martedì 3 agosto 2021

Ricordi di un alpino

Alpino Alessandro Carpanè, 58a Compagnia, Battaglione Verona, 6° Reggimento Alpini.

Sono anch'io uno di Nikolajewka e come per tutti ci sarebbero tanti episodi da raccontare, è quasi difficile cominciare. Io appartenevo al Battaglione Verona, 58a Compagnia comandata dall'allora capitano Bernardo Venier. Ero portaferiti fino al giorno 19 gennaio, giorno memorabile per il nostro battaglione: una parte di esso fu distrutto in quel grande combattimento di Postojalyi.

Quanti morti e feriti quel giorno! Difficile saperlo. Avemmo molto lavoro a portare i feriti nelle isbe per essere in qualche modo medicati. Alla sera nell'isba quasi nell'oscurità giacevano due alpini senza alcun segno di vita. Un ufficiale per fare un po' di posto perché altri alpini potessero ripararsi dal freddo, vedendo quei due alpini morti ci ordinò di portarli fuori coprendoli con un po' di paglia.

Io per mia iniziativa gli levai ad uno e precisamente a Massimo Ceschi il piastrino di riconoscimento e me lo misi in tasca. Dopo qualche giorno anch'io fui ferito e ricordo che più volte, frugando nelle tasche se c'era qualche briciola di pane, mi veniva in mano il piastrino del Ceschi; ma in seguito lo perdetti come tante altre cose.

La guerra finisce e vicino al mio paese in una festa d'alpini presenziava il simpatico, vecchio Colonnello Marchiori e non so come fu che gli raccontai il fatto. E qui con grande stupore mi disse che l'alpino Ceschi era a casa, anzi, per assicurarmi, mi disse che era un suo dipendente. Era si tornato ferito, ma stava bene. Io non sapevo più come spiegarmi del fatto.

Ed ecco che un giorno il Ceschi mi venne a trovare, ma al primo incontro nessuno di noi due era capace a parlare, solamente le lacrime correvano dagli occhi. Tornando al tempo della sacca, Il giorno 21 gennaio '43, al mattino presto, ancora buio, rimasi ferito da schegge ad una gamba e qualcuna di queste rimase conficcata nella carne e così non potei più camminare. Da quel momento fino al giorno 31 quel che io passai Dio solo lo sa. La fame completa, non potendo cercare tra le isbe qualcosa da mangiare, le mille difficoltà di trovare qualche mulo o slitta per salirci sopra, ma non voglio allungarmi perché tutti là hanno visto con i loro occhi e lo sanno molto bene.

Finché arriva il 31 e cioè il mio più grande episodio. Quel mattino era ormai a condizioni quasi disperate, credo aver avuto la febbre e non avevo neanche fiato di parlare, mi reggeva più che altro il pensiero della famiglia e le cose care. L'ora della partenza si rese ancor più triste perché non ero capace di trovare qualche posto sulle slitte e i muli perché questi erano ormai ridotti molto pochi. Ma ecco passarmi vicino un alpino con il mulo senza alcun carico sul basto, gli chiesi di salirci sopra e lui mi fece cenno di sì, cosicché con il suo aiuto mi arrampicai sopra.

Dopo circa un'ora, lui dovette fermarsi per un suo bisogno, se non che dopo poco mi accorsi che da quella posizione non si muoveva e nemmeno chiedeva qualcosa, mi sforzai e andai per alzarlo quando mi accorsi che le sue mani non si muovevano più, erano bianche e si erano congelate (i guanti li aveva perduti).

Che cosa fare allora? Intanto lui si metteva a piangere vedendo che non era capace di muoversi. Ma con l'aiuto di qualcuno potemmo caricarlo sul mulo. Ed io, allora? Cosa mi restava? Mi aggrappai al mulo camminando quasi con una gamba sola, ma per poco, perché ecco il miracolo: una colonna di camion con i nostri soldati ci aspettava per caricarci sopra e portarci all'ospedale di Karkov, era venuto quel giorno.

RICCARDO

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