mercoledì 1 giugno 2022

Il Corpo d'Armata Alpino non si arrende, 2

Il Corpo d'Armata Alpino non si arrende, di Julius Bogatasvo - seconda parte.

"Il mistero di Rossosch non è ancora completamente chiarito...", riprese di scatto dopo qualche secondo senza che per questo avesse interrotto quel suo frenetico camminare. Tornavano dunque a galla i quattordici carri avvistati nella mattinata mentre correvano dietro le balke, a tergo del comando del Corpo d'Armata Alpino. Che ci facevano lì quei carri? Per il colonnello Cimolino la risposta, dopo le notizie che Damini aveva portato, era lampante nella sua chiarezza: quei carri che provocavano tutte quelle "rettifiche di fronte" di cui parlavano i comandi non rappresentavano un pattuglione isolato, né un fenomeno facile da circoscrivere; ma evidentemente erano una minima parte delle forze che avevano sfondato il fronte e che adesso dilagavano alle spalle degli alpini! Che cosa voleva dire questo? Solo una cosa: gli alpini rischiavano di essere accerchiati, di trovarsi in trappola da un secondo all'altro.

Mentre parlava, il colonnello Cimolino si era chinato sulle carte sparse confusamente sul tavolo e indicava con la mano i vari punti critici. Dopo aver abbozzato sulla carta un semicerchio, grosso modo corrispondente alla linea russa creata dietro le spalle degli Italiani, il colonnello riprese: "Fino a questa mattina ci hanno ordinato di tener duro a costo di qualunque sacrificio; la quota Cividale ci è costata un'infinità di perdite; questa notte avremo certamente un nuovo attacco in quel settore, tenuto dal Cividale; poi, laconicamente, mi si comunica questa sera di disporre con urgenza il movimento di ripiegamento strategico che avverrà all'ora da precisarsi ed in modo che il nemico non se ne debba accorgere!". Questa dunque la famosa verità... era finalmente saltata fuori: ecco pertanto il motivo di tutte quelle preoccupazioni che angustiavano il colonnello: gli avevano Ordinato di ritirarsi! E questo dopo che s'era infranta su quei capisaldi, nel tentativo di arginare la marea russa, la "meio zoventù" del Cividale!

In quell'istante, mentre il viso del Cimolino s'era aggrondato di nuovo, la porta si aperse e fece capolino l'aiutante maggiore del reggimento, il capitano Magnani. Magnani, bella barba alpina, un'ombra di baffi, pavese purosangue (nato a Mede nel 1909), doveva finire assai male la sua campagna di Russia, in mezzo alle sevizie, alle brutture e agli orrori dei campi di prigionia, dai quali sarebbe tornato molto dopo la fine della guerra: quasi dieci anni più tardi! In quel momento, è ovvio, Magnani era lontano le mille miglia quello sarebbe successo all'intero Corpo Alpino e in particolare a lui... Però portava una notizia poco simpatica: sulla destra dello schieramento, in prossimità della quota 172, i Russi erano riusciti a infiltrarsi: del Val Cismon che avrebbe dovuto trovarsi lì, non c'erano notizie.

"II collegamento con il Cividale funziona?". "Si, ma a sua volta il Cividale non riesce a comunicare con il Val Cismon...". "Provvedere subito... Cercate in qualunque modo di ripristinare il contatto con il battaglione... E' in movimento fin dal pomeriggio, ma già verso sera avrebbe dovuto trovarsi sulla nuova posizione mentre invece... Insomma, non c'è tempo da perdere". Era l'una di notte. Damini battè ancora i denti per il freddo intenso che lo colse al momento di aprire la porta, poi con un gesto risoluto si cacciò fuori. Nel buio. Aveva deciso di andare personalmente a vedere che fine avesse fatto il Val Cismon: un battaglione non può sparire da un istante all'altro, senza lasciar tracce.

Dietro di lui Si precipitò il tenente Sanguinetti con due soldati i quali, invece, avrebbero fatto volentieri a meno di sobbarcarsi quella camminata nel buio pesto e nella neve gelata. Sanguinetti, lui, era al contrario pieno di buona volontà, tutto compreso del suo compito. II momento era critico e non c'era tempo né per i sentimentalismi né per le riflessioni sui rigori della temperatura. Poco dopo il quartetto era a bordo di un mezzo che arrancava sul suolo compatto come una pietra; a fari spenti naturalmente, perché con il nemico cosi vicino sarebbe bastato un cerino o la brace di una sigaretta per attirarsi una pallottola mortale. Caracollando, la macchina arrivò fino al comando del Cividale, che era situato in una sorta di bunker, costruito dai tedeschi a pochi passi dalla linea in quel settore che fino a poco tempo prima era stato tenuto da un reparto germanico.

Il tenente colonnello Zacchi era sfinito; gli occhi arrossati, cerchiati, la faccia tirata, l'aria irsuta; pareva uno spettro e si muoveva proprio come un fantasma nella semioscurità di quel bunker appena appena illuminato da un fiammifero che, conficcato in un barattolo di grasso anticongelante, ardeva lentamente spandendo all'intorno un tremulo e pallido chiarore. Accanto a Zacchi c'era un capitano: era Palumbo, del Tolmezzo, che s'era cacciato in testa la cuffia per l'ascolto e stava tutto chino sul telefono. Anche Palumbo aveva l'aria di chi si trovava a terra per la stanchezza e tutto sottosopra: dunque le cose erano ancora peggiori di quanto apparivano poco prima!

"Avete notizie del Val Cismon?". "No, niente purtroppo, non sappiamo niente...". "Nessun collegamento? ". "Nessuno...". "Anzi, nella balka dove dovevano trovarsi gli alpini del Val Cismon ci sono adesso i Russi... Una nostra pattuglia ha mancato poco d'esser catturata in blocco; c'era andata a sbatterci il naso contro...". "Forse è meglio che dia un'occhiata alla carta...". "Certo: qua...". E il capitano Palumbo, deposta stancamente la cuffia sul tavolo, allargò bene la carta sul tavolaccio: non ci si capiva nulla con quella luce e con tutti quei nomi che ballavano sotto gli occhi; poi mancavano i segni che indicassero con precisione le posizioni ancora tenute dai nostri e quelle invece già occupate dai Russi; c'erano invece delle linee tracciate maldestramente, vergate in fretta, come dei cerchi concentrici che si allargassero verso ovest, dietro le spalle degli alpini, al di là, molto al di là del loro schieramento.

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