse proprio quello che non doveva dire; gli usci, chissà perché: "Alpini, di che compagnia siete?".

Ma i Russi non risposero; s'erano già dileguati, preferendo non ingaggiare battaglia, per non attirare l'attenzione di altri Italiani, forse, su truppe assai maggiori impegnate in ben altre incombenze che non quelle del pattugliamento... Oppure no... Chi lo sapeva... Veniva da piangere e Damini si morse le labbra in silenzio. Il cammino ripreselento, circospetto. In quell'istante una raffica vicinissima sibilò attorno ai due. I Russi s'erano appostati poco distante, pronti a cogliere gli Italiani in una trappola mortale. In quel momento la steppa appariva pullulante di bianchi fantasmi. No, non era possibile, doveva essere un'allucinazione. Eppure si stava sparando; quella raffica ne aveva attirate altre; ma erano colpi inconfondibili di armi russe... e allora? Allora niente, non bisognava rispondere; meglio filare alla svelta; ma dov'era il Val Cismon? Dov'erano gli alpini?

Quattro puntini bianchi: due ufficiali e due alpini, tutti in tuta mimetica, quattro vite sospese a un filo; quello erano in quel preciso istante Damini, Sanguinetti e i due "bocia". Ecco una balka; meglio infilarsi lì vicino, cercare di raggiungerla, ma carponi stavolta, con il passo del gattino, scivolando sulla coltre rilucente. Si udivano dei rumori, come un parlottare sommesso. Damini tese le orecchie, cercando di distinguere se si trattasse di Italiani o di Russi. No, niente da fare: erano Russi e molti anche, tanti. Ma com'era possibile? Quello non era più uno sfondamento, era un dilagare... come un fiume che avesse rotto gli argini, come la piena di un torrente gonfiato dalle acque primaverili fino a scoppiare, a invadere i campi circostanti. Bisogna ancora cambiare direzione, allontanarsi anche da lì. Ma dove andare? Come non perdere l'orientamento in mezzo a quella distesa bianca senza segni di riconoscimento, senza confini? Meglio tornare indietro, cercare di riprendere collegamento con le linee. Altrimenti si rischiava di essere inghiottiti da quel nulla.

Ancora altri sforzi, un lasciare, in silenzio perfetto, dietro le spalle quel luogo pericoloso: poi, quando la distanza di sicurezza era stata raggiunta, un mettersi in piedi di colpo, un gettarsi a camminare talmente di fretta da correre, quasi, guardando qua e là, cercando di fendere quel buio, quella caligine, agitando dinanzi a sè il mitragliatore silenzioso come uno spauracchio; per farsi coraggio, anche. Si camminava da un'ora, ormai. Le lancette fosforescenti dell'orologio venivano consultate a ogni piè sospinto, ma parevano immobili tanto il tempo scorreva lentamente; eppure non s'era smesso un solo secondo di camminare, agitando le braccia in segno di via libera, non dicendo una parola per non attirare qualche nemico in agguato. Fu in quell'istante che si udi un grido nell'oscurità: "Alt!". ...seguito poco dopo da un rassicurante "Chi va là?". Erano proprio loro, quelli del Val Cismon. Ridotti allo stremo, con l'umore a terra, ma ancora vigili.

Si trattava di dieci uomini sprofondati nella neve accanto a un piccolo ponticello di legno. L'unica arma, una mitragliatrice pesante, sembrava poca cosa di fronte a infiltrazione nemica in quella direzione. "Come mai vieni da quella parte?", urlò un alpino dopo il "chi va là"; "non ti hanno preso i Russi?". Damini involontariamente sorrise; la calma di cui dava prova quell'uomo era ammirevole; eppure quegli alpini da tre ore erano immobili e silenziosi nei pressi dell'arma ed era dalla mattina presto che non toccavano cibo. Damini si affrettò a chiedere notizie del battaglione Val Cismon: "Dovevamo prendere posizione più avanti", risposero quelli, "ma abbiamo trovato i Russi: un nostro plotone che si era fatto più in là e si era impegnato ha avuto la peggio. Il nostro comandante, il capitano Valente, ha tentato invano un attacco con la compagnia; ma i Russi erano ormai troppo saldi nella posizione, possedevano dei cannoncini e l'azione è stata impossibile. Adesso siamo schierati lungo la balka, della quale noi siamo la punta. Abbiamo avuto molte perdite e prigionieri anche, a causa delle posizioni del nemico, sconosciute. I Russi si sono cacciati tra di noi silenziosamente, all'improvviso. Ogni tanto ci prendevano a raffiche di mitragliatrice. C'è mancato un pelo che il battaglione non si disfacesse. Ma il capitano Valente è riuscito a tenerci in pugno e ci ha schierato qua. Come va negli altri settori?".

Damini era confuso di fronte a quella esposizione, cosi precisa, cosi pacata. Ma in fondo era anche contento di aver trovato degli uomini che in quei frangenti non avevano perso il controllo dei propri nervi. Perciò, per infondere un po' di coraggio, Damini spiegò alle dieci penne nere del Val Cismon che tutto, sul fronte, andava bene e che solo lì si stava verificando un tentativo di penetrazione da parte russa. Pensò poi a quanto avrebbero potuto resistere quegli uomini sdraiati neve senza un riparo nè una buca nel terreno nè il calore di una fiamma cui esporre le membra intirizzite e prossime al congelamento. Loro e i loro compagni, (un centinaio di uomini in tutto) se ne stavano in silenzio attendendo il momento della verità.

La voce del Damini aveva intanto attirato l'attenzione di uno che lo bene; si trattava proprio del Capitano Valente: "Damini, sei tu?". "Si, sono io...". "Ma che cosa fai qui... come hai fatto...". Valente era meravigliato; come aveva potuto Damini giungere fino al Val Cismon completamente isolato? Ma lo sapeva che i Russi avevano sfondato proprio nel punto di congiunzione fra il Val Cismon e il Cividale e che i collegamenti con i reparti tedeschi sulla destra del battaglione erano completamente interrotti? Possibile che con il Sanguinetti e i due alpini fosse riuscito a passare indenne attraverso la breccia russa colma di truppe? Eppure era proprio accaduto questo; un miracolo. Ma era successo. E adesso Damini si trovava in carne ed ossa davanti a lui. Valente era sconvolto. Parlava di fretta, agitatissimo. Avrebbe voluto andarsene via subito da quel mattatoio senza scampo... ma c'era il dovere; era un ufficiale che aveva giurato e avrebbe rispettato il proprio grado, il proprio onore; avrebbe resistito sino alla fine.

Le parole gli uscivano una dietro l'altra senza interruzione; era l'effetto della tensione nervosa che cercava sfogo, della stanchezza mortale che gli si leggeva in volto, di tutte quelle ore insonni e febbrili. "I due apparecchi radio non funzionano... i telefonisti sono scomparsi con tutto il materiale... Damini, è un disastro ti dico... la situazione è disperata, disperata... prevedo che moriremo tutti senza che il nostro sacrificio giovi al momento... capisci Damini?". Damini non sapeva che cosa dire. Il suo pensiero era altrove. Doveva raggiungere al più presto il comando del Cividale, dove aveva lasciato la macchina, doveva riattraversare quella fascia di Russi... Cosi Damini si congedò da Valente e si ricacciò nel buio lasciando presso il Val Cismon Sanguinetti e due alpini. Il tenente si trovò quindi solo nell'immensità delle tenebre popolate a tratti dalle ombre furtive dei Russi.

Si dice Che quando un uomo è in pericolo, dentro di lui si risvegli l'istinto animale, quello che dovette indubbiamente possedere il suo primitivo antenato delle caverne. Certo è che quella sera Damini riuscì, per virtù di quest'istinto, a ritrovare, chissà come, la pista battuta che portava a Krinitsknaja, la località che gli alpini, al primo vederla, avevano soprannominato "Crist-che naja". Damini era soddisfatto di sé; finalmente poteva informare il comandante del Cividale, raccontandogli per filo e per segno quello che era successo. Ancora un balzo nella notte e sarebbe stato ben presto fra i suoi, a riferire.

È in questo modo, proprio come l'abbiamo narrato sulla scorta della testimonianza di un uomo, che ha inizio l'ultimo atto del Corpo d'Armata Alpino, la più tragica delle ritirate che mai storia di Russia ricordi, superiore, come perdite e come drammaticità, perfino a quella napoleonica. In questo quadro dalle tinte fosche, non c'è possibilità di scorgere sprazzi di luce o tinte ottimistiche. Nulla di nulla. La storia del Corpo d' Armata Alpino è amara, dal principio alla fine, è la vicenda di un valore senza fortuna e senza speranza. Eppure era cominciata quasi allegramente, con la presenza in terra russa di un solo battaglione, giunto nei primi mesi del 1942, al tempo del disgelo.

L'avevano detto tutti: il disgelo, a volte, è peggio del ghiaccio; state dunque attenti. Ma nessuno, di quelli del CSIR, aveva mostrato di credervi. La fine del freddo, il volger dell'anno verso temperature più sopportabili, era un avvenimento cosi fausto che ciascuno si sentiva rinascere; si aveva insomma la sensazione che il cuore si allargasse, che il petto respirasse meglio, che una nuova vita nascesse dentro un corpo stanco e logorato dalle battaglie sostenute nell'inverno. Una sorta di euforia, una voglia di fare, aveva contagiato ognuno, dal capitano all'ultima recluta, piovuta, per disgrazia o... fatalità, in quel fronte impossibile, dalla morte facile.

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