domenica 19 giugno 2022

Rapporto sui prigionieri, parte 17

Pubblico alcuni estratti del "Rapporto sui prigionieri di guerra italiani in Russia" a cura di Carlo Vicentini e Paolo Resta, fonte UNIRR, 2a edizione, anno 2005, a mio avviso la fonte più autorevole per fare chiarezza sulle perdite e sulle vicissitudini dei nostri soldati in Russia durante il secondo conflitto mondiale.

IL RIMPATRIO.

Dopo l'uscita dell'Italia dalla guerra, i nostri governi (Badoglio, Bonomi, De Gasperi) si premurarono di chiedere ai sovietici notizie sulla sorte degli 80.000 prigionieri che loro stessi avevano dichiarato di aver catturato nell'inverno 1942-43. Nei primi mesi del 1944, il maresciallo Messe, allora Capo di Stato Maggiore, non riuscì ad avere nessuna informazione da una missione sovietica venuta in Italia. Parimenti il nostro Ambasciatore a Mosca, Piero Quaroni. Solo il 31 agosto 1945, il governo sovietico, con una nota dell'Ambasciata dell'URSS a Roma ed indirizzata al nostro Ministero degli Esteri, faceva conoscere che era stata disposta la liberazione di 19.640 prigionieri di guerra italiani, soldati e sottufficiali. Poiché nella comunicazione non si faceva cenno agli ufficiali, Quaroni fu incaricato di chiedere spiegazioni ai russi. In data 28 settembre 1945, Quaroni cosi risponde: "Il sig.Dekanozov quando gli parlai della questione dei nostri prigionieri, fece riserva solo per la riconsegna di un numero non rilevante di essi, accusati di crimini di guerra. Escludeva che parte sovietica fossero fatte eccezioni per altri gruppi di prigionieri e particolarmente per gli ufficiali".

Anche prima di tali scambi di note, l'Unione Sovietica restituì un centinaio di militari mutilati ma anche parecchi sanissimi soldati ed ufficiali. Non furono spiegati i criteri per la scelta di quest'ultimi, ma essi divennero chiari quando, quasi un anno dopo, rientrarono tutti gli altri ufficiali e si seppe che chi aveva goduto di un anticipo di rimpatrio, era tutta gente che aveva frequentato la scuola di Mosca e che dai loro articoli su "L'ALBA", avevano dimostrato assoluta dedizione alla causa comunista. Tuttavia, sempre secondo il contorto comportamento dei russi, tutti gli altri ufficiali sovietizzati furono fatti rimpatriare con la massa e di ciò, molti di essi si lamentarono. Si erano illusi di meritare un trattamento di favore (probabilmente loro promesso dai russi) rispetto a quei colleghi incalliti anticomunisti, che essi avevano attaccato con tanto livore dalle pagine del loro giornaletto.

L'effettivo rimpatrio della massa dei soldati avvenne dal settembre 1945 al marzo 1946 a gruppi di diversa grandezza e ad intervalli molto irregolari. Come è già stato detto, solo 10.087 dei suddetti prigionieri appartenevano all'ARMIR, cioè facevano parte degli 80.000 catturati nell'inverno '42-'43, gli altri erano internati militari dai tedeschi trovati dall'Armata Rossa nei lager nazisti. In genere i nostri soldati furono consegnati dai sovietici alle truppe Alleate di stanza in Austria e Germania ed il proseguimento verso l'Italia, avvenne in maniera caotica qualche volta con tradotte, ma sovente individualmente o a piccoli gruppi che viaggiavano indipendenti ed usufruivano di mezzi di fortuna. Dopo un periodo di quarantena a Pescantina (Verona) e per gli ammalati, a Merano, Bologna o sulla riviera adriatica, raggiunsero le proprie case alla spicciolata.

L'accoglienza della popolazione era improntata a due diametrali posizioni. Comprensione, simpatia, coinvolgimento nella drammatica avventura vissuta dai Reduci da una parte; freddezza e ostilità dall'altra. Questi miracolati avevano il torto di raccontare come i russi avevano trattato loro e quelli che non erano tornati, di raccontare che la Russia non era affatto il "paradiso dei lavoratori" e questo non collimava con le convinzioni di gran parte degli italiani di allora. Un certo numero di soldati fu trattenuto per altri dieci mesi per modeste mancanze disciplinari o per aperta ostilità nei confronti dei commissari politici o dei loro tirapiedi italiani cioè i capi brigata ed i guardiani (armati) dei propri connazionali.

Alla fine di aprile del 1946, iniziò il rimpatrio degli ufficiali, quasi tutti internati nel campo 160 di Susdal, con il loro trasferimento ad Odessa, prima in due campi dell'entroterra, in seguito in uno stabilimento balneare in riva al Mar Nero. Qui vennero raggiunti dagli ufficiali medici che negli anni precedenti erano stati distaccati in numerosi campi ed ospedali per svolgervi assistenza sanitaria. Raggiunsero Odessa anche gli ufficiali "laureati" alla Scuola di Mosca che erano stati mandati come propagandisti nei campi dei soldati, nonché lo staff italiano della predetta scuola e della redazione de "L'ALBA". Furono ancora aggregati a questo scaglione i soldati lasciati a terra con i rimpatri dell'autunno precedente ed un gruppo di altoatesini che avevano combattuto con la Wermacht e che tutto ad un tratto si erano scoperti italiani.

Tutta questa gente rimase ad Odessa fino al 6 giugno, dopodiché fu trasferita in Romania a Maramarost Sighed dove sostò una settimana. Qui vennero trattenuti 50 ufficiali, scelti a cura di Robotti e dei membri più influenti del Gruppo Antifascista. Gli altri proseguirono per l'Austria e dopo una sosta di un'altra settimana a S. Valentino, vicino a Linz, furono consegnati, non senza incidenti e reticenze di ogni genere, alle autorità di occupazione inglesi di Vienna che li instradarono per Tarvisio dove giunsero il 7 luglio. Un rimpatrio durato circa tre mesi, con soste in cinque campi diversi e dopo aver cambiato per sei volte tradotta.

Perché una simile tortuosa riconsegna dopo più di un anno dalla fine della guerra? Data per scontata la proverbiale disorganizzazione russa, la ragione di tale rimpatrio da lumaca, stava nella volontà dei sovietici - naturalmente sollecitati da Togliatti allora già al governo - di non far rientrare gli ufficiali prima del referendum istituzionale. La partenza da Odessa, infatti, avvenne dopo il 2 giugno che sanciva l'avvento della Repubblica. Ancora timorosi di come avrebbe reagito l'opinione pubblica ai racconti degli ufficiali su quanto avvenuto nei campi di prigionia ed ammaestrati da quanto era successo al rientro dei soldati - che avevano reagito con tafferugli e scazzottate ai "compagni" che erano andati ad accoglierli con bandiere rosse e gli stantii slogan che avevano dovuto sorbirsi per quattro anni - i comunisti italiani ottennero che rimanessero ancora in mano russa quali ostaggi, i cinquanta prigionieri fermati a Sighed. Il loro rimpatrio avvenne dopo un mese, quando fu chiaro che le testimonianze degli ufficiali non avrebbero dato eccessiva noia. Per ulteriore precauzione, era stato predisposto un efficace sbarramento. Nessuna autorità, nessun rappresentante ufficiale, sia civile che militare si fece vedere ad accogliere questi reduci, il cui ritorno era stato sbandierato come un atto di generosità dei sovietici. Non fu autorizzata la pubblicazione di un messaggio di saluto rivolto al popolo italiano che la quasi totalità degli ufficiali aveva sottoscritto.

La stampa relegò nelle pagine interne e solo in ambito locale sorse durissima la polemica tra i fogli di ispirazione comunista e socialista e quelli cattolici o borghesi. Per i primi erano rientrati gli ufficiali che avevano condotto i soldati italiani ad invadere l'Unione Sovietica ed farli morire a migliaia. Che questi ufficiali avessero ubbidito al pari dei soldati a degli ordini, che avessero semplicemente compiuto il dovere di ogni cittadino chiamato alle armi, come avviene in tutti gli stati del mondo, compreso quello russo, non aveva importanza. Che il 90% di loro fosse di complemento, cioè non di mestiere e che circa la metà fossero semplici sottotenenti, in pratica studenti poco più che ventenni - come i soldati - strappati dagli studi e mandati a combattere, nessuno ne teneva conto. Essi, in più, avevano una colpa fondamentale: non erano tornati entusiasti del comunismo, malgrado tutti gli sforzi dei commissari politici e del giornale "L'ALBA"; dunque, secondo il metro di valutazione adottato allora - ma in auge per molti anni ancora - erano pervicacemente fascisti.

Per i secondi, il prigioniero rientrato dalla Russia era un ottimo elemento da sfruttare per la lotta e per la propaganda anticomunista specialmente a fini elettorali. Da ultimo, la loro insistenza a raccontare che in Russia non c'erano più italiani vivi, salvo poche eccezioni bene individuate e note, li aveva invisi alle decine di migliaia di famiglie dei Dispersi, che li ritenevano male informati se non addirittura propalatori di notizie false per oscuri motivi. Questa fu l'accoglienza che trovarono in Patria i superstiti di quattro anni di durissima prigionia.

Di frequente, sulla stampa si è fatta l'ipotesi che molti nostri prigionieri non sono tornati perché si sono formati una famiglia e una nuova esistenza nell'Unione Sovietica. Anche un film, "I Girasoli" proiettato una ventina di anni fa, avvalorava questa possibilità, attribuendo ad un soldato italiano, la stessa vicenda di un prigioniero ungherese della prima guerra mondiale che era rimasto in Russia, s'era formato una famiglia e non si fa riconoscere dalla moglie che era andata a cercarlo. Che ciò sia avvenuto nella Russia del 1917 è molto verosimile: sono noti i casi di numerosi soldati trentini - che allora combattevano nell'esercito austriaco sul fronte russo - ritornati in Italia dopo quattro, sei, anche dieci anni dalla fine del conflitto con moglie russa e figli. Naturalmente è possibile che altri non abbiano voluto tornare e si siano fermati.

Quello che si è verificato allora, però, non può avvalorare una simile ipotesi per l'ultima guerra. Allora le circostanze erano completamente diverse: c'era la rivoluzione e la controrivoluzione; nelle campagne e nei distretti periferici, la confusione era al massimo e non esisteva ancora il controllo a tappeto, totale, capillare della polizia politica, in particolare sugli stranieri, instaurato da Stalin. Che dei prigionieri di guerra italiani siano rimasti vivi in Russia dopo la fine dei rimpatri, presupporrebbe uno di queste tre condizioni, tutte sicuramente improbabili:

a) - che il soldato sottrattosi alle marce, e quindi ai campi, di prigionia, abbia vissuto per moltissimi anni nascosto, protetto da una famiglia che si assumeva una terribile responsabilità, assolutamente inconcepibile con la mentalità russa e con il terrore che ogni russo aveva della NKVD e delle delazioni da parte di tutti quelli che lo circondavano, compresi i figli e la moglie. E se la responsabilità se l'assumeva tutto un villaggio con l'assenso dei capi locali, l'epilogo poteva essere ancora più tragico. Un soldato italiano era stato ospitato in un paesino perché congelato. Dopo la guarigione, complice il direttore del kolkos ed il capo del soviet locale era stato trattenuto ed era diventato il factotum perché si arrangiava a fare tutti i mestieri, era benvoluto da tutti ed era un valido aiuto per i singoli e la comunità. Dopo circa un anno, tuttavia la cosa era giunta all'orecchio della polizia politica che cominciò ad indagare. Per evitare guai, le autorità del villaggio non trovarono di meglio che far sparire la prova della loro contravvenzione alle severe disposizioni che proibivano di ospitare prigionieri e uccisero il soldato italiano.

b) - che il soldato sia fuggito dal campo di concentramento, cosa relativamente facile quando i prigionieri furono in seguito adibiti ai lavori nei kolkos, nei boschi, negli abitati. Una volta libero, però, il fuggiasco doveva vivere, trasferirsi, avere denaro, conoscere bene il russo, sottrarsi agli innumerevoli controlli della polizia, degli organi amministrativi e di partito. Si tenga presente che tutti i cittadini russi non potevano allontanarsi, nemmeno occasionalmente, dalla loro residenza senza un lasciapassare della polizia. Il prigioniero doveva immediatamente allontanarsi moltissimo dal lager di evasione perché la regione circostante veniva battuta a tappeto ed i fuggitivi erano immancabilmente catturati e puniti con lunghi periodi di carcere duro che significava quasi sempre condanna a morte; quando non sottoposto ad esecuzione sommaria davanti a tutti i prigionieri del campo fatti schierare appositamente. Numerose testimonianze di reduci lo confermano. Un prigioniero scrive desolato: "fuggire? da dove? dal campo di concentramento? ma se tutta la Russia è unico campo di concentramento!".

c) - che qualche prigioniero, di sua volontà, abbia rinunciato al rimpatrio. Ci sono stati casi di soldati che hanno chiesto di rimanere per tema di procedimenti disciplinari ai quali sarebbero stati sottoposti appena rientrati (anche in Russia si sono verificati casi di diserzione, grave insubordinazione, procurate lesioni ecc. e le condanne inflitte dai tribunali militari erano rimandate al rientro del reparto di appartenenza in Italia) o perché la propaganda li aveva convinti che vivere in Russia era meglio che in Italia. Che si sappia, nessuno è stato accontentato. E' emblematico il caso del sergente Mottola. Messo alle costole degli ufficiali trattenuti, con le sue delazioni e false dichiarazioni, determinò la loro condanna ai lavori forzati. Successivamente usò angherie, fino alle percosse, nei loro confronti. Al momento del rimpatrio, conscio di quello che lo aspettava, aveva chiesto di rimanere, ma i russi lo rispedirono a casa, dove, come lui temeva, fu condannato a 10 anni che scontò nel carcere di Gaeta.

La tesi dell'esistenza in Russia, anche molti anni dopo la guerra di soldati italiani viventi ha avuto diversi patrocinatori. In particolare, un generale ed un sedicente storico, ben poco esperti di cose russe e nessunissima cognizione di cosa fosse la prigionia nei lager staliniani, hanno scritto assurde, pubblicando elenchi di campi inesistenti, cartine geografiche inventate ed anche recentemente, uno di loro con lettere ai giornali ha insistito di essere al corrente dell'esistenza in Russia di italiani. Diffidati a fornire documenti o prove, non hanno mai risposto e si sono sempre sottratti al contraddittorio. Che nella ex URSS vivano attualmente degli italiani, alcuni sposati a donne russe, è vero. Non si tratta però di prigionieri di guerra dell'ARMIR ma di civili che sono andati in Russia dopo la guerra per ragioni loro. Se ne conoscono i nomi e la residenza.

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