mercoledì 4 agosto 2021

Il viaggio del 2011, steppa a Novo Georgiewskij

Immagini del mio primo viaggio "esplorativo" effettuato nel 2011... la steppa fra Novo Georgiewskij e Krawzowka.



Seconda lettera di Hitler a Mussolini

Sempre a scopo divulgativo e storico riporto la seconda lettera scritta da Hitler a Mussolini a pochi giorni dall'inizio dell'Operazione Barbarossa.

LE PRIME IMPRESSIONI DELLA GUERRA CONTRO LA RUSSIA - Seconda lettera di Hitler a Mussolini.

Quartier Generale del Fuhrer, 30 giugno 1941.

Duce, consentitemi anzitutto di ringraziarVi per la Vostra ultima lettera. Mi allegro infinitamente che i nostri due punti di vista nelle grandi questioni concernenti il destino dei nostri popoli si identifichino così perfettamente. Credo che la settimana trascorsa, considerata sotto l'aspetto politico, abbia confermato in maniera clamorosa le nostre vedute. E' accaduto ciò che io stesso nel primo momento non osavo affatto sperare. L'Europa è stata strappata in gran parte ad un disinteresse veramente letargico. Molti Paesi si vedono obbligati a prendere ormai in questa nostra lotta contro il bolscevismo una posizione che sarà il principio di una più larga comprensione della nostra comune politica che in fondo è veramente europea.

La lotta, Duce. che ora si svolge da otto giorni, mi dà la possibilità di comunicarVi già ora, in poche linee, un quadro generale ed informarVi delle esperienze fatte. La più importante constatazione che io ed i miei generali abbiamo fatto è stata una cosa che veramente ci ha sorpresi nonostante tutte le previsioni. Duce, se questa lotta non fosse avvenuta ora, ma anche soltanto pochi mesi o un anno più tardi, noi avremmo - per quanto possa essere terribile questo pensiero - perduta la guerra.

L'Esercito russo stava approntando uno schieramento di forze con mezzi che andavano molto al di là di quanto noi sapevamo o anche solo ritenevamo possibile. Sono otto giorni che una brigata corazzata dopo l'altra viene attaccata, battuta o distrutta, e nonostante ciò non si è osservata alcuna diminuzione del loro numero e della loro aggressività. E' soltanto dal 27 giugno che noi abbiamo la sensazione che sopravvenga un alleggerimento, che l'avversario si abbatta lentamente e che appaiano localmente manifestazioni di dissolvimento. Come gli inglesi con il carro armato di fanteria Mark II, i russi han tirato fuori una sorpresa di cui noi purtroppo non avevamo alcuna idea. Un gigantesco carro armato del peso di circa 52 tonnellate, con una corazzatura di 75 mm., con un cannone da 7,6 cm. e tre mitragliatrici. Senza il nostro nuovo cannone da 5 cm., il cannone anti-aereo da 8,8 e le nuove granate anticarro della nostra artiglieria da campo noi saremmo impotenti di fronte a questi mezzi corazzati che attualmente sono i più forti.

Il "fanatismo" del soldato russo.

I russi avevano posto nella grande sacca di Bjalistock come in quella di Leopoli due enormi armate offensive. Numerose formazioni motorizzate e corazzate erano assegnate alle divisioni di fanteria, che a loro volta posseggono quasi tutte propri reparti corazzati. Entrambe queste armate sono state attaccate di fianco da noi dopo la rottura di dispositivi di difesa straordinariamente profondi che in certi luoghi sono di poco di inferiori alla linea Sigfrido. I combattimenti che ora hanno luogo qui da otto giorni appartengono ai più gravi che le truppe tedesche hanno dovuto sostenere sinora.

II russo combatte con un fanatismo veramente stolto; nei primi giorni non si avevano quasi prigionieri. Era una lotta di vita e di morte, nella quale molti ufficiali e Commissari russi si sono sottratti alla minaccia della prigionia con il suicidio. Le guarnigioni di fortificazioni ormai perdute si sono fatte saltare in aria da sole prima della resa. I contrattacchi russi non si sono effettuati per un qualsiasi elevato pensiero ma con la brutalità primitiva di un animale che si vede rinchiuso e si slancia con feroce rabbia contro le pareti della sua gabbia. Questo soldato, di per sè già molto duro, è stato inoltre follemente eccitato. I suoi Commissari gli raccontano che dopo l'imprigionamento egli sarà torturato e poi anche ucciso. Perciò egli lotta fino alle sue ultime possibilità e preferisce nel peggiore dei casi la propria morte alle torture annunziategli. Per la prima volta negli ultimi giorni di lotta, questo morale comincia ad oscillare, ed il numero dei prigionieri e dei disertori aumenta ormai di ora in ora.

Quasi tutti i contrattacchi russi si sono effettuati solamente con forze corazzate. Singole divisioni che spesso avevano già colpito cento e duecento mezzi corazzati in un solo giorno vengono il mattino seguente attaccate da nuovi mezzi corazzati. Credo, Duce, che incombeva sull'Europa un pericolo della cui misura purtroppo nessuno aveva una giusta idea.

L'arma aerea russa è cattiva. Tanto è fanatico il soldato russo quando combatte in terra, altrettanto è stato sempre maldestro come marinaio ed ora sembra lo sia anche come aviatore. Già nei primi sette giorni gli aviatori tedeschi hanno fatto vuoti spaventosi fra le forze aeree russe. Qui la supremazia non è soltanto chiara, ma addirittura assoluta. Ormai solo saltuariamente singoli apparecchi russi tentano di mostrarsi al fronte. In generale ogni volo del genere è anche l'ultimo.

Otto giorni di campagna.

La fanteria russa viene gettata nel combattimento in grandi masse, senza guardare al sacrificio. Mitragliatrici, lanciagranate, cannoni di fanteria e granate a mano causano loro perdite terribili. Nondimeno gli attacchi si rinnovano a brevissimi intervalli. II Comando russo è in genere cattivo. Una eccezione ha fatto, per lo meno nei primi giorni, l'Armata russa del Sud. Il Comando delle singole Divisioni o dei reggimenti è privo di qualsiasi attitudine militare. Il grado di cultura dei cosiddetti ufficiali non corrisponde in alcun modo alle esigenze che si richiedono nelle Nazioni europee. Tuttavia non è da nascondere che con l'andare degli anni anche in ciò vi sarebbe stato probabilmente un miglioramento. Senonché, data la brutalità di tale sistema di guerra, non è tanto determinante il valore del singolo quando la pericolosità dell'istrumento in se stesso. Tale pericolo sta nel numero stragrande di formazioni, nell'enorme sviluppo delle armi come pure nella completa indifferenza con cui il Comando sacrifica uomini e materiale.

Nel riferirVi, Duce, del tutto brevemente i risultati della lotta, prendo naturalmente in considerazione, per il momento, soltanto i successi visibili mentre per ora Ci resta ancora precluso l'esame della intima costituzione delle già battute formazioni russe. Ecco quanto risulta dopo otto giorni di campagna: A nord delle Paludi del Pripet - le quali dividono il teatro delle operazioni nella metà settentrionale del Baltico e della Russia Bianca ed in quella meridionale della Galizia e della Bessarabia - le Armate nemiche ammassate vicino alla frontiera sono state già completamente battute. Nella sacca formatasi dal rapido avanzare delle formazioni corazzate a cuneo nel settore mediano fra Bialystock e Minsk si trovano circondate due armate mentre forze celeri si sono già spinte oltre la Beresina.

Nel settore nord il nemico cerca, dopo aver sofferto gravi perdite fra la frontiera e la Dvina, di salvare i resti del proprio esercito settentrionale a mezzo di una ritirata verso nord-est. Dunaburg e Riga sono in mano delle forze corazzate tedesche. Nella Finlandia meridionale si trova il Feldmaresciallo Mannerheim - al quale sto inviando attraverso la Svezia anche una divisione tedesca - pronto fin dal 2 luglio all'assalto dalle due parti del Lago di Ladoga. Nella Finlandia mediana e settentrionale le forze finno-tedesche hanno il compito di tagliar fuori per un assalto verso est la città di Murmansk, che ha importanza come punto di riferimento per una eventuale azione di soccorso da parte inglese o americana.

Al sud delle Paludi del Pripet il gruppo corazzato dell'Armata del Sud avanza nella direzione generale di Shitomir mentre l'avversario da entrambe le parti di Leopoli cerca di sottrarsi, con una ritirata verso l'est, ad una minaccia di accerchiamento. La mira dei sovietici potrebbe essere di raggiungere la loro vecchia linea di fortificazioni e di stabilirvisi per la resistenza. Io progetto, quindi - per alleggerire l'urto frontale dall'ovest - di far attaccare nei primi giorni di luglio l'XI armata avanzatasi in Romania, unitamente alle forze romene che le sono assegnate sul Pruth a tergo della linea di fortificazione russa. Sul fronte dei Carpazi l'Ungheria si prepara ad avanzare con un corpo celere contro Kolomea e Stanislavow. I primi reparti hanno già attraversato la frontiera.

Le formazioni aeree nemiche hanno subito tali perdite che la padronanza dell'aria è completamente conquistata. L'Arma aerea tedesca può quindi essere sottratta in massa ed essere impiegata per l'appoggio dell'esercito. Io accetto la Vostra generosa offerta, Duce, di mandare un corpo italiano ed aerei da caccia italiani sul teatro bellico orientale. Che le nostre armate alleate marcino fianco a fianco proprio contro il nemico mondiale bolscevico mi sembra un simbolo della lotta di liberazione condotta da Voi, Duce, e da me.

Un invito al fronte.

Come apprendo circa le intese tra i nostri rispettivi servizi competenti, i trasporti dovranno effettuarsi sulla linea Brennero - Innsbruck - Salisburg - Linz - Vienna - Bratislava - Budapest e sboccare nell'Ungheria orientale. Bisognerebbe quindi comunicare con un anticipo di almeno tre giorni l'inizio dei movimenti di trasporto a causa dei necessari preparativi in Germania. Dove poi avrà luogo l'impiego - prevedibilmente nell'ambito dell'XI Armata tedesca - lo dirà lo sviluppo della situazione. Mi permetterò, Duce, di comunicarvi tempestivamente più precise proposte a tale scopo.

Di speciale importanza mi sembra quanto segue: le vie di comunicazione della Romania sono attualmente molto gravate dall'avanzata romena ed ungherese. Ad entrambi questi Stati ho fatto sapere che ciò nonostante debbono essere ulteriormente e regolarmente proseguite le forniture di oli minerali romeni di vitale importanza per le Potenze dell'Asse. I dirigenti dei servizi di trasporto hanno già tenuto calcolo di questo punto di vista nella comune preparazione dei trasporti delle truppe italiane. Anche durante la campagna orientale la lotto contro l'Inghilterra verrà proseguita con sufficiente impiego di forze. La Marina da guerra germanica non sarà quasi impegnata contro la Russia Sovietica nel Mar Baltico da noi sbarrato. Però l'assedio dell'Inghilterra deve essere soprattutto rinforzato, anche durante le operazioni orientali, un adeguato impiego dell'Arma aerea.

Ed ora, Duce, lasciatemi esprimere alla fine ancora il pensiero. Ho riflettuto se non sarebbe forse psicologicamente giusto che noi due proprio nel corso di questa lotta ci potessimo incontrare in qualche luogo al fronte orientale. Il luogo più appropriato sarebbe naturalmente il mio stesso Quartiere oppure un'altra delle località all'uopo previste poiché si trovano colà le condizioni necessarie per gli impianti dai quali io - almeno per un periodo di tempo piuttosto lungo - non potrei allontanarmi che con molta difficoltà. Nei riguardi del sistema delle comunicazioni e delle notizie io sono purtroppo uno schiavo della tecnica. Ma io credo che se ciò potrà una volta realizzarsi - anche prescindendo del tutto dallo scambio personale di idee - gli effetti psicologici per entrambi i nostri popoli sarebbero certamente utili.

Credo inoltre che ciò sarebbe adeguatamente apprezzato anche dal resto del mondo. Chiudo questa lunga lettera, Duce, salutandoVi con vecchia amicizia e nel più cordiale.

Adolf Hitler

martedì 3 agosto 2021

Le mappe dello CSIR e dell'ARMIR 14

Le mappe delle operazioni del CSIR e dell'ARMIR dal giugno 1941 all'ottobre 1942 - La battaglia di Chazepetowka (5-14 Dicembre 1941).

Ricordi di un alpino

Alpino Alessandro Carpanè, 58a Compagnia, Battaglione Verona, 6° Reggimento Alpini.

Sono anch'io uno di Nikolajewka e come per tutti ci sarebbero tanti episodi da raccontare, è quasi difficile cominciare. Io appartenevo al Battaglione Verona, 58a Compagnia comandata dall'allora capitano Bernardo Venier. Ero portaferiti fino al giorno 19 gennaio, giorno memorabile per il nostro battaglione: una parte di esso fu distrutto in quel grande combattimento di Postojalyi.

Quanti morti e feriti quel giorno! Difficile saperlo. Avemmo molto lavoro a portare i feriti nelle isbe per essere in qualche modo medicati. Alla sera nell'isba quasi nell'oscurità giacevano due alpini senza alcun segno di vita. Un ufficiale per fare un po' di posto perché altri alpini potessero ripararsi dal freddo, vedendo quei due alpini morti ci ordinò di portarli fuori coprendoli con un po' di paglia.

Io per mia iniziativa gli levai ad uno e precisamente a Massimo Ceschi il piastrino di riconoscimento e me lo misi in tasca. Dopo qualche giorno anch'io fui ferito e ricordo che più volte, frugando nelle tasche se c'era qualche briciola di pane, mi veniva in mano il piastrino del Ceschi; ma in seguito lo perdetti come tante altre cose.

La guerra finisce e vicino al mio paese in una festa d'alpini presenziava il simpatico, vecchio Colonnello Marchiori e non so come fu che gli raccontai il fatto. E qui con grande stupore mi disse che l'alpino Ceschi era a casa, anzi, per assicurarmi, mi disse che era un suo dipendente. Era si tornato ferito, ma stava bene. Io non sapevo più come spiegarmi del fatto.

Ed ecco che un giorno il Ceschi mi venne a trovare, ma al primo incontro nessuno di noi due era capace a parlare, solamente le lacrime correvano dagli occhi. Tornando al tempo della sacca, Il giorno 21 gennaio '43, al mattino presto, ancora buio, rimasi ferito da schegge ad una gamba e qualcuna di queste rimase conficcata nella carne e così non potei più camminare. Da quel momento fino al giorno 31 quel che io passai Dio solo lo sa. La fame completa, non potendo cercare tra le isbe qualcosa da mangiare, le mille difficoltà di trovare qualche mulo o slitta per salirci sopra, ma non voglio allungarmi perché tutti là hanno visto con i loro occhi e lo sanno molto bene.

Finché arriva il 31 e cioè il mio più grande episodio. Quel mattino era ormai a condizioni quasi disperate, credo aver avuto la febbre e non avevo neanche fiato di parlare, mi reggeva più che altro il pensiero della famiglia e le cose care. L'ora della partenza si rese ancor più triste perché non ero capace di trovare qualche posto sulle slitte e i muli perché questi erano ormai ridotti molto pochi. Ma ecco passarmi vicino un alpino con il mulo senza alcun carico sul basto, gli chiesi di salirci sopra e lui mi fece cenno di sì, cosicché con il suo aiuto mi arrampicai sopra.

Dopo circa un'ora, lui dovette fermarsi per un suo bisogno, se non che dopo poco mi accorsi che da quella posizione non si muoveva e nemmeno chiedeva qualcosa, mi sforzai e andai per alzarlo quando mi accorsi che le sue mani non si muovevano più, erano bianche e si erano congelate (i guanti li aveva perduti).

Che cosa fare allora? Intanto lui si metteva a piangere vedendo che non era capace di muoversi. Ma con l'aiuto di qualcuno potemmo caricarlo sul mulo. Ed io, allora? Cosa mi restava? Mi aggrappai al mulo camminando quasi con una gamba sola, ma per poco, perché ecco il miracolo: una colonna di camion con i nostri soldati ci aspettava per caricarci sopra e portarci all'ospedale di Karkov, era venuto quel giorno.

RICCARDO

giovedì 22 luglio 2021

Il viaggio del 2011, steppa a Novo Georgiewskij

Immagini del mio primo viaggio "esplorativo" effettuato nel 2011... la steppa fra Novo Georgiewskij e Krawzowka.



Palù, la Bigia e tutti gli altri, parte 4

Tutto il materiale proposto fa riferimento all'articolo 70 comma 1 della legge numero 633 del 22 Aprile 1941 che cita "Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l'utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali".

Palù, la Bigia e tutti gli altri... quarta ed ultima parte.

Palù, dal canto suo, ha calmato in parte la fame; sente freddo agli arti inferiori ma non gli dà eccessivo fastidio, e poi in quella posizione accosciata sente che riposa. Pensa che in tutta la sua carriera di rado ha dormito sdraiato a terra; sempre in piedi, ora su due zampe ora sulle altre due. È da quando è cominciata questa lunga marcia, che ha conosciuto il benefico riposo a terra. Sente il corpo del suo conducente adagiato sul suo fianco destro, appoggiato alla Bigia, e non muove un muscolo per non svegliarlo; sa che deve proteggerlo perché il conducente protegge lui. Ha notato che, prima di ogni altra cosa, appena lo ha fatto accasciare a terra, gli ha dato da mangiare, lo ha coperto con quel telone che ora comincia a pesare per la gran neve che il vento vi deposita sopra e prova un senso di riconoscenza per quell'uomo con il quale ha diviso la sorte per tanti anni. Ha un cuore grande, Palù, e dentro vi è posto per solo per il suo conducente.

Il mulo agita la testa mentre le sue robuste zampe affondano nella neve e procedono sicure. Il passo della Bigia è invece stanco, si direbbe che si lasci trascinare dal maschio e Scotto se ne accorge perché la testa della mula è sempre un mezzo metro indietro, rispetto a quella di Palù. "Forza Bigia", la incoraggia, e passa dalla sua parte lasciando la briglia del maschio e afferrando con la mano sinistra quella della mula. Camminando sente il respiro affannoso della bestia, quasi un rantolo che le gorgoglia nel lungo collo mentre la pelle delle zampe trema, come se i muscoli che sono sotto abbiano delle contrazioni dolorose. Il conducente pensa con raccapriccio che la mula sia ammalata, o esausta, e non abbia più la forza per farcela. Ma proseguono, passo dopo passo, forse più lenti del ritmo normale di marcia, ma con decisione, gli occhi fissi alle tracce lasciate dalle altre slitte e dagli zoccoli dei muli. Devono raggiungerla via della salvezza, ad ogni costo.

Quando comincia ad albeggiare è un pallido sole sorge a oriente, fanno una sosta e la Bigia crolla nella neve. Subito liberata dai finimenti, viene massaggiata dal conducente con del fieno, sulla pancia, sui fianchi, sul collo, sulle zampe. Ma il su occhio annebbiato, sbatte le palpebre dalle lunghe ciglia e respira a fatica; le orecchie hanno dei movimenti in avanti e indietro, come a cercare di percepire rumori che solo lei sente. "Bigia, anima mia, coraggio!", le sussurra il conducente e cerca di versarle delle gocce di grappa fra le labbra, ma quella le sputa. Palù irrequieto, si muove avanti e indietro, attaccato alle tirelle, gira di continuo la grande testa verso la sua compagna di fatiche e a tratti di sbuffa dalle dalle grandi narici, oppure emette un suono, con un richiamo inarticolato ma doloroso. Sente che la Bigia sta morendo: come tutti gli animali, al sentore della morte prima degli uomini e ne ha paura. Ad un tratto si rizza sulle zampe posteriori e agita le anteriori nell'aria, una, due volte. In quel momento la mula fa un lungo sospiro e la sua testa cadde nella neve, affondandovi a metà, un occhio fuori e l'altro sepolto nella coltre bianca; le sue zampe si irrigidiscono, sembrano più sottili e più lunghe. La sua coda si confonde col bianco della neve.

Scotto e lì immobile, una mano posata sulla testa dell'animale, lo sguardo fisso quel l'occhio ancora aperto ma senza più luce nella pupilla; si sente come svuotato, ha perduto la forza e la sua mente vaga come in un mare in tempesta; rivede in pochi attimi tutte le scene di guerre e di morte... E mentre l'ufficiale esegue l'operazione, il conducente sposta la slitta per lasciare la mula fuori dalle tirelle, poi prendo il badile e comincia a coprire la Bigia con tanta neve. Nessuno deve ridurre a bistecche la Bigia, dice a sé stesso, e in quel momento comincia a piangere. Le lacrime scendono nel passamontagna e si mescolano al ghiaccio rappreso davanti alla bocca, al sudiciume; scendono nei peli della barba dove sono andati i pidocchi. Ha gli occhi annebbiati il povero conducente, e lavora, lavora di badile, creando una montagnetta di neve sul corpo della bestia. Ultima a coprire è la testa, distesa e smagrita, con l'occhio sempre aperto, come se guardasse davanti a sé, la pista e le tracce delle slitte che sono passate di lì indicano a loro la via della salvezza.

La marea degli sbandati si muove come una valanga, precipita giù per il vallone, risale la china, si accalca verso il sottopassaggio; alcuni salgono sul terrapieno e dilagano nella città seguendo i combattenti. Anche le slitte dei feriti si muovono e scivolano per il pendio; i conducenti trattengono i muli e frenano le slitte con forza per non travolgere i quadrupedi. Il fondo della vallata è coperto di cadaveri e i conducenti guidano i muli onde evitare quei miseri resti raggomitolati o distesi nella neve, quasi irriconoscibili con il passamontagna ricoperto di sangue o con chiazze sul petto, sul dorso, mentre la neve è rossa ovunque.

Introdursi nel sottopassaggio è impresa ardua, con le slitte, perché la gran massa che vi si accalca dentro, vociante in diverse lingue e in tutti di dialetti d'Italia, resa cattiva e feroce da giorni e giorni di lotta, di privazioni e di fame; protesa verso l'uscita del sottopassaggio che in quel momento rappresenta la via della salvezza. E gli uomini calpestano i feriti, si fanno largo a spallate, a spintoni, bestemmiando, urlando, minacciando con le più diverse armi, dalle baionette alle pistole, che intralcia il passo. Qualcuno spara contro un commilitone e quello si accascia, subito travolto e calpestato dagli altri. Scotto ferma la sua slitta e aspetta con pazienza che la marea sia passata, non vuole rischiare la vita sua e del suo mulo in quella calca infernale. La fiumana di sbandati si assottiglia; adesso gli uomini passano là sotto con più facilità, c'è un po' di spazio fra uno e l'altro.

Ma in quel momento il destino ha segnato l'ora fatale per il mulo Palù. Procedendo cauto, appoggia lo zoccolo destro su uno strato di neve che sembra consistente e gelata, ma cede, la zampa affonda, con un rumore sinistro, fino al ginocchio; il conducente avverte il sordo rumore e nello stesso tempo il suo braccio, che tiene la briglia, subisce uno strappo in avanti; la testa del mulo picchia a terra, la zampa sinistra si piega sotto il corpo dell'animale e Palù lancia una specie di urlo di dolore. Gli altri non hanno udito e stanno proseguendo lungo il terrapieno ma Scotto chiama, urla: "Aiuto, aiutatemi!". La slitta che lo precede si arresta, poi si arrestano le altre e i conducenti accorrono. Scotto ha già staccato le tirelle, ha liberato la bestia dei finimenti e continua a ripetere: "Bono Palù, bono, non ti muovere".

Il mulo obbedisce, paziente, appoggiato il muso nella neve e gira i suoi grandi occhi attorno, come un cerca di aiuto. Il suo conducente scava con le unghie la neve, attorno alla zampa sepolta dell'animale, penetra nella cavità, sente che una buca di pochi decimetri di diametro; lo zoccolo appoggio sul fondo, ma sente anche che lo stinco di Palù è spezzato, le ossa premono contro la pelle puntute, come coltelli. È come se il sangue si fosse ghiacciato nelle vene del povero conducente; alza gli occhi sui compagni che stanno lì ad osservare, pronti ad aiutarlo, poi dice sotto voce, quasi non volesse far sentire al mulo: "Ha uno stinco spezzato!". Gli uomini si prodigano, afferrano l'animale sotto la pancia e, facendo forza tutti insieme, lentamente lo sollevano. La zampa lesionata viene alla luce e il mulo nitrisce di dolore. Lo fanno coricare sul fianco sinistro e Scotto è lì con lo sguardo allucinato; non ha più forza e il suo cervello è come paralizzato. Sa cosa significa una zampa spezzata, è la morte, inesorabile, sicura. Si avvicina la testa di Palù, accarezza la grande fronte, dove spicca la stella bianca, le froge calde e fumanti; sente il respiro ansimante della bestia, ma non ha il coraggio di guardarla negli occhi.

"Palù, amico mio", gli mormora con dolcezza, "non aver paura, sono qua io!", e gli accarezza ed orecchie che vibrano a percepire tutti i suoni e i rumori. Il dolore della ferita deve essere lancinante. La zampa si è gonfiata in maniera orrenda, dal ginocchio allo zoccolo che quasi scompare, ora, sotto il gonfiore. Arriva il capitano medico che esamina subito la zampa lesionata, ma al tocco delle sue mani la bestia ha come un sobbalzo per il dolore; il medico si rialza e si avvicina al conducente, appoggiandogli il braccio ancora valido sulle spalle. "Coraggio, amico mio. Questa nobile bestia che ci ha portato in salvo, sta per finire di soffrire".

"Come sarebbe a dire?", salta su Scotto con atteggiamento quasi aggressivo. "Tu te ne intendi più di me", dice il capitano medico, "se fossimo al reggimento, con un'infermeria, un veterinario e tutti gli aiuti necessari, forse si potrebbe anche tentare di ridurre la frattura, ingessare la zampa e lasciare il mulo sdraiato per un mese o due; ma sarebbe comunque un mulo invalido per sempre, anche se potesse riprendere a camminare. Ma qui..." e si interrompe con un sospiro. "Allora vuol dire che dobbiamo abbatterlo?". Il capitano fa cenno di sì con la testa e non dice altro. Egli sa quale sia l'affetto che mulo e conducente hanno uno per l'altro; ha ammirato la forza, l'intelligenza, il coraggio di entrambi e sente un vero struggimento di fronte alla triste realtà e alla decisione che con Scotto deve prendere.

Il conducente, stretto nelle spalle, rimpicciolito dal dolore che lo stringe come una morsa, non piange, guarda tutti i morti che sono seminati lì attorno e per quelli non prova né pietà né dolore, ma per Palù sente il cuore che il cuore batte a ritmo accelerato, con colpi sordi, come se volesse scoppiarli un petto. Non sa cosa fare, non sa pensare, non sa ragionare e torna ad inginocchiarsi vicino alla grande testa nera, l'accarezza e gli occhi di Palù sembra chiedano cosa gli è successo, cosa vogliono fargli, perché è crollato mentre sente ancora tanta forza nei suoi muscoli poderosi. "Signor capitano", dice piano Scotto all'ufficiale che è lì ad attendere, "faccia lei, ma mi raccomando, che non soffra. Poi lo faccia coprire con il telone della slitta, lì ci sono delle traversine, le faccia mettere sul telo, che nessuno veda il cadavere del più bel mulo degli alpini". Accarezza un'ultima volta la grande testa di Palù, il collo in cui guizzano nervosi muscoli e tendini; le lacrime gli offuscano la vista e scendono copiose nella barba incolta. "Ciao, vecchio mio, fratello mio", mormora singhiozzando, poi si alza procedendo a tentoni, come se fosse ubriaco, e si allontana, dirigendosi verso le altre slitte.

Ma Scotto si sente solo, sperduto, come un forestiero che capiti in una città sconosciuta, dove la gente parla un'altra lingua, ed è allegra, ride, schiamazza, si diverte e lui non capisce una parola, non sa a chi rivolgersi, dove dirigere i propri passi; è preso dalla disperazione, dalla nostalgia per il paese lontano, dove parlano la sua lingua, sono come lui; puoi entrare in un bar per ordinare un bicchiere di vino, e subito trovi un amico. Ha sulle spalle il suo zaino e il "sacco comune" del mulo, nel quale verrà deposto lo zoccolo anteriore sinistro, quello col numero di matricola. Ma non lo consegnerà ad un comando militare per far scaricare dalla "forza" del reggimento il mulo Palù. Lo terrà con sé, per tutta la vita, lo metterà in camera sua, nella casetta lassù sulla collina di Pegli, accanto alla fotografia di Palù, quella che il tenente Morena mi ha fatto tanti anni addietro a tenda.

Si sente lontano uno sparo, dietro a loro. Ecco, Palù è morto, adesso lo copriranno, il capitano staccherà lo zoccolo e lo porterà lui, magari avvolto in un panno, o in un sacco. L'idea passa come un lampo accecante nella mente del conducente che si arresta, vorrebbe correre indietro, rivedere suo Palù, ma la morte dell'amico mulo lo ha inchiodato lì, avvolto dalla notte buia, mentre la neve ricomincia a cadere, dapprima sottile e soffice, poi sempre più fitta e fa velo sugli occhi, imbianca i pastrani sporchi e laceri, lo zaino che tiene appeso a una spalla. Palù ha compiuto l'ultimo miracolo, per loro: li ha portati fino alla meta che si erano prefissi di raggiungere e rimane qui, col suo possente corpo dal manto nero con la stella bianca in fronte, forse a proteggere gli altri innumerevoli passi che questi superstiti dovranno compiere prima di salire su un treno che le riporterà a casa.

Ecco... qui finisce la storia di Palù, della Bigia e di tutti gli altri, anche loro non tornati dalla Russia. Ora so che il prossimo 26 gennaio che passerò in Russia, arrivato a Nikolajewka e superato il vero sottopassaggio che loro attraversarono, mi dirigerò a sinistra, lungo la massicciata, esattamente come hanno fatto loro e dopo qualche metro lascerò nella neve un fiore per Palù, per la Bigia e per tutti gli altri...

domenica 11 luglio 2021

Il processo D'Onofrio, parte 12

Il processo D'Onofrio, dodicesima parte. Premetto un aspetto molto importante che ha sempre contraddistinto questa pagina: a volte si toccano argomenti scottanti ed ancora oggi delicati; quello che qui tratterò è forse uno dei più significativi da questo punto di vista. Ma detto questo sottolineo che quanto andrò a riportare NON ha alcun fine politico o di parte, ma esclusivamente storico. Sono fatti relativi alla Campagna di Russia ed alle sue conseguenze e come tali vengono riportati. Qualsiasi commento inopportuno da una parte e dall'altra verrà immediatamente cancellato. Chiedo a chi segue la pagina di esporre la propria idea con educazione e rispetto verso chi magari espone pensieri opposti: la storia e non solo la storia ha già condannato chi mandò quei sfortunati ragazzi in Russia e chi contribuì a tenerli più del dovuto.

LA VENTESIMA UDIENZA.

21 giugno 1949 - Con gli ultimi quattro testi d’accusa escussi, l’istruttoria orale del processo D'Onofrio - Reduci si è chiusa per riprendere fra quindici giorni quando comincerà il torneo oratorio degli avvocati. Fino a quel giorno riposo.

Il serg. Corrado Cicognani è stato il primo ad essere ascoltato. Egli ha esordito dicendo di non essere venuto per difendere la Russia ma gli italiani. E infatti ha mantenuto fede alla premessa in quanto la sua deposizione è stata tutto un elogio al comportamento dei fuorusciti e all'interessamento dimostrato verso i prigionieri italiani. E per non essere disturbato ha voluto gentilmente pregare il Presidente di non interromperlo perché aveva cose molto importanti da dire: cose vissute. La signora Torre fu 'una vera madre' della quale il teste ha enumerato i meriti e le virtù eccezionali che andavano dalle benefiche parole di esortazione alle più vive preoccupazioni per le condizioni di salute degli internati; dall’interessamento presso le autorità sovietiche per un miglioramento del vitto alla ottenuta sostituzione dei rumeni nel servizio sanitario con medici italiani. E tutti gli altri emigrati ebbero più o meno gli stessi meriti.

Presidente: 'Ci parli della scuola di antifascismo'.

Cicognani: 'Se lei mi lascia parlare vedrà che piano piano dirò tutto. Molti frequentarono i corsi di antifascismo perché si diceva che il vitto là era migliore. Io ci andai per curiosità di sapere che cosa vi si insegnasse e così fui assegnato alla scuola numero 165 dove conobbi come istruttori Rizzoli e Robotti. Ero molto contento quando loro parlavano del Risorgimento Italiano, di Mazzini (io sono repubblicano, iscritto al partito) e di Garibaldi. Ma non ne volevo sapere di sentire parlare di Marx perché era un tedesco. Però anche se Marx non mi piaceva gli istruttori mi volevano bene lo stesso. Alla fine del corso c'era da prestare un giuramento di fedeltà al popolo italiano ma non era affatto obbligatorio. Chi non voleva, non giurava. Dopo il corso tornai in Italia'.

Dopo una breve deposizione del soldato Fiorenzo Lancellotti, il quale ha dichiarato di non poter dire che bene dei fuorusciti italiani in genere e di D'Onofrio in particolare, perché sollevava il morale dei prigionieri, è salito sulla pedana il sottotenente Francesco Serio. Egli ha ammesso che le razioni di viveri a Krinovaia erano assolutamente insufficienti ma, ha aggiunto, che ciò dipendeva dal gran numero dei prigionieri presenti, per cui malgrado le cucine fossero in funzione giorno e notte ininterrottamente, non riuscivano a soddisfare le esigenze della enorme massa degli internati. Le preoccupazioni alimentari però finirono con il trasferimento ad Oranki dove si mangiava discretamente. Del D'Onofrio ha detto che egli non propagandò mai idee comuniste ma soltanto antifasciste.

Il teste ha poi ricordato che prima di rimpatriare, ad Odessa, alcuni prigionieri presero l'iniziativa di scrivere una lettera di ringraziamento al popolo sovietico per il trattamento usato ai prigionieri e soltanto pochi ufficiali si rifiutarono di sottoscrivere.

A questo punto l'imputato Emett si è alzato e, chiesta la parola al Tribunale, ha voluto chiarire che egli fu uno di quelli che si rifiutarono di firmare la dichiarazione di ringraziamento.

Emett: 'Ritenevo che cosi facendo mi sarei acquistato il disprezzo di tutte le madri italiane. Per questo rifiuto, io e numerosi altri, fummo trattenuti ancora per qualche tempo in Russia. Il signor Serio quando eravamo ad Oranki mi vendette, per tre razioni di pane, una gavetta tedesca. Per poco non finii in galera perché il Serio la gavetta l’aveva rubata ad un prigioniero tedesco'.

Serio: 'È falso, lo in quel periodo ero nel lazzaretto'.

Ultimo teste, il ten. Nando Bellotti, il quale ha narrato delle epidemie che scoppiarono nei campi. Una infermiera russa, che aveva il fratello morto sul fronte italiano, donò il proprio sangue per la vita di un nostro prigioniero. Di D'Onofrio ha ricordato l'opera benefica svolta a favore dei prigionieri ed ha aggiunto che il ten. Ioli si meravigliò moltissimo quando seppe che era un operaio e affermò che se tutti i fuorusciti italiani fossero stati come il D'Onofrio, i prigionieri in Russia sarebbero stati molto meglio. Quanto alla tolleranza religiosa dei sovietici il teste ha affermato che era tale che le autorità russe consentirono in occasione della Pasqua del 1943 che il cappellano Aleggiani celebrasse una messa. I russi stessi procurarono gli arredi sacri e le ostie per la comunione dei prigionieri.

Avv. Mastino Del Rio: 'Il cappellano Aleggiani ha fatto ritorno in Patria?'.

Bellotti: 'Non mi risulta'.

Presidente: 'Il teste ebbe un incidente al ritorno in Italia?'.

Bellotti: 'Sì. Io ed altri colleghi fummo aggrediti alla frontiera italiana da alcuni ufficiali i quali volevano che sottoscrivessimo una dichiarazione ma che ci rifiutammo di firmare perché conteneva tutte menzogne. Ecco perché fummo aggrediti e bastonati'.

Avv. Taddei: 'Quanti furono coloro che il teste definisce 'aggressori'?'.

Bellotti: 'Una ventina'.

Avv. Taddei: 'E gli aggrediti?...'.

Bellotti: 'Più di cinquecento...'.

Con la risposta del teste Bellotti, che ha suscitato uno scoppio fragoroso di ilarità, si è concluso l'esame testimoniale e l'udienza è stata rinviata al giorno 7 luglio per ragioni di procedura.

LA VENTUNESIMA UDIENZA.

8 luglio 1949. - Certamente il sen. D'Onofrio non s'aspettava che proprio uno dei testi indotti dalla Parte Civile gli giuocasse un così brutto tiro. Eppure è stato così. Il ten. col. Guido Zingales, uno dei reduci che avrebbe dovuto presentarsi al tribunale a sostegno delle affermazioni del querelante, non solo non si è mai presentato a deporre, ma ora si è saputo che ha rilasciato una dichiarazione oltremodo interessante che suona tutt’altro che gradita alle orecchie del signor D'Onofrio. Nella dichiarazione, il tenente colonnello, dopo aver ricordato che, prigioniero nel campo di Oranki, vide arrivare il D'Onofrio accompagnato da un maggiore russo che dicevano essere della N.K.V.D. e che si faceva chiamare Orloff, racconta:

Zingales: 'Fui uno dei primi ad essere interrogato. Il colloquio, come veniva chiamato, durò circa una mezz’ora. Mi fu chiesto, fra l'altro, quali erano le mie idee politiche e che cosa ne pensavo della guerra. Non mi furono fatte minacce, ma non posso escludere che ne fossero fatte agli altri, e ciò per diversi motivi. Le minacce erano purtroppo all'ordine del giorno, sia da parte dei russi sia da parte dei commissari politici. Ho assistito a minacce fatte in pubblico dal commissario Fiammenghi durante le sue conferenze ai ten. Resinato e Ioli, tuttora detenuti in Russia. In seguito ne vennero fatte collettivamente a tutti gli ufficiali, specie ad opera di certi Robotti e Ossola.

Particolare sensazione causarono nel campo gli interrogatori dei ten. Reginato e Ioli per la loro durata e per la loro frequenza. Il cap. Magnani e il ten. Ioli furono allontanati dal campo di Oranki (dove il Magnani era frattanto rientrato) subito dopo la partenza di D'Onofrio: era opinione generale dei prigionieri che tale allontanamento fosse opera del D'Onofrio'.

Zingales: 'Cito un solo caso per tutti: l'uccisione di un tenente (di cui sventuratamente non ricordo il nome) ad opera di una sentinella russa nel 1943 (e cioè quando già da un po’ ci eravamo sistemati nei campi di concentramento). Il tenente, tornando dal lavoro, nonostante l'ordine della sentinella, si era chinato, spinto dalla fame, a raccogliere una piantina di cicoria che cresceva sull'orlo del sentiero!

Devo infine dire, per quanto riguarda i metodi russi di propaganda che essi non rifuggivano neppure dal falso. Cito un fatto personale: al mio rientro in Patria ho appreso di aver parlato più volte alla radio, cosa che mi sono sempre guardato dal fare e che, del resto, non mi venne neanche proposta. Mi rifiutai anche di inviare i miei saluti alla famiglia quando appositi incaricati nel Natale 1945 vennero per fare incidere dai prigionieri dei dischi di saluti che avrebbero dovuto essere trasmessi da Radio Mosca'.

Alla ripresa del processo, malgrado gli undici giorni di sospensione, l'interesse non è minimamente attenuato, anzi si potrebbe dire accresciuto con l'approssimarsi della sentenza del Tribunale. Lo spazio riservato al pubblico è letteralmente gremito di reduci, di donne, forse madri, forse spose di chi non è più tornato. Su molte persone, fra il pubblico, si vedono i nastrini azzurri delle decorazioni.

Il torneo oratorio che conclude l'importante processo è cominciato alle 9,30 con una lunghissima arringa del primo avvocato di Parte Civile, l'avv. Mario Paone, il quale ha parlato, con grande enfasi e calore, per ben quattro ore (e ne avrà ancora per un paio d'ore dell’udienza di domani) sottolineando le proprie affermazioni con violenti pugni sul tavolo, rosso in viso e sudato per la fatica oratoria.

Avv. Paone: 'Intorno a questa causa è fiorita tutta una letteratura che impegna la civiltà occidentale contro quella orientale, una letteratura che impegna i valori dello spirito contro quelli della materia. Ma trovo molto strano che molti giornali abbiano pubblicato che gli emigrati politici italiani in Russia influirono sulla condotta della guerra. Cosa c’entra la Russia Sovietica, cosa c'entrano i comunisti italiani in Russia con la disfatta dell'ARMIR?

La guerra dell'ARMIR nella sacca del Don era finita. È inutile discutere su questo. Gli emigrati italiani nulla poterono fare mentre un maresciallo d'Italia di ritorno in Patria inasprì la polemica. Ma, signori, qui non è messo in ballo l'onore d'Italia, ma solo la preparazione con cui il defunto regime mandò a combattere i soldati in Russia'.

L'avv. Paone ha preso l'argomento molto alla lontana. Dopo aver parlato a lungo della tradizione italiana del Risorgimento, ha toccato questioni politiche, ha sfiorato problemi filosofici, rievocato le grandi figure militari della Roma repubblicana, accennato alle condizioni italiane prima e durante il fascismo. Ha ricordato la funzione nel mondo della Russia Sovietica, ha parlato di Mussolini, di Hitler, di Franco, della Spagna falangista, della campagna razziale, del contributo dell’Unione Sovietica alla affermazione dei valori fondamentali della libertà umana. Ha affermato che gli ordinamenti politico-giuridici internazionali sono infelici ed ingiusti. Ma ciò non dispensava evidentemente il governo bolscevico dall’usare un trattamento umano verso i prigionieri di guerra.

Avv. Paone: 'Qui si è tentato di fare una speculazione politica: tutto il resto non è che diffamazione o meglio calunnia. Edoardo D'Onofrio si presenta dinanzi a voi, o giudici del popolo, sotto l'usbergo della sua tranquilla coscienza, a rivendicare l’opera da lui svolta quale esule politico nei campi di concentramento sovietici a favore dei suoi connazionali prigionieri'.

Due ore precise è durato il preambolo dell’oratore e ben meritato è stato il breve riposo che si è concesso prima di affrontare il vivo della questione. Quando ha ripreso a parlare, il patrono della Parte Civile, ha detto che la guerra alla Russia non si sarebbe fatta se questi militari (e puntava un dito accusatore sugli imputati) fossero andati a raccontare a Mussolini le condizioni di impreparazione del nostro esercito, se gli fossero andati a dire che gli italiani non volevano andare a combattere contro la Russia. Ma non spiega perché non ci sia andato lui! Doveva o no, il senatore D'Onofrio sporgere querela contro i suoi diffamatori? L'oratore scioglie subito il suo dilemma affermando che quando si lede l'onore di un uomo che è stato l'apostolo della classe operaia romana, allora egli non solo ha il diritto, ma il dovere di difendersi!

Chiedere che cosa D’Onofrio abbia fatto in Russia significa offendere tutti gli emigrati italiani da Nitti a Sforza. L’avv. Paone dimentica che la statura morale di costoro è però ben diversa da quella del suo patrocinato. Ed eccoci finalmente all’esame del materiale diffamatorio.

Avv. Paone: 'Le accuse rivolte al senatore comunista hanno offeso tutto il movimento della resistenza e del resto le risultanze processuali autorizzano ad affermare che le accuse non hanno trovato il benché minimo conforto della prova. S’è detto che D’Onofrio avrebbe interrogato i prigionieri mentre il magg. Orloff avrebbe messo a verbale le risposte fornite dagli interrogati. E s'è detto che il magg. Orloff appartenesse alla polizia segreta sovietica. Ma nessuna dimostrazione è stata data di ciò. I querelati sostengono questo, ma noi lo neghiamo e voi, signori giudici, dovete stabilirlo perché vi abbiamo concesso la più ampia facoltà di prova.

Il magg. Orloff aveva soggiornato in Italia prima della guerra e scriveva sul settimanale 'L'Alba' quando ancora D'Onofrio non era comparso nei campi di concentramento. I suoi articoli erano tutti ispirati alla maggiore tolleranza verso gli stessi ufficiali fascisti che egli divideva in tre grandi categorie: quelli che nel fascismo avevano coltivato i loro interessi, quelli che vi avevano aderito in buona fede, e gli incerti verso i quali rivolgeva in modo particolare la sua opera di persuasione.

Quindi, mai accuse furono più false, perché, fra l'altro, il magg. Orloff, che era un semplice ufficiale di amministrazione, compiva nei campi 'solo inchieste a scopo culturale'.

Ormai l'avv. Paone si è addentrato nella difesa della Russia e non può fare a meno di scagionare l'Unione Sovietica anche dalla accusa di intolleranza religiosa. E lo fa sulla scorta di un libro scritto dal gen. Nobile, uno dei tanti volumi che ingombrano, a pile, il tavolo inondato di appunti dell’avvocato.

Avv. Paone: 'I testimoni in questo processo hanno dichiarato che nei campi di concentramento non veniva permessa la celebrazione della messa. Hanno mentito. Il gen. Nobile, quando era ancora colonnello, scrisse pagine in cui illustrò il sentimento religioso del popolo russo. Dunque, non è vero che in Russia sia proibito il culto esterno ed è facile argomentare che se i cappellani militari italiani non celebrarono mai la messa nei campi di concentramento non fu perché fosse loro proibito, ma con il segreto scopo di poter un giorno gridare allo scandalo perché in Russia non sono concesse manifestazioni di culto esterno, e ancora, se gli imputati mentono su questa circostanza, è lecito supporre che altrettanto facciano quando dichiarano che gli italiani in Russia si mangiavano l'uno con l'altro. Perché questo masochismo nazionale unicamente per poter criticare le autorità russe?'.

Le mappe dello CSIR e dell'ARMIR 13

Le mappe delle operazioni del CSIR e dell'ARMIR dal giugno 1941 all'ottobre 1942 - L'offensiva sovietica del primo inverno (1941-42).

La guerra sul fronte orientale, parte 8

Senza altra finalità se non quella della condivisione storica e militare, pubblico questo ottavo video sugli orrori della guerra in generale e sul fronte orientale in particolare.

Palù, la Bigia e tutti gli altri, parte 3

Tutto il materiale proposto fa riferimento all'articolo 70 comma 1 della legge numero 633 del 22 Aprile 1941 che cita "Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l'utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali".

Palù, la Bigia e tutti gli altri... terza parte.

Prima ripulisce la bestia dalla tanta neve ghiacciata che aveva attaccata alle zampe, sulla testa e sulla coda, che sembrava una scopa fuori uso, rigida e dura. Rubacchia del fieno dal deposito, trova del mangime, versa nel sacco alcune gocce di grappa che aveva tenuto in serbo, e dà il tutto al mulo. Palù lo ringrazia leccandogli la mano che lo accarezza, è stanco, lo si vede, ma sta bello rito sulle zampe; tiene la testa alta ad osservare gli altri quadrupedi e il personale addetto ad essi; osserva la Bigia che gli sta a fianco e che sembra più provata da quella sgropponata di dodici ore di marcia. Anche ad essa Scotto dedica le sue cure, la ripulisce e le dà fieno e mangime, con gocce di grappa. La mula scuote la testa, all'odore dell'alcool, ma poi infila il muso nel sacco e comincia a masticare l'Energon. "Cara mia", dice Scotto, "ti devi abituare, abbiamo giorni tristi davanti a noi e tu devi seguire Palù. Vedrai che ce la faremo".

Pensa che è la prima volta ad essere lasciato all'aperto, per tante ore, mentre fa un freddo boia che gli congela gli arti, rendere rigide le zampe e le articolazioni, gli penetra nelle orecchie. Pensa anche alla Bigia, che gli sta a fianco e si appoggia a lui, con la schiena, perché anch'essa ha freddo, tanto freddo, in quel clima glaciale. Quando il conducente rientra nell'isba, il mulo forse parla con la sua compagna e misura le sue forze con quelle di lei, pensando che non ce la farà, se quella corvée dovesse durare tanti giorni. La Bigia è buona, remissiva, sopporta fatiche e privazioni, ma non ha la struttura del suo compagno di tiro. Fissa Palù con i suoi occhi intelligenti, scuote la testa, sfrega il suo fianco destro contro il sinistro del maschio e muove le zampe e sente fredde e intirizzite. Fra i due, in quel momento, si è stabilita un'intesa: gli uomini hanno bisogno di loro e devono fare tutto il possibile per sostenerli.

Scotto, con due secchi di acqua scaldata, raggiunge Palù e la Bigia e da loro da bere. I quadrupedi sembrano gradire quell'acqua non troppo pulita in cui il conducente ha versato un po' di grappa, tanto per dare sapore e riscaldare le bestie. Poi preleva fieno dalla slitta del foraggio e lo da abbondante ai due muli che sono affamati. Dopo il fieno un sacchetto di Energon e infine, dal fondo della sua slitta, tira fuori una scatola di zucchero e prende alcune zollette. Palù annusa subito lo zucchero e allunga le labbra prendendo con delicatezza le zollette. Anche la Bigia, che di rado in passato aveva avuto tante attenzioni dal suo Visca, gradisce lo zucchero. "E ora, bestioni", dice Scotto, "se volete potete sdraiarvi a terra, su questa poca paglia, così riposate le zampe". Fa cenno a Palù di accosciarsi è quello obbedisce, stende il collo e appoggia la testa a terra, con un profondo sospiro. E' soddisfatto.

Scotto salta in piedi, infila i valenki, che sono induriti per l'umidità penetrata nel feltro, poi si avvicina ad una delle finestrelle dell'isba. Fuori il giorno sta declinando, il cielo è grigio plumbeo e, attraverso i vetri gelati, si vedono delle ombre che corrono verso l'improvvisata scuderia. Indossa il pastrano, ne chiude i lembi, e metti in testa di colbacco, uscendo quindi nel gelo della sera incombente. Il freddo taglia la faccia, come una lama seghettata, trasportando cristalli di neve ghiacciata. La scuderia è vicina e il conducente la raggiunge in breve. Come prima cosa osserva Palù e la Bigia che sono in piedi, uno accostato all'altra; tira un respiro di sollievo. Ma in fondo al magazzino gli alpini sono attorno a un mulo steso a terra. E la Tuta e il capitano medico la sta palpando sulla pancia che è gonfia. Gli occhi della bestia sono opachi, e girano da uno all'altro come per chiedere: "Cos'ho?". Il suo conducente le accarezza la testa e il collo, ha il volto contratto che esprime ansietà. "Temo che sia una colica", dice il capitano, "ma io non sono veterinario, non saprei cosa fare".

Scotto avanza, scostando due uomini che sono vicini alla bestia e si china sull'animale; gli palpa la schiena, la pancia, le cosce e nota che queste non rispondono al tocco. "E' spacciata, signor capitano", dice rialzandosi e al conducente del mulo, che lo osserva interdetto, spiega, "è cominciato con la colica, ma ormai è paralizzata, non c'è più niente da fare". Anche il capitano medico si è rialzato e osservo il quadrupede che sta soffrendo molto, ha la lingua che penzola sul lato sinistro del labbro, l'occhio quasi vitreo. "Dobbiamo abbatterla", conclude l'ufficiale con un triste sospiro. "Ma non possiamo fare niente per salvarla?", chiede il conducente della Mula. "No, Martino, non possiamo fare proprio niente", sentenzia Scotto. "Vai, lascia fare a noi, credi mi dispiace, come se fosse il mio Palù; da anni la Tuta ci ha seguito dappertutto, povera bestia!". Il conducente si allontana, seguito da due commilitoni. Quando lo sparo risuona nel grande locale, rompe in pianto e un compagno gli mette le mani sulle spalle, come a proteggerlo.

Frattanto un fatto increscioso si è verificato là fuori e nelle isbe. I superstiti del "Tolmezzo", affamati, non possono essere saziati con le poche scorte di viveri della colonna ambulanza. Hanno saputo che un mulo è stato abbattuto ed è cominciata una vera lotta. Il conducente della Tuta difende la carogna della sua mula, guai a chi si azzarda a toccarla. Ma quelli sono affamati, estenuati dalla fatica e dal digiuno. I colleghi del conducente, a fatica, cercano di calmarlo, gli dicono che ormai la Tuta è morta, può salvare questi poveri cristi da una fine atroce per fame. E alla fine l'evento si compie. Gli alpini scavano la neve, trovano la carcassa della mula e con le baionette, con il loro coltelli, con qualsiasi oggetto tagliente, ne aggrediscono le carni.

È uno spettacolo orrendo, quasi di cannibalismo. Quegli uomini portano alla bocca la carne sanguinolenta del mulo, la masticano a fatica, ne succhiano il sangue e sembra che ritrovino le forze. Alcuni hanno portato pezzi di carne nelle isbe e li fanno cuocere sul fuoco dei camini. Per l'aria si sente odore di carne arrostita, di corno bruciato e il conducente della Tuta se ne sta seduto, in quella che la temporanea scuderia, la testa fra le mani. Gli viene da piangere, non ha voluto assistere allo scempio delle carni della sua mula e ascolta le voci degli uomini che si stanno sfamando a spese di quel nobile animale. Perché per un conducente il mulo è più nobile del cavallo. Di quello ha l'intelligenza, dell'asino la forza; e paziente, obbediente, gli puoi chiedere qualsiasi sacrificio e lui risponde sempre; cammina per giorni e notti, non chiede altro che un po' di fieno, qualche ora di riposo, un po' di pulizia al pelame una volta ogni tanto e poi va, va sempre. È una cosa sola con il suo conducente e il povero alpino pensa che stanno distruggendo una parte di lui.

Palù e la Bigia vengono staccati dalla slitta e condotti nel locale della stazione. Scotto taglia grosse fette di fieno dalla slitta secondaria e si accorge che due balle sono esaurite. I muli ruminano con gran lena il foraggio mentre il conducente acceso un fuocherello e cerca di far sciogliere la neve in un secchio per dar loro da bere. Frattanto li massaggia con la brusca, sulle zampe incrostate di neve e ghiaccio, sul ventre e sul collo, le parti che il telone impermeabile e la coperta non possono proteggere durante la marcia. Palù volge la testa ad osservarlo e nel suo sguardo Scotto legge un grande interrogativo. La bestia capisce che questa è un'avventura fuori dal normale, che questo freddo mi paralizza gli arti, che lo stomaco gli si contorce per la fame, che ha difficoltà ad urinare e a liberare l'intestino. È preoccupato, Palù, e il conducente lo intuisce; è in allarme anche per la Bigia, la vede dimagrire giorno dopo giorno, tira con minor vigore del solito, mangia quasi con poca voglia. Per lei preleva dalla slitta mezzo sacchetto di avena e le annoda le cinghie del sacco sul collo. La mula mangia ora con più appetito; l'avena è un buon stimolante per un quadrupede. Massaggia la bestia, le sfrega la pancia e le zampe con mangiate di pieno, dopo aver passato la brusca.

"Bigia, ho promesso ad Arturo di tenerti bene, di portarti a casa, cerca di tenere duro. Voi muli non lo sapete ma siamo imbarcati in un'impresa pazza, centinaia di chilometri da percorrere in queste condizioni; nessuna possibilità di rifornimento; fame per tutti", e così dicendo addenta un pezzo di cioccolata che ha tenuto nelle tasche dei pantaloni perché non gelasse; tira fuori anche una galletta e ne rompe la crosta dura con i denti. Fa fatica a masticare e la cioccolata gli si incolla in bocca, ma deve mandarla giù; anche lui non deve cedere; ha quattro feriti sulla slitta e deve portarli a casa. Mette un po' di galletta davanti al muso di Palù che subito la afferra e la mastica. "Beato te che hai i denti forti".

Poi giungono sul campo di battaglia. Hanno notato, da diversi segni nella neve, che di lì sono passate formazioni di carri armati e di uomini. Le piste si infittiscono e, oltrepassato un boschetto di larici, l'orrore della lotta appare ai l'orologio. Scotto, che conduce la slitta di testa e ha al fianco il capitano medico, vede come prima cosa un carro armato sventrato; la torretta col suo cannone è stata lanciata ad una decina di metri di distanza, i cingoli sono distesi sulla neve, allineati, spezzati in una giuntura. Il corpo di un carrista è afflosciato sulla parte superiore del carro, là dove ruotava la torretta; a terra altri corpi carbonizzati, neri, nella grande massa bianca di neve. Poi cadaveri, rattrappiti, contorti, semisepolti. Russi nelle loro tute bianche, alpini nei loro pastrani scuri, laceri, insanguinati. Armi individuali e mitragliatrici, in buono stato o a pezzi, sparse ovunque. Una fila di cadaveri schiacciati dai cingoli dei carri armati, tutti in fila, ridotti allo spessore di pochi centimetri, con le budella fuori uscite dalla bocca o sparpagliate nella neve, i volti irriconoscibili, nerastri per il sangue raggrumato. Centinaia di corpi, inerti, nella bianca distesa di neve; nessun segno di vita fra tanta desolazione.