lunedì 23 agosto 2021

Rapporto sui prigionieri, parte 1

Pubblico alcuni estratti del "Rapporto sui prigionieri di guerra italiani in Russia" a cura di Carlo Vicentini e Paolo Resta, fonte UNIRR, 2a edizione, anno 2005, a mio avviso la fonte più autorevole per fare chiarezza sulle perdite e sulle vicissitudini dei nostri soldati in Russia durante il secondo conflitto mondiale.

LE PERDITE.

Perdere 95 mila uomini, praticamente in una sola battaglia è una cosa senza precedenti, almeno nella storia dell'Esercito italiano. Nella relazione dell'Ufficio Storico dello Stato Maggiore è detta "Seconda battaglia difensiva del Don", ma in effetti si tratta di due distinti periodi operativi di circa 15 giorni ciascuno.

Tra l'11 dicembre ed il 31 dicembre 1942, le Divisioni "Cosseria", "Ravenna", "Pasubio", "Celere" e "Sforzesca" perdevano circa 55 mila uomini. Tenuto conto della loro consistenza numerica totale (comprese le truppe ed i servizi di Corpo d'Armata) che si aggirava sui 130 mila uomini, si ha una percentuale di perdite del 42%. Il Corpo d'Armata Alpino, a sua volta, nella seconda metà di gennaio 1943, veniva circondato e nei combattimenti sostenuti per aprirsi la strada, perdeva circa 35 mila uomini. La sua consistenza con le tre Divisioni "Tridentina", "Julia" e "Cuneense", nonché la Divisione di Fanteria "Vicenza" (una Unità senza artiglieria, perché destinata a servizi di retrovia) era di circa 70 mila uomini, dunque ebbe una percentuale di perdite del 50%. Altri 5 mila soldati risultano persi tra le truppe alle dirette dipendenze del Comando d'Armata.

Se si fa il confronto con altre battaglie infauste, ritenute tra le più cruente, c'è da trasecolare. Nella famosa battaglia dell'Ortigara del 1916 sull'altipiano di Asiago, la 6a Armata (300.000 effettivi) ebbe 8.000 morti e dispersi, cioè meno del 3%. Se si limita l'esame ai soli ventidue Battaglioni di alpini (25.000 uomini) che furono quelli maggiormente impegnati, i Caduti e Dispersi furono il 16%. La battaglia durò 19 giorni, cioè più o meno come ciascuna delle due fasi della battaglia del Don. In Albania, nei sei mesi che vanno dal novembre 1940 all'aprile del 1941, si ebbero 18 mila Caduti e 25 mila dispersi su un totale di 270 mila uomini impiegati; dunque di nuovo il 16%.

Nella tabella in calce a questo capitolo, sono riportate le cifre delle perdite per Caduti e Dispersi, ripartite per Grandi Unità, che l'Ufficio Storico delle Stato Maggiore pubblicò nel 1946. Secondo la medesima mancavano all'appello 85 mila uomini. II conteggio fu fatto nel marzo del 1943, ancora in Russia, nelle località di raccolta degli uomini dell'ARMIR che erano riusciti a sfuggire alla morsa dei russi. Fu un calcolo per differenza, tra gli organici dei singoli reparti prima della battaglia ed il numero dei superstiti. Calcolo necessariamente approssimativo, in certi casi ben poco affidabile; oggi si sa che erano 95 mila. Tuttavia il difetto maggiore dei dati pubblicati era quello di indicare con un'unica cifra tutti gli assenti, vale a dire mescolando quelli che erano morti in combattimento, quelli che erano stati catturati, quelli morti durante il ripiegamento.

Se si pensa che ancora oggi, non è stato possibile scindere quel dato spurio, i compilatori di quel prospetto non possono essere biasimati. Che fosse impossibile separare il numero dei Caduti da quelli che risultavano semplicemente assenti, lo si può comprendere se si considera quello che successe nella ritirata. Nei primi giorni, i comandi, gli ufficiali subalterni, i furieri potevano tener nota dei morti in combattimento, effettivamente constatati ma non sapevano che fine avessero fatto quelli che mancavano all'appello, se, cioè erano caduti, se erano rimasti indietro, se si erano aggregati ad altri reparti. Dopo una battaglia o una notte passata in un grosso villaggio, insieme ad altri reparti, le Unità sovente si frantumavano: c'era sempre una squadra, un plotone, un nucleo di slitte che alla mattina non partiva insieme agli altri o che rimaneva imbottigliata nella fiumana, o che imboccava un'altra pista. I furieri, i Comandanti a loro volta cadevano o venivano catturati e quello che avevano visto o annotato si perdeva. Infine, i Reggimenti, i Battaglioni ed i Gruppi di Artiglieria avevano nelle immediate retrovie distaccamenti, magazzini, depositi di munizioni, salmerie, autoreparti: iniziata la ritirata, ogni contatto con questi nuclei separati si è interrotto e, di conseguenza, anche ogni informazione sulla loro sorte.

Il governo fascista, all'indomani del disastro, si guardò bene dal pubblicare le cifre delle perdite che rimasero ignote agli italiani fino al 1946. In seguito, le Autorità militari, cui spettava dare un nome agli assenti e, possibilmente, conoscerne la fine, erano in piena crisi. Screditate, soggette ai processi di epurazione, drasticamente ridotte e demotivate, non si occuparono della cosa ed anni dopo, quando finalmente il problema fu affrontato, si accorsero che non esisteva più alcuna documentazione. I diari storici delle Unità si erano persi nella ritirata, i depositi dei Reggimenti interessati, tutti nell'Italia settentrionale, erano stati saccheggiati dai tedeschi e documenti e fogli matricolari non si sono più trovati. I reduci che potevano dare utili testimonianze si dispersero nel caos che segui l'otto settembre.

Nei primi due decenni del dopoguerra, il governo tentò in tutti i modi di sottrarsi ad un chiarimento onesto, anche se doloroso, con le famiglie di coloro che erano dichiarati "Dispersi". Lo bloccavano la preoccupazione di non indispettire le sinistre, denunciando apertamente quanto era avvenuto in Russia ed il fatto che non disponeva di elementi certi, non aveva dati o cifre da comunicare, anche se Togliatti e compagni ne erano informati direttamente dal governo dell'URSS. Sorsero, pertanto, delle iniziative private come l'Alleanza delle Famiglie dei Dispersi in Russia e l'Unione Nazionale Reduci di Russia (UNIRR) che avviarono ricerche, raccolta di testimonianze ed un primo rudimentale censimento degli assenti. In seguito il cappellano militare don Caneva, reduce dalla prigionia e promotore del Tempio di Cargnacco, raccolse le istanze dei familiari dei dispersi, che tradusse in un repertorio di circa 70 mila nominativi. Fu uno sforzo notevolissimo anche se il risultato si rivelò pieno di errori e di omissioni, ma in quegli anni, di più non si poteva fare.

E' emblematica la scritta sulla parete della cripta di Cargnacco: «CI RESTA SOLO IL NOME» e purtroppo molti non si sapeva nemmeno quello. Bisognò attendere gli anni settanta, perché l'ufficio dell'Albo d'Oro, istituito presso il Ministero della Difesa, fosse in grado di redigere e pubblicare un elenco dei militari che non avevano fatto ritorno dal fronte russo, distinguendoli in: 1) - Caduti in combattimento; 2) - Dispersi; 3) - Deceduti in prigionia; 4) - Dispersi in prigionia, cioè quelli la cui presenza in prigionia era certa, ma la cui morte non era documentata. Dall'archivio computerizzato sono stati ricavati i tabulati esposti al pubblico nella cripta di Cargnacco.

La cifra di 85 mila comunicata dall'Ufficio Storico nel 1946, è quella che in tutti questi anni è stata presa a base degli studi, degli articoli, delle polemiche sull'argomento. Ormai è sorpassata, ma la lunga schiera di storici, di commentatori e di politici si è avvalsa di questo dato per cercare di dare una risposta all'angosciosa domanda: «Quanti Caduti?... Quanti prigionieri?...». Tulle le risposte sono state finora deludenti. Il nuovo corso dei rapporti con il governo russo ha consentito una chiarificazione, che però non crediamo possa essere quella definitiva. Nell'attesa, con i dati in nostro possesso, tenteremo di correggere per lo meno, certe diffuse convinzioni.

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