martedì 12 luglio 2022

Rapporto sui prigionieri, parte 18

Pubblico alcuni estratti del "Rapporto sui prigionieri di guerra italiani in Russia" a cura di Carlo Vicentini e Paolo Resta, fonte UNIRR, 2a edizione, anno 2005, a mio avviso la fonte più autorevole per fare chiarezza sulle perdite e sulle vicissitudini dei nostri soldati in Russia durante il secondo conflitto mondiale.

I TRATTENUTI.

I modesti risultati della pur martellante propaganda tra gli ufficiali, aveva indispettito le autorità russe ed i comunisti italiani incaricati di svolgerla. Minacce e lusinghe, trattamenti di favore per chi aderiva, stretto controllo del comportamento e dei discorsi dei renitenti, loro torchiamento con reiterati interrogatori diurni e notturni, avevano fatto poca presa sulla massa degli ufficiali. Non solo, ma quasi tutti si rifiutavano di firmare appelli ed indirizzi giacobini al popolo italiano, ringraziamenti alle autorità russe per il trattamento cui erano oggetto, plausi e glorificazioni all'eroica Armata Rossa, "apportatrice di libertà ai popoli d'Europa".

Nella loro contorta mentalità poliziesca gli ufficiali della NKVD ammettevano che gli italiani fossero cosi tetragoni a verità lampanti come il marxismo ed il leninismo, erano stupefatti che mettessero molto in dubbio tutte le stupefacenti conquiste sociali, economiche e politiche sbandierate dai loro libri, dai loro conferenzieri, dagli articoli de "L'ALBA". Secondo loro i casi erano due: o tutti gli ufficiali erano rimasti pervicacemente fascisti o erano subornati da alcuni elementi che sabotavano l'opera dei loro propagandisti. Non prendevano in considerazione la probabilità che i prigionieri avessero occhi e cervello, che prima della cattura, nelle zone occupate ed anche dopo, nei loro contatti con la realtà russa in occasione dei lavori all'esterno del lager, avessero potuto vedere e giudicare a sufficienza cosa fosse veramente il comunismo.

I russi, dunque, ritennero che il modo giusto per convincere i tiepidi e gli agnostici fosse quello di individuare ed isolare quelli che, secondo loro, mal consigliavano i colleghi ed intimorire quest'ultimi, non più con blande minacce ma con un concreto ed esemplare provvedimento punitivo. Il compito fu facilitato da un gruppo di prigionieri onestamente, a viso aperto, sbugiardavano e controbattevano i commissari, li mettevano in difficoltà o li ridicolizzavano durante le riunioni o conferenze. Questi prigionieri, agli interrogatori dei russi della NKVD, non si facevano scrupolo di rinfacciare loro l'infame trattamento subito dopo la cattura e la responsabilità della morte di migliaia di prigionieri; nelle discussioni tra colleghi, non avevano peli sulla lingua nel mettere in evidenza le idiozie e le infamie di chi scriveva su "L'ALBA" e sul giornale murale ed il comportamento indegno ed anti italiano di chi firmava certi appelli. Erano sentimenti e ragionamenti che quasi tutti condividevano, ma non era saggio proclamarli ai quattro venti in un ambiente dove la libertà di parola e di pensiero era considerata un delitto e tutto era da permeato da menzogne, inganno, spionaggio e delazione.

Il provvedimento, maturato lungo tempo, fu preso gennaio del 1945. Tredici ufficiali ed un sergente (quest'ultimo un infiltrato con funzioni di spia) furono trasferiti dal campo degli ufficiali di Suzdal nel campo di punizione di Susslongher nella Repubblica Autonoma dei Mari, una regione oltre il Volga. Contemporaneamente anche il tenente medico Reginato, che nel frattempo era stato inviato, come parecchi altri medici italiani, in lager dei soldati a svolgervi assistenza sanitaria, fu prelevato e mandato a Susslongher. Nel nuovo campo la disciplina era durissima, le angherie. le percosse e le perquisizioni continue; per ogni nonnulla i prigionieri venivano messi in carcere in un bunker interrato senza riscaldamento.

Quando nel giugno del 1946, tutti gli altri ufficiali italiani rinchiusi a Suzdal furono mandati ad Odessa per il rimpatrio, anche una parte di quelli isolati a Susslongher, li raggiunsero, ma quale non fu la loro sorpresa quando, invece di partire con gli altri per l'Italia, furono mandati a Kiev dove trovarono quelli dai quali si erano separati qualche settimana prima nel campo di punizione. Nel nuovo campo i nostri "reazionari" (cosi erano stati bollati dai russi) trovarono quindici soldati italiani provenienti dal campo di Pakta Aral. Anche loro erano stati trattenuti quando gli altri loro compagni erano partiti per l'Italia, sei mesi prima. La ragione del mancato rimpatrio era la stessa che per gli ufficiali: nessuna concessione alla propaganda, rifiuto di firmare appelli e false dichiarazioni, ma anche scarso rendimento al lavoro, tentativi di fuga, vendette di capi brigata, prigionieri italiani come loro.

I russi erano furibondi con questi ufficiali italiani che anziché piegarsi, diventavano sempre più refrattari, insolenti, motivo di disordine e cattivo esempio per i prigionieri delle altre nazionalità egualmente isolati nello stesso campo di punizione. Gli italiani reagivano con scioperi della fame alle angherie, continuavano a scrivere istanze e proteste alle autorità del campo ed a quelle centrali, si rifiutavano di lavorare, davano risposte sprezzanti agli interrogatori, rifiutavano di sottoscrivere qualsiasi verbale. Così imbastirono contro di essi una serie di processi farsa, accusandoli delle cose più assurde. Processi che si concludevano nel giro di poche ore, dove sfilavano testimoni civili russi terrorizzati e dove il difensore d'ufficio era più ostile del pubblico accusatore.

Tra la fine del 1948 ed i primi del 1949, tutti gli ufficiali italiani trattenuti, vennero condannati a pene variabili dai 10 ai 25 anni di lavori forzati per "attività antisovietica". Da allora, ognuno di essi ebbe storie differenti, perché sparpagliati in campi e carceri diversi che, oltretutto venivano cambiate con frequenza. Nel 1950 si ritrovarono quasi tutti nelle carceri di Kiev mentre i tre generali Battisti, Ricagno e Pascolini, "ospiti" del lager 7062/11 di Kiev, stavano per essere rimpatriati. Nel novembre 1950, tutti gli italiani condannati furono raggruppati nel campo di lavoro di Providanka, vicino a Stalino, dove rimasero fino al giugno 1953. In questi tre anni, malgrado la gravosità del lavoro, la vita migliorò sensibilmente anche perché era stato loro concesso di ricevere pacchi dall'Italia. Dopo altri trasferimenti, finalmente nel gennaio del 1954, gli ultimi dodici prigionieri dell'ARMIR varcarono il confine e rientravano in Patria, dopo dodici anni di assenza.

Qualche caso merita un accenno a parte. I tre generali furono catturati a Valuiki il 27 gennaio 1943. Con un piccolo aereo vennero trasferiti a Bobrov, sede del Comando di Vassilievski, dove subirono un primo interrogatorio da parte di questi. In seguito vennero trasferiti a Mosca nel carcere della Butiskaja dove rimasero fino al maggio 1943 sottoposti estenuanti interrogatori. Dopo un breve periodo nel campo di Suzdal insieme a tutti gli altri ufficiali italiani, vennero trasferiti al lager 7048 di Vojkovo e poi al 7062/11 con la maggior parte dei generali tedeschi. Il capitano dei carabinieri, Dante Jovino, catturato a Valuiki fu trasferito in un campo dell'Asia, poi alla Lubianka di Mosca (la prigione del NKVD) indi al campo 27 nei dintorni della capitale. Condannato ai lavori forzati ritornò in Siberia fino al 1950. Dopo fu portato a Stalingrado ed infine riunito agli altri italiani nel 1951.

Il marinaio Riccò fu preso dai tedeschi nel Dodecaneso ed internato in Polonia dove nel 1945 fu liberato dai russi che lo mandarono prima a Tambov, poi a Stalingrado per finire a Kiev ed essere condannato ai lavori forzati come gli ufficiali. Analoga sorte quella del sottotenente Boletti del 5° Alpini. Catturato dai tedeschi in Alto Adige l'otto settembre '43, fu deportato in Germania. Fuggì dal lager nazista ed andò a combattere con i partigiani polacchi. Arrivati i russi, lo arrestarono, lo accusarono di spionaggio e fu condannato a venti anni di campo di lavoro. Trascorse un lungo periodo nel lager di Vorkuta, non lontano dal Mar Glaciale Artico. Dopo essere passato per altri campi fu rinchiuso a Kiev con gli altri ufficiali italiani trattenuti, ma poi fatto girovagare ancora. Ritornò in Patria solo nel settembre del 1954.

Un breve supplemento di prigionia venne inflitto anche ad un folto gruppo di ufficiali, al momento del rimpatrio. Quando la tradotta con tutti gli ufficiali giunse in Romania, cinquanta di loro furono trattenuti, evidentemente in ostaggio, in attesa delle reazioni che si sarebbero prodotte in Italia al rientro del gruppo principale. La scelta fu fatta da Robotti, appositamente giunto da Mosca, con la collaborazione degli ufficiali italiani comunisti. Rientrarono circa un mese dopo.

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