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Trekking ed escursioni in Russia sui campi di battaglia della Seconda Guerra Mondiale
Danilo Dolcini - Phone 349.6472823 - Email danilo.dolcini@gmail.com - FB Un italiano in Russia
domenica 28 marzo 2021
La guerra sul fronte orientale, parte 2
Senza altra finalità se non quella della condivisione storica e militare, pubblico questo secondo video sugli orrori della guerra in generale e sul fronte orientale in particolare.
L'ARMIR nella II battaglia del Don, parte 15
L'8 Armata italiana nella seconda battaglia difensiva del Don (11 dicembre 1942 - 31 gennaio 1943), quindicesima parte.
COMPORTAMENTO TEDESCO DURANTE LA BATTAGLIA.
Sul quadro d'insieme del sacrificio cui furono votate le nostre truppe in Russia, e che si è cercato di tracciare, un'ombra fosca si proietta ancora a renderne più triste, ma più realistica la visione. Essa promana dal contegno di qualche comando tedesco e dei militari germanici in generale verso gli «infelici alleati». Il soldato tedesco ha in questa campagna compiuto invero atti di soperchieria ed ha dato sfogo a manifestazioni di violenza a nostro danno che superano la naturale tendenza alla sopraffazione insita nel temperamento germanico! Ricordiamo che, all'inizio della battaglia, una divisione tedesca (la 298a) faceva parte del XXXV C.A. italiano ed un reggimento tedesco (il 318°) dipendeva dalla «Cosseria». Per contro erano alle dipendenze di un comando tedesco (il XXIX C.A.) le nostre tre divisioni «Torino», «Celere» e «Sforzesca».
Ma la reciprocità è soltanto apparente perché: mentre la dipendenza delle nostre unità dall'autorità tedesca è integrale ed assoluta (abbiamo visto la D. «Torino» contrattaccare il 18 dicembre per rioccupare delle posizioni mentre tutte le altre divisioni già ripiegavano; e la D. «Sforzesca» far ritorno sullo Tschir in ottemperanza ad un ordine del comando germanico) l'altra, la dipendenza delle unità germaniche dai comandi italiani, è soltanto nominale ed apparente. Le unità tedesche e non soltanto la divisione, ma i reggimenti, i battaglioni e i gruppi autonomi, quando non crederanno di dare esecuzione ad un ordine ricevuto dall'autorità italiana dalla quale dipendono, chiederanno ed attenderanno la conferma del comando Gruppo Armate e cioè di una autorità germanica superiore alla più alta autorità italiana in terra di Russia!
Ciò incoraggerà la costante tendenza dei nostri alleati ad «accorrere» senza fretta, quando il loro concorso è invece urgente; a pretendere che i nostri reparti resistano «in posto» anche quando per essi è evidente la maggiore convenienza di ripiegare, per salvare qualche cosa. E tutto questo per avere lavoro più facile e per continuare a sfruttare al massimo i mezzi altrui, senza troppo preoccuparsi dell'alleato (non è questa una esclusività del comando in Russia. Nella pubblicazione «The Eight Army» preparata dal Ministero delle Informazioni britannico per il Ministero della Guerra, sulle operazioni nell'Africa Settentrionale, si legge: «Più tardi il generale Montgomery disse che Rommel era un buon generale, ma che aveva tendenza a ripetersi. E' in questo momento che egli iniziò la tattica, di poi costantemente ripetuta quando trovava in situazioni imbarazzanti, di salvare i propri soldati tedeschi a spese degli infelici alleati»).
E che dire del disagio di un'azione di comando da parte italiana in tutto soggetta della parte germanica la quale neppur sempre comunica il quadro complessivo della situazione operativa, e che, disponendo dei trasporti ferroviari e delle assegnazioni di carburante, finisce, in sostanza, per controllarla completamente mettendola in condizioni di assoluta dipendenza? Il disagio si traduce assai di sovente in uno stato di vera impotenza. Né vogliamo soffermarci sulla presunzione germanica di mantenere elevato lo spirito combattivo delle proprie truppe attribuendo agli altri le cause dei rovesci: l'esito vittorioso dell'offensiva sarebbe da imputarsi ad una insufficiente resistenza da parte delle unità alleate in linea! Solo ci limitiamo a riportare alcuni tipici episodi che rivestono particolare importanza per le ripercussioni sfavorevoli ch'essi ebbero sullo sviluppo delle operazioni e che rivelano fino a qual punto i comandanti germanici abbiano abusato del «vincoli d'impiego» delle unità tedesche messe alle dipendenze - per così dire - di comandi italiani:
Nella giornata del 16 dicembre, inizio dell'attacco generale del nemico sul fronte dell'8a Armata: Il comando del XXXV C.A. ordina alla 298a D. germ. di dislocare immediatamente a Galijewka una batteria del L gruppo italiano da 149/28, precedentemente posto alle sue dipendenze, per battere d'infilata alcune vallette a nord di Krassnogorowka, dove si stavano ammassando notevoli forze nemiche. Il comando della 298a D., pur trattandosi di artiglieria italiana e pur non essendo la divisione impegnata, ritarda con pretesti vari l'esecuzione dell'ordine e comunica, infine, che avrebbe messo a disposizione un solo pezzo. Soltanto in seguito ad ulteriori insistenze l'ordine venne integralmente eseguito. Il ritardo frapposto nell'intervento della batteria fa perdere all'azione di fuoco gran parte della sua efficacia.
Il comando del XXXV C.A. ordina che il I/526a germ., dislocato in riserva, passi a disposizione della « Pasubio » per effettuare in unione ad altri reparti, un immediato contrattacco allo scopo di ristabilire la situazione fra Ogolew e Abrassomova. Il comandante del btg. germanico dichiara di non potersi muovere se non dietro ordine del comando Gruppo Armate. In tale atteggiamento il reparto viene appoggiato dal comando della 298a D. germ. Il comando artiglieria del XXXV C.A. chiede all'artiglieria della 298a D. di intervenire a protezione di Krassnogorowka battendo d'infilata le forze nemiche attraversanti il Don per attaccare l'abitato. La 298a D. oppone un netto rifiuto affermando, contrariamente al vero, di essere impegnata sul fronte.
Il 18 dicembre, il comando del XXXV C.A., in conseguenza di disposizioni del comando Armata, ordina alla 298a di sostituire in linea il 79° rgt ftr. ridotto a circa 600 uomini. Gli ufficiali di collegamento germanici preso la «Pasubio» segnalano che due cp. tedesche inviate per sostituire il III/79° non avevano trovato in posto il battaglione. Immediati accertamenti precisano che i reparti non si erano portati sulle previste posizioni, ma si erano dislocati su un costone retrostante alle posizioni sulle quali il btg. italiano aveva, nel frattempo, respinto un altro attacco. I due ufficiali tedeschi di collegamento, invitati a recarsi sul per constatare l'inesattezza della loro comunicazione, opponevano un rifiuto motivato con il solito vincolo della preventiva autorizzazione del comando Gruppo Armate.
Il 19 dicembre, la 298a germ., in seguito a comunicazione del comando XXIX C.A. (tedesco) inizia il ripiegamento non ordinato dal comando XXXV C.A. (italiano) da cui dipende, senza avvertire nè provocare ordini del comando stesso. Alle rimostranze di questo dichiara di essere passata alle dipendenze del comando XXIX C.A. L'episodio (per la rottura dei collegamenti l'episodio è conosciuto dall'Armata soltanto ai primi di gennaio a ripiegamento effettuato) è connesso ad altra contemporanea arbitraria modifica da parte del XXIX C.A. degli ordini impartiti dall'Armata il giorno 19 per il ripiegamento dal Don dei C.A. XXXV e XXIX. Cambiamento di disposizioni che, sottraendo la 298a D. tedesca al XXXV C.A. e passandola alle dipendenze del XXIX (comando tedesco), portò, fra l'altro, all'anormale situazione di un C.A. (XXXV) inserito tra le unità di un altro (XXIX) ed a frammischiamenti e intasamenti sull'unica via di deflusso, con evidenti ripercussioni negative sulle operazioni.
Alla sera del 19, il comando XXIX C.A. ordina, improvvisamente e d'iniziativa, alla «Celere» ed alla «Sforzesca» di abbandonare la linea Meschkoff-Tsdhir (sulla quale secondo disposizioni impartite lo stesso giorno dal comando Armata si doveva condurre la difesa) e di ripiegare in direzione di Kaschary. Il Gruppo Armate dà direttamente, senza interpellare l'Armata, immediato contrordine. Le conseguenze dell'ordine e del contrordine sono gravi: l'iniziale arretramento consente a forti aliquote corazzate nemiche di infiltrarsi sulla strada di Djogtewo; il successivo ritorno verso lo Tschir, compiuto soltanto dalla «Sforzesca», meno premuta dal nemico, mentre disperde energie e sacrifica uomini, mezzi e tempo preziosi, non porta alcun beneficio alla condotta della difesa. Nel campo logistico e dei trasporti in particolare, la soggezione assoluta, i vincoli artatamente creati dal comando germanico si appalesano nel più tormentoso. Basterebbe ricordare che, all'atto del ripiegamento, la 298a D. tedesca disponeva della sua piena dotazione di carburante mentre le nostre unità erano costrette ad abbandonare, fin dal primo giorno, le artiglierie e via via sugli ultimi automezzi che, peraltro, in parte riforniti di carburante dai tedeschi, venivano da questi utilizzati per loro esclusivo uso e consumo. Ma più che dettagliata delle richieste avanzate e delle concessioni avute in fatto di treni, carburante, mano d'opera, prigionieri, sfruttamento di risorse locali etc., a render meglio l'idea delle condizioni di disagio in cui furono messi i nostri servizi, si riporta, in stralcio, il grido di protesta lanciato dall'intendente al superesercito, l'8 gennaio, durante la battaglia del Don, quando già l'ala destra dell'Armata era stata costretta a ripiegare e si delineava l'avvolgimento del C.A. alpino.
Sono motivi ricorrenti nei cifrati dell'intendenza, ma questo che riportiamo sintetizza più efficacemente la situazione: «Autorità tedesca cerca tutti controllare et dove possibile impadronirsi nostra organizzazione et limitare mia libertà azione modo et forma intollerabili et inconciliabili nostro prestigio alt In particolare tende ad impadronirsi direttamente mezzi trasporto alt Nessuna ragione salvo proprio egoistico interesse giustifica interventi che specie nel campo dei trasporti minacciano con impiego antieconomico compromettere nostra efficienza già gravemente scossa recenti avvenimenti... Nelle attuali condizioni massime esasperanti et risorgenti difficoltà sono rappresentate non da ambiente clima distanza etc. ma da rapporti con tedeschi. «Chiedo sia detto chiaramente at che nostri uomini li comandiamo noi et nostri mezzi li comandiamo noi pronti capisce a dare sempre concorso come sempre si è dato anche se est illusorio come esperienza abbondantemente dimostra sperare in una qualsiasi contropartita alt.».
Ispirandomi alla linea di condotta dei loro comandi, i militari tedeschi durante il ripiegamento hanno tenuto il più deplorevole contegno verso l'alleato che aveva sacrificato il 70% delle sue fanterie per tener testa ad un avversario superiore di mezzi e di uomini e aveva dato loro la possibilità di ritirare tutto il materiale e di ripiegare agevolmente. Così si son visti svaligiare magazzeni per i quali erano stati negati i mezzi di trasporto, facendo sorgere il fondato dubbio che il diniego fosse stato inspirato dall'intenzione di appropriarsi dei viveri e dei materiali; laddove, incontrando sezioni di sussistenza tedesche provviste di viveri, compreso il pane, ai nostri soldati non veniva dato nulla; solo, a volte, un po' di miglio e tre patate crude. Dalle isbe, a mano armata, venivano cacciati i nostri soldati per far posto a quelli tedeschi; nostri autieri, a mano armata, venivano obbligati a cedere l'automezzo; dai nostri autocarri venivano fatti discendere nostri soldati, anche feriti, per far posto a soldati tedeschi; dai treni carichi di feriti venivano sganciate le locomotive per essere agganciate a convogli tedeschi; feriti e congelati italiani venivano caricati sui pianali dove alcuni per il freddo morivano durante il tragitto, mentre, nelle vetture coperte, prendevano posto militari tedeschi, non feriti, che, avio-riforniti, mangiavano e fumavano allegramente quando i nostri soldati erano digiuni da parecchi giorni.
Durante il ripiegamento, i tedeschi, su autocarri o su treni schernivano, deridevano e dispregiavano i nostri soldati che si trascinavano a piedi nelle misere condizioni che abbiamo descritte e, quando qualcuno tentava di salire sugli autocarri o sui treni, speso semivuoti, veniva inesorabilmente colpito col calcio del fucile e costretto a rimanere a terra. Né, data la diversa efficienza dei singoli e dei reparti, potevano sempre bastare, a raffrenare la tracotanza germanica, le sporadiche reazioni, anche violente, di comandanti e gregari, né l'ordine dato dall'Armata agli autisti di opporsi, con le armi, ad ogni tentativo di privarli dell'automezzo. «Nella conca di Arbusowka molti, moltissimi, da parte nostra sono i morti ed i feriti, che per mancanza di locali chiusi vengono depositati all'aperto, vicino al posto di medicazione. Il comando tedesco, cui per mezzo dell'interprete ci si era rivolti per avere qualche ambiente da adibire a ricovero di feriti, non aderisce alla richiesta, giustificando tale rifiuto con l'asserzione che tutte le case sono occupate da comandi tedeschi. E' solo dopo vive insistenze che si riesce ad avere una piccola isba, assai piccola, e naturalmente insufficiente per le necessità delle centinaia e centinaia di feriti che di ora in ora vanno accumulandosi. Nevica e la neve li ricopre».
COMPORTAMENTO TEDESCO DURANTE LA BATTAGLIA.
Sul quadro d'insieme del sacrificio cui furono votate le nostre truppe in Russia, e che si è cercato di tracciare, un'ombra fosca si proietta ancora a renderne più triste, ma più realistica la visione. Essa promana dal contegno di qualche comando tedesco e dei militari germanici in generale verso gli «infelici alleati». Il soldato tedesco ha in questa campagna compiuto invero atti di soperchieria ed ha dato sfogo a manifestazioni di violenza a nostro danno che superano la naturale tendenza alla sopraffazione insita nel temperamento germanico! Ricordiamo che, all'inizio della battaglia, una divisione tedesca (la 298a) faceva parte del XXXV C.A. italiano ed un reggimento tedesco (il 318°) dipendeva dalla «Cosseria». Per contro erano alle dipendenze di un comando tedesco (il XXIX C.A.) le nostre tre divisioni «Torino», «Celere» e «Sforzesca».
Ma la reciprocità è soltanto apparente perché: mentre la dipendenza delle nostre unità dall'autorità tedesca è integrale ed assoluta (abbiamo visto la D. «Torino» contrattaccare il 18 dicembre per rioccupare delle posizioni mentre tutte le altre divisioni già ripiegavano; e la D. «Sforzesca» far ritorno sullo Tschir in ottemperanza ad un ordine del comando germanico) l'altra, la dipendenza delle unità germaniche dai comandi italiani, è soltanto nominale ed apparente. Le unità tedesche e non soltanto la divisione, ma i reggimenti, i battaglioni e i gruppi autonomi, quando non crederanno di dare esecuzione ad un ordine ricevuto dall'autorità italiana dalla quale dipendono, chiederanno ed attenderanno la conferma del comando Gruppo Armate e cioè di una autorità germanica superiore alla più alta autorità italiana in terra di Russia!
Ciò incoraggerà la costante tendenza dei nostri alleati ad «accorrere» senza fretta, quando il loro concorso è invece urgente; a pretendere che i nostri reparti resistano «in posto» anche quando per essi è evidente la maggiore convenienza di ripiegare, per salvare qualche cosa. E tutto questo per avere lavoro più facile e per continuare a sfruttare al massimo i mezzi altrui, senza troppo preoccuparsi dell'alleato (non è questa una esclusività del comando in Russia. Nella pubblicazione «The Eight Army» preparata dal Ministero delle Informazioni britannico per il Ministero della Guerra, sulle operazioni nell'Africa Settentrionale, si legge: «Più tardi il generale Montgomery disse che Rommel era un buon generale, ma che aveva tendenza a ripetersi. E' in questo momento che egli iniziò la tattica, di poi costantemente ripetuta quando trovava in situazioni imbarazzanti, di salvare i propri soldati tedeschi a spese degli infelici alleati»).
E che dire del disagio di un'azione di comando da parte italiana in tutto soggetta della parte germanica la quale neppur sempre comunica il quadro complessivo della situazione operativa, e che, disponendo dei trasporti ferroviari e delle assegnazioni di carburante, finisce, in sostanza, per controllarla completamente mettendola in condizioni di assoluta dipendenza? Il disagio si traduce assai di sovente in uno stato di vera impotenza. Né vogliamo soffermarci sulla presunzione germanica di mantenere elevato lo spirito combattivo delle proprie truppe attribuendo agli altri le cause dei rovesci: l'esito vittorioso dell'offensiva sarebbe da imputarsi ad una insufficiente resistenza da parte delle unità alleate in linea! Solo ci limitiamo a riportare alcuni tipici episodi che rivestono particolare importanza per le ripercussioni sfavorevoli ch'essi ebbero sullo sviluppo delle operazioni e che rivelano fino a qual punto i comandanti germanici abbiano abusato del «vincoli d'impiego» delle unità tedesche messe alle dipendenze - per così dire - di comandi italiani:
Nella giornata del 16 dicembre, inizio dell'attacco generale del nemico sul fronte dell'8a Armata: Il comando del XXXV C.A. ordina alla 298a D. germ. di dislocare immediatamente a Galijewka una batteria del L gruppo italiano da 149/28, precedentemente posto alle sue dipendenze, per battere d'infilata alcune vallette a nord di Krassnogorowka, dove si stavano ammassando notevoli forze nemiche. Il comando della 298a D., pur trattandosi di artiglieria italiana e pur non essendo la divisione impegnata, ritarda con pretesti vari l'esecuzione dell'ordine e comunica, infine, che avrebbe messo a disposizione un solo pezzo. Soltanto in seguito ad ulteriori insistenze l'ordine venne integralmente eseguito. Il ritardo frapposto nell'intervento della batteria fa perdere all'azione di fuoco gran parte della sua efficacia.
Il comando del XXXV C.A. ordina che il I/526a germ., dislocato in riserva, passi a disposizione della « Pasubio » per effettuare in unione ad altri reparti, un immediato contrattacco allo scopo di ristabilire la situazione fra Ogolew e Abrassomova. Il comandante del btg. germanico dichiara di non potersi muovere se non dietro ordine del comando Gruppo Armate. In tale atteggiamento il reparto viene appoggiato dal comando della 298a D. germ. Il comando artiglieria del XXXV C.A. chiede all'artiglieria della 298a D. di intervenire a protezione di Krassnogorowka battendo d'infilata le forze nemiche attraversanti il Don per attaccare l'abitato. La 298a D. oppone un netto rifiuto affermando, contrariamente al vero, di essere impegnata sul fronte.
Il 18 dicembre, il comando del XXXV C.A., in conseguenza di disposizioni del comando Armata, ordina alla 298a di sostituire in linea il 79° rgt ftr. ridotto a circa 600 uomini. Gli ufficiali di collegamento germanici preso la «Pasubio» segnalano che due cp. tedesche inviate per sostituire il III/79° non avevano trovato in posto il battaglione. Immediati accertamenti precisano che i reparti non si erano portati sulle previste posizioni, ma si erano dislocati su un costone retrostante alle posizioni sulle quali il btg. italiano aveva, nel frattempo, respinto un altro attacco. I due ufficiali tedeschi di collegamento, invitati a recarsi sul per constatare l'inesattezza della loro comunicazione, opponevano un rifiuto motivato con il solito vincolo della preventiva autorizzazione del comando Gruppo Armate.
Il 19 dicembre, la 298a germ., in seguito a comunicazione del comando XXIX C.A. (tedesco) inizia il ripiegamento non ordinato dal comando XXXV C.A. (italiano) da cui dipende, senza avvertire nè provocare ordini del comando stesso. Alle rimostranze di questo dichiara di essere passata alle dipendenze del comando XXIX C.A. L'episodio (per la rottura dei collegamenti l'episodio è conosciuto dall'Armata soltanto ai primi di gennaio a ripiegamento effettuato) è connesso ad altra contemporanea arbitraria modifica da parte del XXIX C.A. degli ordini impartiti dall'Armata il giorno 19 per il ripiegamento dal Don dei C.A. XXXV e XXIX. Cambiamento di disposizioni che, sottraendo la 298a D. tedesca al XXXV C.A. e passandola alle dipendenze del XXIX (comando tedesco), portò, fra l'altro, all'anormale situazione di un C.A. (XXXV) inserito tra le unità di un altro (XXIX) ed a frammischiamenti e intasamenti sull'unica via di deflusso, con evidenti ripercussioni negative sulle operazioni.
Alla sera del 19, il comando XXIX C.A. ordina, improvvisamente e d'iniziativa, alla «Celere» ed alla «Sforzesca» di abbandonare la linea Meschkoff-Tsdhir (sulla quale secondo disposizioni impartite lo stesso giorno dal comando Armata si doveva condurre la difesa) e di ripiegare in direzione di Kaschary. Il Gruppo Armate dà direttamente, senza interpellare l'Armata, immediato contrordine. Le conseguenze dell'ordine e del contrordine sono gravi: l'iniziale arretramento consente a forti aliquote corazzate nemiche di infiltrarsi sulla strada di Djogtewo; il successivo ritorno verso lo Tschir, compiuto soltanto dalla «Sforzesca», meno premuta dal nemico, mentre disperde energie e sacrifica uomini, mezzi e tempo preziosi, non porta alcun beneficio alla condotta della difesa. Nel campo logistico e dei trasporti in particolare, la soggezione assoluta, i vincoli artatamente creati dal comando germanico si appalesano nel più tormentoso. Basterebbe ricordare che, all'atto del ripiegamento, la 298a D. tedesca disponeva della sua piena dotazione di carburante mentre le nostre unità erano costrette ad abbandonare, fin dal primo giorno, le artiglierie e via via sugli ultimi automezzi che, peraltro, in parte riforniti di carburante dai tedeschi, venivano da questi utilizzati per loro esclusivo uso e consumo. Ma più che dettagliata delle richieste avanzate e delle concessioni avute in fatto di treni, carburante, mano d'opera, prigionieri, sfruttamento di risorse locali etc., a render meglio l'idea delle condizioni di disagio in cui furono messi i nostri servizi, si riporta, in stralcio, il grido di protesta lanciato dall'intendente al superesercito, l'8 gennaio, durante la battaglia del Don, quando già l'ala destra dell'Armata era stata costretta a ripiegare e si delineava l'avvolgimento del C.A. alpino.
Sono motivi ricorrenti nei cifrati dell'intendenza, ma questo che riportiamo sintetizza più efficacemente la situazione: «Autorità tedesca cerca tutti controllare et dove possibile impadronirsi nostra organizzazione et limitare mia libertà azione modo et forma intollerabili et inconciliabili nostro prestigio alt In particolare tende ad impadronirsi direttamente mezzi trasporto alt Nessuna ragione salvo proprio egoistico interesse giustifica interventi che specie nel campo dei trasporti minacciano con impiego antieconomico compromettere nostra efficienza già gravemente scossa recenti avvenimenti... Nelle attuali condizioni massime esasperanti et risorgenti difficoltà sono rappresentate non da ambiente clima distanza etc. ma da rapporti con tedeschi. «Chiedo sia detto chiaramente at che nostri uomini li comandiamo noi et nostri mezzi li comandiamo noi pronti capisce a dare sempre concorso come sempre si è dato anche se est illusorio come esperienza abbondantemente dimostra sperare in una qualsiasi contropartita alt.».
Ispirandomi alla linea di condotta dei loro comandi, i militari tedeschi durante il ripiegamento hanno tenuto il più deplorevole contegno verso l'alleato che aveva sacrificato il 70% delle sue fanterie per tener testa ad un avversario superiore di mezzi e di uomini e aveva dato loro la possibilità di ritirare tutto il materiale e di ripiegare agevolmente. Così si son visti svaligiare magazzeni per i quali erano stati negati i mezzi di trasporto, facendo sorgere il fondato dubbio che il diniego fosse stato inspirato dall'intenzione di appropriarsi dei viveri e dei materiali; laddove, incontrando sezioni di sussistenza tedesche provviste di viveri, compreso il pane, ai nostri soldati non veniva dato nulla; solo, a volte, un po' di miglio e tre patate crude. Dalle isbe, a mano armata, venivano cacciati i nostri soldati per far posto a quelli tedeschi; nostri autieri, a mano armata, venivano obbligati a cedere l'automezzo; dai nostri autocarri venivano fatti discendere nostri soldati, anche feriti, per far posto a soldati tedeschi; dai treni carichi di feriti venivano sganciate le locomotive per essere agganciate a convogli tedeschi; feriti e congelati italiani venivano caricati sui pianali dove alcuni per il freddo morivano durante il tragitto, mentre, nelle vetture coperte, prendevano posto militari tedeschi, non feriti, che, avio-riforniti, mangiavano e fumavano allegramente quando i nostri soldati erano digiuni da parecchi giorni.
Durante il ripiegamento, i tedeschi, su autocarri o su treni schernivano, deridevano e dispregiavano i nostri soldati che si trascinavano a piedi nelle misere condizioni che abbiamo descritte e, quando qualcuno tentava di salire sugli autocarri o sui treni, speso semivuoti, veniva inesorabilmente colpito col calcio del fucile e costretto a rimanere a terra. Né, data la diversa efficienza dei singoli e dei reparti, potevano sempre bastare, a raffrenare la tracotanza germanica, le sporadiche reazioni, anche violente, di comandanti e gregari, né l'ordine dato dall'Armata agli autisti di opporsi, con le armi, ad ogni tentativo di privarli dell'automezzo. «Nella conca di Arbusowka molti, moltissimi, da parte nostra sono i morti ed i feriti, che per mancanza di locali chiusi vengono depositati all'aperto, vicino al posto di medicazione. Il comando tedesco, cui per mezzo dell'interprete ci si era rivolti per avere qualche ambiente da adibire a ricovero di feriti, non aderisce alla richiesta, giustificando tale rifiuto con l'asserzione che tutte le case sono occupate da comandi tedeschi. E' solo dopo vive insistenze che si riesce ad avere una piccola isba, assai piccola, e naturalmente insufficiente per le necessità delle centinaia e centinaia di feriti che di ora in ora vanno accumulandosi. Nevica e la neve li ricopre».
sabato 27 marzo 2021
Libri: "GIUSEPPE MICHELI"
La campagna di Russia è tra i fronti più studiati della Seconda guerra mondiale. La storiografia e la memorialistica hanno affrontato gli eventi della “guerra di Russia” a più riprese, secondo una prospettiva di volta in volta militare, autobiografica, oppure politico-diplomatica. Non molto si sa delle associazioni sorte già nel corso del conflitto che, animate anche in alcuni casi da personalità del mondo culturale e politico, agirono per accertare la morte o la prigionia dei soldati italiani, per alleviare le loro condizioni morali e materiali, per far conoscere la sorte dei sopravvissuti all'opinione pubblica. L’”Alleanza Familiare per i prigionieri e i dispersi in Russia” fu la prima di queste associazioni. Attraverso la rassegna dei documenti inediti e del vasto carteggio pubblico e privato del suo fondatore e dei suoi animatori è possibile conoscere i momenti della sua nascita, l’avvio dei contatti in favore dei prigionieri italiani in Unione Sovietica, la sua azione presso i principali interlocutori sovietici, il mondo politico nazionale e i rappresentanti del Partito Comunista Italiano. Lo studio descrive i rapporti con L’Alto Commissariato per i prigionieri di guerra e la Croce Rossa. Alcune parti dello studio sono dedicate all'illustrazione del dispiegamento della Divisione “Tridentina” e al racconto diretto dei protagonisti, prima della cattura.
Il testo è acquistabile al seguente link https://www.tralerighelibri.com/product-page/giuseppe-micheli-e-l-alleanza-familiare-per-i-dispersi-e-i-prigionieri-in-russia.
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giovedì 25 marzo 2021
Viaggio estivo 2021
Almeno ci proviamo e ci crediamo... non sappiamo quante reali possibilità ci saranno di realizzare il previsto viaggio estivo del 2021, ma siamo comunque in fase di studio e pianificazione... e se non sarà possibile effettuarlo, lo rimanderemo alla prossima estate.
Il viaggio estivo è profondamente diverso da quello invernale; offre emozioni differenti ma non meno profonde e soprattutto per come viene svolto, è aperto praticamente a tutte le persone con davvero un minimo allenamento per qualche ora di camminata nella steppa russa.
Agosto-settembre 2021; 9/10 giorni compreso il viaggio dall'Italia a Mosca e successivamente verso il Don; spostamenti con pullman e guida che parla italiano.
Programma di massima: Mosca e il suo centro; visita della zona del fronte del Don tenuto dagli Alpini (Rossosch, zona della Tridentina, quota Pisello e Cividale, il quadrivio di Selenyj Jar) e dalle Fanterie (l'ansa del "cappello frigio", l'ansa di Werch Mamon, Arbusowka la "valle della morte"); una mezza giornata o una giornata intera di navigazione sul Don per vedere la zona del fronte direttamente dal grande fiume; Tambov e Krinovaja.
Il viaggio estivo è profondamente diverso da quello invernale; offre emozioni differenti ma non meno profonde e soprattutto per come viene svolto, è aperto praticamente a tutte le persone con davvero un minimo allenamento per qualche ora di camminata nella steppa russa.
Agosto-settembre 2021; 9/10 giorni compreso il viaggio dall'Italia a Mosca e successivamente verso il Don; spostamenti con pullman e guida che parla italiano.
Programma di massima: Mosca e il suo centro; visita della zona del fronte del Don tenuto dagli Alpini (Rossosch, zona della Tridentina, quota Pisello e Cividale, il quadrivio di Selenyj Jar) e dalle Fanterie (l'ansa del "cappello frigio", l'ansa di Werch Mamon, Arbusowka la "valle della morte"); una mezza giornata o una giornata intera di navigazione sul Don per vedere la zona del fronte direttamente dal grande fiume; Tambov e Krinovaja.
mercoledì 24 marzo 2021
Il viaggio del 2011, Novo Georgiewskij
Immagini del mio primo viaggio "esplorativo" effettuato nel 2011... la steppa intorno a Novo Georgiewskij.
Onori a Attilio Fusi
Ricevo dalla Signora Mariella Fusi un ricordo del papà, Attilio, reduce di Russia che pubblico con piacere.
Per non dimenticare!
Nella valigia dei ricordi del papà (Fusi Attilio classe 1921 Alpino 6° Reggimento, Divisione Tridentina) ho trovato tra foto, lettere, piastrina del lager, libri con dediche, anche un’immagine della Madonna dell’Aiuto e la mente è subito tornata ad un giorno di molti anni fa quando entrai nella sua camera per portargli una limonata. Era a letto per una terribile intossicazione da funghi, ne era ghiotto e quella volta aveva veramente esagerato. Nell’attesa che terminasse di sorseggiare la calda bevanda mi sedetti su una sedia e il mio sguardo si posò su un brutto portafotografie, posto sul comodino, sbeccato e danneggiato dal tempo e con all’interno un’immagine della Madonna altrettanto rovinata e sbiadita. Era lì da sempre quel portafotografie e molte volte avevo avuto la tentazione di buttarlo ma non lo avevo mai fatto perché mi ero proposta di ottenere, prima di agire, il consenso del papà onde evitare inutili arrabbiature.
Fu proprio in quel momento che gli chiesi se potevo sostituirlo con uno nuovo, la risposta fu categorica: “Guai a te se lo tocchi!”. Ed iniziò il suo racconto. Quando partì per la guerra nel taschino della divisa inserì l’immagine della Madonna dell’Aiuto e lì sul lato del cuore la lasciò fino al suo ritorno a “baita”. Per paura che si sgualcisse e si raggrinzasse l’aveva attaccata, in qualche modo, ad un bel pezzo di lamiera. Durante le operazioni belliche della Campagna di Russia fu raggiunto da una scheggia che avrebbe potuto porre fine alla sua vita ma riuscì miracolosamente a cavarsela grazie a quell’immagine con la lamiera che gli fece da scudo e che porta infatti al centro il segno di quel frammento. Nella convinzione di essere stato salvato proprio da quella Madonna infinite volte a Lei rivolse una preghiera, nei tanti momenti difficili e drammatici, posando una mano sul cuore.
Una mano sul cuore se la metteva quando nel freddo e nel gelo della Russia, non adeguatamente coperto come ubriaco fra tanti ubriachi sfiniti e in preda a terribili morse di fame, avanzava barcollando in quella distesa di neve disseminata dai corpi di coloro che stremati si erano purtroppo lasciati andare precludendosi la strada del ritorno a “baita”. In quella distesa di neve il cui candore era ovunque sporcato dal sangue di coloro che erano stati sfortunatamente colpiti e che mai avrebbero potuto rivedere i loro cari.
Una mano sul cuore se la metteva quando sparavano i cannoni, quando le pallottole fischiavano nell’aria e via via volti noti scomparivano dalla sua vista. Ma quei visi con i ricordi della condivisione di alcuni momenti, di alcune esperienze e di molte sofferenze sono rimasti nella sua mente lasciando un segno indelebile. I suoi racconti, che noi familiari frequentemente interrompevamo perché troppo impregnati di inaudite e scioccanti violenze, avevano la capacità di tenerci per notti e notti con gli occhi sbarrati.
Con il passare del tempo il rifiuto di tanta inspiegabile disumanità portò il papà a sostituire la rabbia e le lacrime con un’apparente freddezza frutto di una difficile e complessa elaborazione interiore che gli aveva permesso di rendere non certo accettabile ma sicuramente meno pesante quell’ingombrante fardello.
Una mano sul cuore se la mise quando, ormai certo di poter riabbracciare i suoi familiari e di aver finalmente riconquistato la libertà, fu catturato al Brennero dai tedeschi perché rifiutatosi, come molti altri, di continuare a combattere nelle file del loro esercito e fu internato, per circa due anni, nel campo STALAG 1-B nella Prussia orientale. Un lager in cui non furono riconosciute neppure le garanzie delle Convenzioni di Ginevra, in cui non poté godere delle tutele spettanti della Croce Rossa e in cui dovette subire ripetutamente angherie e ritorsioni da parte dei tedeschi.
Una mano sul cuore se la metteva quando, dopo lunghe giornate di lavoro dimagrito pieno di pidocchi e stanco, riceveva come unico alimento un po’di brodaglia con una pagnotta da dividere con sei compagni (praticamente poco più di un boccone a testa). Privato anche della gavetta neppure tale brodaglia avrebbe avuto la possibilità di avere ma, fortunatamente, un amico gli donò il coperchio della sua. Il coperchio però poco brodo poteva contenere e il papà aveva cercato di aumentarne la profondità picchiettando con un sasso ripetutamente il fondo con molta attenzione per non forare il prezioso contenitore che contribuiva a garantirgli la sopravvivenza.
Ci si doveva ingegnare in tutti i modi per riuscire a restare in vita. Aveva imparato con rapidità il tedesco e ciò lo aveva risparmiato da alcune ingiustificate e assurde punizioni. In quel luogo dove regnava la disperazione una fortuna il papà l’ebbe! C’era un tedesco privo dell’arto inferiore, perso durante un combattimento, che ogni giorno arrivava all’interno del campo dalla sua abitazione, collocata a pochi chilometri dal lager, sul suo carretto trainato da un cavallo. Il papà, quando gli era possibile, si avvicinava al cavallo lo accarezzava, gli sussurrava nelle orecchie e l’animale lasciava fare a quell’Alpino che gli dimostrava tanta affettuosità.
Il tedesco da una finestra lo aveva più volte osservato ed un giorno decise di portarsi il papà a casa affinché si occupasse dell’animale, del fienile nel quale poteva dormire e di altre faccende che lui, a causa della sua menomazione, non era più in grado di svolgere. Gli ordini impartiti dal soldato e anche dalla moglie venivano eseguiti con diligenza dal papà che così si guadagnò la loro fiducia tanto che gli fu concesso di trasferirsi per dormire dal fienile all’interno dell’abitazione in una cameretta e gli fu fornito anche cibo a sufficienza.
Ma la pacchia, se così si può definire una tale situazione, durò solo circa un mese e poi il tedesco fu costretto a riportare il papà all’interno del lager. Prima di partire la moglie gli mise all’interno di una scatola del cibo, ma arrivato nel campo fu preso a calci dai tedeschi e fu fatto cadere a terra e a terra finì tutto quel bendidio. Tutte quelle leccornie gli furono sequestrate e a lui rimase solo il segno delle percosse ricevute e null’altro.
Il papà aveva imparato così bene il tedesco che spesso a casa dal terrazzo quando vedeva passare per strada turisti, il cui abbigliamento e aspetto fisico lo inducevano a pensare fossero tedeschi, lo sentivi porre il solito quesito: “Sprechen deutsch?”. E quando la risposta era: “Ja” la lingua gli si scioglieva come non mai. Si aprivano dialoghi intercalati da spassose risate che si concludevano, talvolta, addirittura con una foto ricordo che gli veniva successivamente fatta pervenire.
Quale fosse il contenuto di tali conversazioni non ho mai avuto modo di comprendere però sentendolo così spigliato e così in grado di catturare l’attenzione dell’interlocutore riusciva sempre a strapparmi un grande sorriso. Tornato a casa aveva tolto quell’immagine a lui tanto cara dalla divisa e l’aveva riposta in quel portafotografie (che io non conoscendo tutta la storia che dietro si celava avrei voluto buttare nella spazzatura) e ogni sera prima di coricarsi alla Madonna si rivolgeva e una preghiera recitava non più posando la mano sul cuore perché Colei che lo aveva salvato era ora davanti ai suoi occhi e non era più custodita nel taschino della giacca che in molti non avrebbero mai voluto indossare e che per molti è stata l’ultimo abito della loro esistenza conclusasi tragicamente.
Per non dimenticare!
Nella valigia dei ricordi del papà (Fusi Attilio classe 1921 Alpino 6° Reggimento, Divisione Tridentina) ho trovato tra foto, lettere, piastrina del lager, libri con dediche, anche un’immagine della Madonna dell’Aiuto e la mente è subito tornata ad un giorno di molti anni fa quando entrai nella sua camera per portargli una limonata. Era a letto per una terribile intossicazione da funghi, ne era ghiotto e quella volta aveva veramente esagerato. Nell’attesa che terminasse di sorseggiare la calda bevanda mi sedetti su una sedia e il mio sguardo si posò su un brutto portafotografie, posto sul comodino, sbeccato e danneggiato dal tempo e con all’interno un’immagine della Madonna altrettanto rovinata e sbiadita. Era lì da sempre quel portafotografie e molte volte avevo avuto la tentazione di buttarlo ma non lo avevo mai fatto perché mi ero proposta di ottenere, prima di agire, il consenso del papà onde evitare inutili arrabbiature.
Fu proprio in quel momento che gli chiesi se potevo sostituirlo con uno nuovo, la risposta fu categorica: “Guai a te se lo tocchi!”. Ed iniziò il suo racconto. Quando partì per la guerra nel taschino della divisa inserì l’immagine della Madonna dell’Aiuto e lì sul lato del cuore la lasciò fino al suo ritorno a “baita”. Per paura che si sgualcisse e si raggrinzasse l’aveva attaccata, in qualche modo, ad un bel pezzo di lamiera. Durante le operazioni belliche della Campagna di Russia fu raggiunto da una scheggia che avrebbe potuto porre fine alla sua vita ma riuscì miracolosamente a cavarsela grazie a quell’immagine con la lamiera che gli fece da scudo e che porta infatti al centro il segno di quel frammento. Nella convinzione di essere stato salvato proprio da quella Madonna infinite volte a Lei rivolse una preghiera, nei tanti momenti difficili e drammatici, posando una mano sul cuore.
Una mano sul cuore se la metteva quando nel freddo e nel gelo della Russia, non adeguatamente coperto come ubriaco fra tanti ubriachi sfiniti e in preda a terribili morse di fame, avanzava barcollando in quella distesa di neve disseminata dai corpi di coloro che stremati si erano purtroppo lasciati andare precludendosi la strada del ritorno a “baita”. In quella distesa di neve il cui candore era ovunque sporcato dal sangue di coloro che erano stati sfortunatamente colpiti e che mai avrebbero potuto rivedere i loro cari.
Una mano sul cuore se la metteva quando sparavano i cannoni, quando le pallottole fischiavano nell’aria e via via volti noti scomparivano dalla sua vista. Ma quei visi con i ricordi della condivisione di alcuni momenti, di alcune esperienze e di molte sofferenze sono rimasti nella sua mente lasciando un segno indelebile. I suoi racconti, che noi familiari frequentemente interrompevamo perché troppo impregnati di inaudite e scioccanti violenze, avevano la capacità di tenerci per notti e notti con gli occhi sbarrati.
Con il passare del tempo il rifiuto di tanta inspiegabile disumanità portò il papà a sostituire la rabbia e le lacrime con un’apparente freddezza frutto di una difficile e complessa elaborazione interiore che gli aveva permesso di rendere non certo accettabile ma sicuramente meno pesante quell’ingombrante fardello.
Una mano sul cuore se la mise quando, ormai certo di poter riabbracciare i suoi familiari e di aver finalmente riconquistato la libertà, fu catturato al Brennero dai tedeschi perché rifiutatosi, come molti altri, di continuare a combattere nelle file del loro esercito e fu internato, per circa due anni, nel campo STALAG 1-B nella Prussia orientale. Un lager in cui non furono riconosciute neppure le garanzie delle Convenzioni di Ginevra, in cui non poté godere delle tutele spettanti della Croce Rossa e in cui dovette subire ripetutamente angherie e ritorsioni da parte dei tedeschi.
Una mano sul cuore se la metteva quando, dopo lunghe giornate di lavoro dimagrito pieno di pidocchi e stanco, riceveva come unico alimento un po’di brodaglia con una pagnotta da dividere con sei compagni (praticamente poco più di un boccone a testa). Privato anche della gavetta neppure tale brodaglia avrebbe avuto la possibilità di avere ma, fortunatamente, un amico gli donò il coperchio della sua. Il coperchio però poco brodo poteva contenere e il papà aveva cercato di aumentarne la profondità picchiettando con un sasso ripetutamente il fondo con molta attenzione per non forare il prezioso contenitore che contribuiva a garantirgli la sopravvivenza.
Ci si doveva ingegnare in tutti i modi per riuscire a restare in vita. Aveva imparato con rapidità il tedesco e ciò lo aveva risparmiato da alcune ingiustificate e assurde punizioni. In quel luogo dove regnava la disperazione una fortuna il papà l’ebbe! C’era un tedesco privo dell’arto inferiore, perso durante un combattimento, che ogni giorno arrivava all’interno del campo dalla sua abitazione, collocata a pochi chilometri dal lager, sul suo carretto trainato da un cavallo. Il papà, quando gli era possibile, si avvicinava al cavallo lo accarezzava, gli sussurrava nelle orecchie e l’animale lasciava fare a quell’Alpino che gli dimostrava tanta affettuosità.
Il tedesco da una finestra lo aveva più volte osservato ed un giorno decise di portarsi il papà a casa affinché si occupasse dell’animale, del fienile nel quale poteva dormire e di altre faccende che lui, a causa della sua menomazione, non era più in grado di svolgere. Gli ordini impartiti dal soldato e anche dalla moglie venivano eseguiti con diligenza dal papà che così si guadagnò la loro fiducia tanto che gli fu concesso di trasferirsi per dormire dal fienile all’interno dell’abitazione in una cameretta e gli fu fornito anche cibo a sufficienza.
Ma la pacchia, se così si può definire una tale situazione, durò solo circa un mese e poi il tedesco fu costretto a riportare il papà all’interno del lager. Prima di partire la moglie gli mise all’interno di una scatola del cibo, ma arrivato nel campo fu preso a calci dai tedeschi e fu fatto cadere a terra e a terra finì tutto quel bendidio. Tutte quelle leccornie gli furono sequestrate e a lui rimase solo il segno delle percosse ricevute e null’altro.
Il papà aveva imparato così bene il tedesco che spesso a casa dal terrazzo quando vedeva passare per strada turisti, il cui abbigliamento e aspetto fisico lo inducevano a pensare fossero tedeschi, lo sentivi porre il solito quesito: “Sprechen deutsch?”. E quando la risposta era: “Ja” la lingua gli si scioglieva come non mai. Si aprivano dialoghi intercalati da spassose risate che si concludevano, talvolta, addirittura con una foto ricordo che gli veniva successivamente fatta pervenire.
Quale fosse il contenuto di tali conversazioni non ho mai avuto modo di comprendere però sentendolo così spigliato e così in grado di catturare l’attenzione dell’interlocutore riusciva sempre a strapparmi un grande sorriso. Tornato a casa aveva tolto quell’immagine a lui tanto cara dalla divisa e l’aveva riposta in quel portafotografie (che io non conoscendo tutta la storia che dietro si celava avrei voluto buttare nella spazzatura) e ogni sera prima di coricarsi alla Madonna si rivolgeva e una preghiera recitava non più posando la mano sul cuore perché Colei che lo aveva salvato era ora davanti ai suoi occhi e non era più custodita nel taschino della giacca che in molti non avrebbero mai voluto indossare e che per molti è stata l’ultimo abito della loro esistenza conclusasi tragicamente.
martedì 23 marzo 2021
L'ARMIR nella II battaglia del Don, parte 14
L'8 Armata italiana nella seconda battaglia difensiva del Don (11 dicembre 1942 - 31 gennaio 1943), quattordicesima parte.
VISIONE VICINA DEL RIPIEGAMENTO. Sin qui la visione panoramica che si ha della battaglia dall'alto di un virtuale osservatorio militare. Scendiamo, ora, al piano e guardiamo da vicino lo sterminato campo della tragica vicenda durante il ripiegamento. La steppa si presenta sotto l'aspetto più triste di desolazione e di morte. La temperatura tra i 35° ed i 40° sotto zero. Frammista a reparti, che pur mantengono una certa consistenza organica, una immensa fiumana di militari di tutte le armi e corpi, estenuata dal freddo e dalla fame procede verso ovest e verso sud-ovest attraverso campi, boschi coperti di neve, su strade ingorgate da carreggio, slitte, automezzi; premuta, attaccata, accerchiata, frazionata e deviata da carri armati, da elementi motorizzati, da cavalieri nemici. Sono uomini al limite di ogni umana resistenza, che una miracolosa forza sostiene e camminano, camminano come automi in colonne che sempre più si assottigliano avendo tre nemici mortali da combattere: il carro armato, il partigiano, il freddo. Contro i primi due, i più animosi si battono; di fronte al terzo, i più deboli soccombono.
Nella notte gelida, resa più tormentosa dall'implacabile bufera di neve molti cadono stremati di forze, si rialzano, fanno ancora pochi passi poi si fermano. Alcuni sono raccolti, altri si inginocchiano, pregano poi reclinano la testa: non occorre più raccoglierli. Suicidi e casi di pazzia completano il triste quadro. Le slitte sono stracariche di feriti e congelati, i quadrupedi si abbattono vinti dalla fatica; alpini, fanti, artiglieri si sostituiscono ad essi nel traino, ma ogni tanto qualche slitta deve fermarsi per non più muovere. E la fiumana si assottiglia, ma pur sempre imponente, procede nella sua marcia, inondando i villaggi dove le isbe rigurgitano di militari. Italiani, tedeschi, ungheresi, romeni si contendono a mano armata un posto al coperto per riposare e scaldarsi. Non di rado, nel trambusto violento, l'isba si incendia carbonizzando quelli che vi hanno cercato rifugio, impossibilitati ormai dall'intasamento a mettersi in salvo.
Man mano che si allontanano dalla pressione nemica i soldati perdono ogni parvenza militare. Molti si liberano delle armi, delle munizioni, delle bombe a mano per rendere meno faticosa la marcia. E qualche bomba esplode al passaggio di questo formicolaio umano: quasi non bastasse, nuove vittime vanno ad aggiungersi a quelle prodotte dal nemico, dal freddo, dall'esaurimento. Copricapi, giubbe della popolazione ucraina sostituiscono le uniformi lacere; stivaloni di feltro prendono il posto di scarpe a brandelli. Nelle soste, altri soldati, liberatisi dalla prigionia, senza cappotti, senza giubbe, e non pochi senza scarpe, tolto loro dal nemico per impedirne la fuga, con i piedi fasciati di paglia, raggiungono la marea umana e con essa tentano di proseguire la marcia. Passano così di casa in casa, di villaggio in villaggio ove la popolazione ucraina - per pietà, simpatia o per ordine ricevuto dalle autorità russe - è sollecita nell'alleviar sofferenze, offre da mangiare, vestire e possibilità di riposo.
In questo ambiente, che prevale nel quadro generale del grande rovescio militare nel quale fu travolta anche l'8a Armata italiana, ai reparti meno provati o ancora in pugno a comandanti energici toccò il duro compito di sostenere aspri combattimenti per aprire successivi varchi nei continui sbarramenti avversari, che i russi, informati dall'aviazione della direzione di marcia delle colonne e ben sapendo che le condizioni climatologiche imponevano di trascorrere la notte in paesi, si avvalevano di reparti motorizzati per precederle nell'occupazione degli abitati; ivi imponevano il combattimento mentre altre forze le attaccavano, più spesso sui fianchi che in coda, per spezzarle in tronconi che venivano poi sopraffatti o per lo meno scompaginati. Seguiamo le vicissitudini di un reparto come sono narrate in un rapporto: tutti si somigliano un po', quanto meno nel tormento.
«La colonna riprende la marcia. Dopo breve cammino l'avversario ci accoglie col fuoco di armi automatiche. La 2a e la 3a cp. si spiegano rapidamente e vanno decise all'attacco; i russi cedono terreno; ma appaiono presto i primi carri armati. in principio due carri leggeri che velocemente risalgono la rotabile in senso inverso al nostro movimento. I pezzi delle cp. cannoni prendono posizione sul lato sinistro della strada ed aprono il fuoco. Battoni i carri a brevissima distanza: li centrano, dalla torretta di essi si sprigiona, improvvisa e violenta, una fiammata che, simile ad una torcia, arderà a lungo illuminando di rossi bagliori fanti e cannonieri. La 2a e la 3a cp. guadagnano intanto terreno sebbene il crepitare delle mitragliatrici russe si vada facendo sempre più fitto e rabbioso. Nella notte buia la linea tenuta dal nemico è facilmente individuabile: le fiammelle delle sue armi ne punteggiano lo sviluppo; è evidente il tentativo di circondarci... Ben presto entrano in azione nuovi carri e questa volta si tratta di macchine imponenti per mole e armate di più mitragliatrici e provviste di cannone. A notevole velocità esse percorrono in su e in giù le strade e le piste provenienti da sud e mitragliano e cannoneggiano.
«La cp. cannoni, che ha seguito il movimento delle cp. fucilieri, prodiga il suo tiro. Si vedono i proiettili dei nostri 47/32 cogliere la corazzatura dei carri e rimbalzare arroventati in alto, verso il cielo, simili a razzi. Due carri vengono tuttavia immobilizzati, ma continuano a fare fuoco con le armi di bordo... La comparsa dei carri pesanti segna un momento d'arresto nell'azione; i nostri avanzano, ma sempre più penosamente e sempre più lentamente. Gli elementi di fanteria russa cedono terreno sfruttando abilmente ogni casa e ogni ostacolo per sbarrarci il cammino; il tempo passa veloce e lo slancio dei fanti tende ad appesantirsi; i cannonieri sono scorati; capi pezzi e puntatori si mordono le mani e piangono di fronte all'inutilità del loro fuoco. Ad aggravare la situazione ben presto la nostra prima linea urta contro una serie di carri pesanti fermi, appostati presso le case che falciano col tiro delle loro armi le nostre file: sono veri fortini contro i quali le armi di fanteria nulla valgono; tra carro e carro le mitragliatrici russe sgranano i loro colpi; di tratto in tratto, improvvisamente, un carro irrompe lungo la strada e le piste.
«A rendere la scena ancora più impressionante i carri con pallottole incendiarie appiccano metodicamente il fuoco ai tetti di paglia deve isbe, gli incendi illuminano a giorno il teatro del combattimento; ogni movimento dei nostri è visto e provoca violenta reazione di fuoco... I feriti, i caduti sono molti. Il combattimento tende a stabilizzarsi a tutto nostro danno. Sono manifesti i segni di scoramento e di sgomento. Le prime luci dell'alba stentatamente si fanno strada fra il fiammeggiare degli incendi che materializzano come torce giganti il cerchio che ci stringe da ogni parte. Se ogni ulteriore indugio può essere fatale un disperato tentativo di rompere la cerchia del nemico ha possibilità di riuscita? L'incertezza dura poco. All'ultimo "Avanti" il combattimento si riaccende violento; i russi sparano dalle case, dai carri e da ogni anfrattuosità del terreno; davanti a sui nostri fianchi crepitano le mitragliatrici, le pallottole frustano l'aria in ogni senso; chi può dire quanto sia durata questa corsa in avanti sorretta solo dalla volontà di sfuggire al nemico?
«Finalmente ci troviamo al di là dello schieramento avversario. Avanti il più rapidamente possibile verso sud-ovest evitando le strade. Si inizia, così, il nostro camminare alla bussola attraverso la steppa, fuori strada, sulla neve che talvolta ci sommerge fino al ginocchio, con temperature che oscillano fra 40° e 50° sotto zero, sorretti dalla disperata volontà di riprendere il nostro posto accanto ai nostri. Nevica e il vento gelido ci penetra fin nelle ossa. Siamo sfiniti, la sete che invano tentiamo sopire ingollando manciate di neve ci serra la gola! I più si muovono come automi ubbriachi, qualcuno si è buttato a terra supplicando di morire in pace. E' assolutamente indispensabile concedere qualche ora di riposo! ma dove? Nella steppa non c'è una casa, una pianta, un riparo pur che sia. Troviamo, infine, una balka piena di neve e ci sembra provvidenziale: se non altro saremo al riparo dal vento. All'"Alt", di schianto, gli uomini si buttano a terra nella neve e dormono; ma una vedetta veglia per tutti. La bufera che turbina sopra di noi, ci preservi da ogni sorpresa! E' la vigilia di Natale.
VISIONE VICINA DEL RIPIEGAMENTO. Sin qui la visione panoramica che si ha della battaglia dall'alto di un virtuale osservatorio militare. Scendiamo, ora, al piano e guardiamo da vicino lo sterminato campo della tragica vicenda durante il ripiegamento. La steppa si presenta sotto l'aspetto più triste di desolazione e di morte. La temperatura tra i 35° ed i 40° sotto zero. Frammista a reparti, che pur mantengono una certa consistenza organica, una immensa fiumana di militari di tutte le armi e corpi, estenuata dal freddo e dalla fame procede verso ovest e verso sud-ovest attraverso campi, boschi coperti di neve, su strade ingorgate da carreggio, slitte, automezzi; premuta, attaccata, accerchiata, frazionata e deviata da carri armati, da elementi motorizzati, da cavalieri nemici. Sono uomini al limite di ogni umana resistenza, che una miracolosa forza sostiene e camminano, camminano come automi in colonne che sempre più si assottigliano avendo tre nemici mortali da combattere: il carro armato, il partigiano, il freddo. Contro i primi due, i più animosi si battono; di fronte al terzo, i più deboli soccombono.
Nella notte gelida, resa più tormentosa dall'implacabile bufera di neve molti cadono stremati di forze, si rialzano, fanno ancora pochi passi poi si fermano. Alcuni sono raccolti, altri si inginocchiano, pregano poi reclinano la testa: non occorre più raccoglierli. Suicidi e casi di pazzia completano il triste quadro. Le slitte sono stracariche di feriti e congelati, i quadrupedi si abbattono vinti dalla fatica; alpini, fanti, artiglieri si sostituiscono ad essi nel traino, ma ogni tanto qualche slitta deve fermarsi per non più muovere. E la fiumana si assottiglia, ma pur sempre imponente, procede nella sua marcia, inondando i villaggi dove le isbe rigurgitano di militari. Italiani, tedeschi, ungheresi, romeni si contendono a mano armata un posto al coperto per riposare e scaldarsi. Non di rado, nel trambusto violento, l'isba si incendia carbonizzando quelli che vi hanno cercato rifugio, impossibilitati ormai dall'intasamento a mettersi in salvo.
Man mano che si allontanano dalla pressione nemica i soldati perdono ogni parvenza militare. Molti si liberano delle armi, delle munizioni, delle bombe a mano per rendere meno faticosa la marcia. E qualche bomba esplode al passaggio di questo formicolaio umano: quasi non bastasse, nuove vittime vanno ad aggiungersi a quelle prodotte dal nemico, dal freddo, dall'esaurimento. Copricapi, giubbe della popolazione ucraina sostituiscono le uniformi lacere; stivaloni di feltro prendono il posto di scarpe a brandelli. Nelle soste, altri soldati, liberatisi dalla prigionia, senza cappotti, senza giubbe, e non pochi senza scarpe, tolto loro dal nemico per impedirne la fuga, con i piedi fasciati di paglia, raggiungono la marea umana e con essa tentano di proseguire la marcia. Passano così di casa in casa, di villaggio in villaggio ove la popolazione ucraina - per pietà, simpatia o per ordine ricevuto dalle autorità russe - è sollecita nell'alleviar sofferenze, offre da mangiare, vestire e possibilità di riposo.
In questo ambiente, che prevale nel quadro generale del grande rovescio militare nel quale fu travolta anche l'8a Armata italiana, ai reparti meno provati o ancora in pugno a comandanti energici toccò il duro compito di sostenere aspri combattimenti per aprire successivi varchi nei continui sbarramenti avversari, che i russi, informati dall'aviazione della direzione di marcia delle colonne e ben sapendo che le condizioni climatologiche imponevano di trascorrere la notte in paesi, si avvalevano di reparti motorizzati per precederle nell'occupazione degli abitati; ivi imponevano il combattimento mentre altre forze le attaccavano, più spesso sui fianchi che in coda, per spezzarle in tronconi che venivano poi sopraffatti o per lo meno scompaginati. Seguiamo le vicissitudini di un reparto come sono narrate in un rapporto: tutti si somigliano un po', quanto meno nel tormento.
«La colonna riprende la marcia. Dopo breve cammino l'avversario ci accoglie col fuoco di armi automatiche. La 2a e la 3a cp. si spiegano rapidamente e vanno decise all'attacco; i russi cedono terreno; ma appaiono presto i primi carri armati. in principio due carri leggeri che velocemente risalgono la rotabile in senso inverso al nostro movimento. I pezzi delle cp. cannoni prendono posizione sul lato sinistro della strada ed aprono il fuoco. Battoni i carri a brevissima distanza: li centrano, dalla torretta di essi si sprigiona, improvvisa e violenta, una fiammata che, simile ad una torcia, arderà a lungo illuminando di rossi bagliori fanti e cannonieri. La 2a e la 3a cp. guadagnano intanto terreno sebbene il crepitare delle mitragliatrici russe si vada facendo sempre più fitto e rabbioso. Nella notte buia la linea tenuta dal nemico è facilmente individuabile: le fiammelle delle sue armi ne punteggiano lo sviluppo; è evidente il tentativo di circondarci... Ben presto entrano in azione nuovi carri e questa volta si tratta di macchine imponenti per mole e armate di più mitragliatrici e provviste di cannone. A notevole velocità esse percorrono in su e in giù le strade e le piste provenienti da sud e mitragliano e cannoneggiano.
«La cp. cannoni, che ha seguito il movimento delle cp. fucilieri, prodiga il suo tiro. Si vedono i proiettili dei nostri 47/32 cogliere la corazzatura dei carri e rimbalzare arroventati in alto, verso il cielo, simili a razzi. Due carri vengono tuttavia immobilizzati, ma continuano a fare fuoco con le armi di bordo... La comparsa dei carri pesanti segna un momento d'arresto nell'azione; i nostri avanzano, ma sempre più penosamente e sempre più lentamente. Gli elementi di fanteria russa cedono terreno sfruttando abilmente ogni casa e ogni ostacolo per sbarrarci il cammino; il tempo passa veloce e lo slancio dei fanti tende ad appesantirsi; i cannonieri sono scorati; capi pezzi e puntatori si mordono le mani e piangono di fronte all'inutilità del loro fuoco. Ad aggravare la situazione ben presto la nostra prima linea urta contro una serie di carri pesanti fermi, appostati presso le case che falciano col tiro delle loro armi le nostre file: sono veri fortini contro i quali le armi di fanteria nulla valgono; tra carro e carro le mitragliatrici russe sgranano i loro colpi; di tratto in tratto, improvvisamente, un carro irrompe lungo la strada e le piste.
«A rendere la scena ancora più impressionante i carri con pallottole incendiarie appiccano metodicamente il fuoco ai tetti di paglia deve isbe, gli incendi illuminano a giorno il teatro del combattimento; ogni movimento dei nostri è visto e provoca violenta reazione di fuoco... I feriti, i caduti sono molti. Il combattimento tende a stabilizzarsi a tutto nostro danno. Sono manifesti i segni di scoramento e di sgomento. Le prime luci dell'alba stentatamente si fanno strada fra il fiammeggiare degli incendi che materializzano come torce giganti il cerchio che ci stringe da ogni parte. Se ogni ulteriore indugio può essere fatale un disperato tentativo di rompere la cerchia del nemico ha possibilità di riuscita? L'incertezza dura poco. All'ultimo "Avanti" il combattimento si riaccende violento; i russi sparano dalle case, dai carri e da ogni anfrattuosità del terreno; davanti a sui nostri fianchi crepitano le mitragliatrici, le pallottole frustano l'aria in ogni senso; chi può dire quanto sia durata questa corsa in avanti sorretta solo dalla volontà di sfuggire al nemico?
«Finalmente ci troviamo al di là dello schieramento avversario. Avanti il più rapidamente possibile verso sud-ovest evitando le strade. Si inizia, così, il nostro camminare alla bussola attraverso la steppa, fuori strada, sulla neve che talvolta ci sommerge fino al ginocchio, con temperature che oscillano fra 40° e 50° sotto zero, sorretti dalla disperata volontà di riprendere il nostro posto accanto ai nostri. Nevica e il vento gelido ci penetra fin nelle ossa. Siamo sfiniti, la sete che invano tentiamo sopire ingollando manciate di neve ci serra la gola! I più si muovono come automi ubbriachi, qualcuno si è buttato a terra supplicando di morire in pace. E' assolutamente indispensabile concedere qualche ora di riposo! ma dove? Nella steppa non c'è una casa, una pianta, un riparo pur che sia. Troviamo, infine, una balka piena di neve e ci sembra provvidenziale: se non altro saremo al riparo dal vento. All'"Alt", di schianto, gli uomini si buttano a terra nella neve e dormono; ma una vedetta veglia per tutti. La bufera che turbina sopra di noi, ci preservi da ogni sorpresa! E' la vigilia di Natale.
lunedì 22 marzo 2021
Ricordi, parte 15
E poi ci sono i giorni come questi un cui passi delle ore a riguardarti le fotografie che hai scattato in Russia e ti manca tutto di quei giorni; non vedi l'ora che finisca tutto questo, anche per tornare e rivedere la steppa e la neve e poter camminare per ore nel silenzio più assoluto in un mondo che è scollegato a quello in cui sei abituato a vivere.
Onori a Enrico Righetti
Ricevo dal Signor Ferruccio Burlando un ricordo del fratello della nonna, disperso in Russia; Enrico Righetti era nato a Genova il 13 aprile 1922 ed era inquadrato nell'89° reggimento di fanteria, prima compagna del primo plotone, matricola 22765. Questa la sua ultima lettera a casa, datata 15 dicembre del 1942:
"Russia 15 Dicembre 1942 - XXI
Miei cari, non posso descrivervi il grande freddo che fa qui, é una cosa che ti prende il cuore e te lo schiaccia, vi prego di mandarmi presto presto un paio di scarponi e calze di lana pesante, ne ho bisogno perché costì senza si può morire, le mie vecchie scarpe si sono spaccate e al momento non posso chiederne di nuove perché "Loro" arrivano in continuazione... ma io ed i miei amici siamo determinati a tener duro e a non farli passare, però l'inverno combatte contro di noi. Ti prego Giorgia mandami gli scarponi e le calze di lana te ne supplico perché senza non posso resistere ancora per molto. Mammina ti abbraccio e ti mando un bacio prega per me perché possa tornare ad abbracciarti ancora.
Vostro Enrico".
Enrico verrà dichiarato disperso il giorno 17 dicembre 1942.
"Russia 15 Dicembre 1942 - XXI
Miei cari, non posso descrivervi il grande freddo che fa qui, é una cosa che ti prende il cuore e te lo schiaccia, vi prego di mandarmi presto presto un paio di scarponi e calze di lana pesante, ne ho bisogno perché costì senza si può morire, le mie vecchie scarpe si sono spaccate e al momento non posso chiederne di nuove perché "Loro" arrivano in continuazione... ma io ed i miei amici siamo determinati a tener duro e a non farli passare, però l'inverno combatte contro di noi. Ti prego Giorgia mandami gli scarponi e le calze di lana te ne supplico perché senza non posso resistere ancora per molto. Mammina ti abbraccio e ti mando un bacio prega per me perché possa tornare ad abbracciarti ancora.
Vostro Enrico".
Enrico verrà dichiarato disperso il giorno 17 dicembre 1942.
venerdì 19 marzo 2021
Caro Abbondio...
In questa pagina racconto storie di uomini, storie ormai lontane, storie di soldati inghiottiti in quel buco nero che fu la Campagna di Russia; ho sempre avuto un rispetto assoluto per chi ha vestito una divisa, da qualunque parte è stato; ma in particolare per i nostri soldati impegnati in Russia. Ricordarli mi fa sentire bene... Ma non ci sono solo loro in tutta questa storia, anzi. Ci sono anche le persone che li hanno visti partire, li hanno aspettati per mesi o anni e, purtroppo in tanti casi non li hanno visti tornare.
La mia famiglia, in questo senso, è stata fortunata; non è stata toccata da questa tragedia. Ma ho conosciuto diverse persone in questi anni che al contrario hanno vissuto sulla loro pelle tutto questo; volevo da tempo dare spazio anche a questo aspetto che nei diversi viaggi è sempre emerso parlando con le persone che venivano con me... perché tutto questo in qualche modo me lo hanno sempre trasmesso e me lo sento sempre addosso. Lascio pertanto la parola a chi saprà meglio di me raccontare questa parte della storia...
Raccontare la storia della mia famiglia senza la presenza di Abbondio è come aver vissuto la nostra vita a metà, incompleta di gesti, di parole e di affetto. Oggi che in famiglia rimango solo io a testimoniare cosa significhi vivere con “un disperso” vi posso dire che non è un morto qualsiasi ma un’anima che non ha mai trovato pace tra i nostri pensieri nonostante il tempo ci abbia sedotto con il pensiero della morte come unico sollievo. Mi chiamo Silvia Ostinelli e sono la nipote di Abbondio Ostinelli, alpino comasco della Tridentina inquadrato nel glorioso Battaglione Morbegno e dato disperso il 26 gennaio 1943. Da quella data mia nonna vedova con tre figli sulle spalle cominciò a cercare notizie del figlio scomparso nonostante le difficoltà di quel momento.
La storia...
Nel dicembre 1941 mia nonno muore. Lo zio di stanza a Merano fa ritorno a casa per i funerali del padre. E’ l’ultima volta che vedrà la famiglia e la sua terra. Mio padre mi raccontò anni fa alcuni aneddoti di quel momento:
“Abbondio prima di ritornare in caserma, volle che lo accompagnassi sulle nostre montagne, quelle che si affacciano sul lago come faceva spesso quando era a casa. Mi disse: 'Questa terra sarà per me motivo di forza e speranza in Russia'.
Il 22 luglio 43 partì da Avigliana con il 5° Alpini per raggiungere le zone di guerra in Russia lasciando l’Italia per sempre senza voler rivedere nessuno di noi. - Il distacco sarebbe troppo doloroso per te cara mamma ed io non lo sopporterei- scrisse in una lettera.
Per i primi mesi e fino alla fine del 1942 arrivarono a casa le sue lettere in cui non si dilungava troppo nel raccontarci particolari ma ci rassicurava e ci spiegava che tutto il Battaglione Morbegno era sul Don aspettando che venisse buona. Dal gennaio del 1943 cessarono di arrivare notizie. Mia madre preoccupata non smise mai di sperare anche contro ogni evidenza di vederlo tornare e nella vecchiaia sperò con tutte le sue forze che di quel figlio tornassero almeno i resti o una parte di essi per poter sfogare il suo dolore su qualcosa. Credo che la cosa peggiore per lei fosse proprio questa: non avere una tomba su cui piangere il figlio.
Ricordo che per tanti anni continuò a recarsi a Como all’Associazione dei Dispersi per cercare di trovare almeno qualche indizio anche minimo che potesse far luce sulla sua fine. Già la sua fine… Ormai era chiaro che nostro fratello era morto ma poter ripercorrere i suoi ultimi giorni, anche sommariamente, sarebbe stato un sollievo per lei, un modo di essergli vicino ancora.”
Anche i fratelli risentirono in modo profondo la perdita di Abbondio. Il loro legame si era indebolito, qualcosa si era spezzato inesorabilmente, si erano persi tra di loro quando avevano udito circa la possibile fine del fratello, ossia la prigionia. Difficile da far capire a chi non ha provato sulla pelle i resoconti di guerra e di prigionia subiti da un figlio o fratello. Se non trovi una valida motivazione che giustifichi la fine, è facile perdere la testa. Ecco che allora la sua morte diventa il sacrificio, un simbolo che da valore a tutto il tormento con il quale abbiamo convissuto da sempre.
Mia nonna si spense con gli anni, la sua mente non accettava più la realtà, e lentamente perse la memoria per il troppo dolore, la perse per il quotidiano vivere ma non per Abbondio. In qualche modo aveva trovato la maniera per convivere con il suo ricordo. Per tutti gli anni che rimase viva scrisse ovunque per raccogliere informazioni sulla sorte dello zio ma tra tutte le lettere me ne resta in testa una in particolare che mandò al Comando Raccolta prigionieri italiani a Odessa che mi ha colpito per la gentilezza delle parole usate per descrivere un atroce dolore. Ne riporto uno stralcio.
“Spettabile Comando, oso presentarmi a Voi come una madre piena di ansia e di affetto verso il proprio figlio con questa mia supplica che chiede di dare al cuore di questa madre qualche vostro cenno di risposta…. Di Mio figlio, Abbondio Ostinelli, già alpino del 5° rgt alpini, battaglione Morbegno, 45° compagnia, Tridentina non ho avuto più notizie dal gennaio 1943. Le ricerche intraprese sono state vane. Spero però nella vostra bontà nell’intraprenderne altre e nel darci comunicazioni, che portino a noi, parenti ansiosi, un poco di quella serenità perché sfiniti e angosciati. Mentre attendo vostre, spero e credo che attraverso la vostra gentilezza di cuore, possa anch’io un giorno sentire il nome del mio caro figlio sano e salvo in una terra grande e ospitale”...
Si dice che il dolore provato dai genitori si iscriva sul DNA dei figli come memoria perenne dei vissuti, tramandata attraverso le generazioni. Ecco io penso di aver ereditato questo dolore, quello di mia nonna in particolare perché averla vista disperata un’intera vita, ha condizionato la mia, rendendomi poi consapevole in età adulta di quello che sarebbe stato il mio destino: ripercorrere la storia dello zio, andare in Russia e capire quello che gli era successo. Insomma ho sempre voluto dare una risposta alla nonna. E l’ho fatto, insieme a quel desiderio delirante e perenne di riportare a casa lo zio.
Quando torno a Como passando per l’autostrada laghi, godo sempre dello spettacolo straordinario che ogni volta la mia terra mi propone, il lago con le sue montagne e io lo ammiro con gli occhi dello zio, con il suo stesso stupore e la gioia che avrebbe avuto nel ritornare a casa. Per me vuol dire sentirlo accanto.
Abbondio, muore molto probabilmente in un lager del Pahta Aral nel odierno Kazakhstan come tanti altri suoi commilitoni. Ogni volta che lo immagino morente in piena solitudine pensando a noi, riesco a vedere i suoi occhi. E simbolicamente mi sdraio vicino a lui e gli tengo la mano. Lui non è morto ma vive attraverso di me.
Silvia Ostinelli
Como
La mia famiglia, in questo senso, è stata fortunata; non è stata toccata da questa tragedia. Ma ho conosciuto diverse persone in questi anni che al contrario hanno vissuto sulla loro pelle tutto questo; volevo da tempo dare spazio anche a questo aspetto che nei diversi viaggi è sempre emerso parlando con le persone che venivano con me... perché tutto questo in qualche modo me lo hanno sempre trasmesso e me lo sento sempre addosso. Lascio pertanto la parola a chi saprà meglio di me raccontare questa parte della storia...
Raccontare la storia della mia famiglia senza la presenza di Abbondio è come aver vissuto la nostra vita a metà, incompleta di gesti, di parole e di affetto. Oggi che in famiglia rimango solo io a testimoniare cosa significhi vivere con “un disperso” vi posso dire che non è un morto qualsiasi ma un’anima che non ha mai trovato pace tra i nostri pensieri nonostante il tempo ci abbia sedotto con il pensiero della morte come unico sollievo. Mi chiamo Silvia Ostinelli e sono la nipote di Abbondio Ostinelli, alpino comasco della Tridentina inquadrato nel glorioso Battaglione Morbegno e dato disperso il 26 gennaio 1943. Da quella data mia nonna vedova con tre figli sulle spalle cominciò a cercare notizie del figlio scomparso nonostante le difficoltà di quel momento.
La storia...
Nel dicembre 1941 mia nonno muore. Lo zio di stanza a Merano fa ritorno a casa per i funerali del padre. E’ l’ultima volta che vedrà la famiglia e la sua terra. Mio padre mi raccontò anni fa alcuni aneddoti di quel momento:
“Abbondio prima di ritornare in caserma, volle che lo accompagnassi sulle nostre montagne, quelle che si affacciano sul lago come faceva spesso quando era a casa. Mi disse: 'Questa terra sarà per me motivo di forza e speranza in Russia'.
Il 22 luglio 43 partì da Avigliana con il 5° Alpini per raggiungere le zone di guerra in Russia lasciando l’Italia per sempre senza voler rivedere nessuno di noi. - Il distacco sarebbe troppo doloroso per te cara mamma ed io non lo sopporterei- scrisse in una lettera.
Per i primi mesi e fino alla fine del 1942 arrivarono a casa le sue lettere in cui non si dilungava troppo nel raccontarci particolari ma ci rassicurava e ci spiegava che tutto il Battaglione Morbegno era sul Don aspettando che venisse buona. Dal gennaio del 1943 cessarono di arrivare notizie. Mia madre preoccupata non smise mai di sperare anche contro ogni evidenza di vederlo tornare e nella vecchiaia sperò con tutte le sue forze che di quel figlio tornassero almeno i resti o una parte di essi per poter sfogare il suo dolore su qualcosa. Credo che la cosa peggiore per lei fosse proprio questa: non avere una tomba su cui piangere il figlio.
Ricordo che per tanti anni continuò a recarsi a Como all’Associazione dei Dispersi per cercare di trovare almeno qualche indizio anche minimo che potesse far luce sulla sua fine. Già la sua fine… Ormai era chiaro che nostro fratello era morto ma poter ripercorrere i suoi ultimi giorni, anche sommariamente, sarebbe stato un sollievo per lei, un modo di essergli vicino ancora.”
Anche i fratelli risentirono in modo profondo la perdita di Abbondio. Il loro legame si era indebolito, qualcosa si era spezzato inesorabilmente, si erano persi tra di loro quando avevano udito circa la possibile fine del fratello, ossia la prigionia. Difficile da far capire a chi non ha provato sulla pelle i resoconti di guerra e di prigionia subiti da un figlio o fratello. Se non trovi una valida motivazione che giustifichi la fine, è facile perdere la testa. Ecco che allora la sua morte diventa il sacrificio, un simbolo che da valore a tutto il tormento con il quale abbiamo convissuto da sempre.
Mia nonna si spense con gli anni, la sua mente non accettava più la realtà, e lentamente perse la memoria per il troppo dolore, la perse per il quotidiano vivere ma non per Abbondio. In qualche modo aveva trovato la maniera per convivere con il suo ricordo. Per tutti gli anni che rimase viva scrisse ovunque per raccogliere informazioni sulla sorte dello zio ma tra tutte le lettere me ne resta in testa una in particolare che mandò al Comando Raccolta prigionieri italiani a Odessa che mi ha colpito per la gentilezza delle parole usate per descrivere un atroce dolore. Ne riporto uno stralcio.
“Spettabile Comando, oso presentarmi a Voi come una madre piena di ansia e di affetto verso il proprio figlio con questa mia supplica che chiede di dare al cuore di questa madre qualche vostro cenno di risposta…. Di Mio figlio, Abbondio Ostinelli, già alpino del 5° rgt alpini, battaglione Morbegno, 45° compagnia, Tridentina non ho avuto più notizie dal gennaio 1943. Le ricerche intraprese sono state vane. Spero però nella vostra bontà nell’intraprenderne altre e nel darci comunicazioni, che portino a noi, parenti ansiosi, un poco di quella serenità perché sfiniti e angosciati. Mentre attendo vostre, spero e credo che attraverso la vostra gentilezza di cuore, possa anch’io un giorno sentire il nome del mio caro figlio sano e salvo in una terra grande e ospitale”...
Si dice che il dolore provato dai genitori si iscriva sul DNA dei figli come memoria perenne dei vissuti, tramandata attraverso le generazioni. Ecco io penso di aver ereditato questo dolore, quello di mia nonna in particolare perché averla vista disperata un’intera vita, ha condizionato la mia, rendendomi poi consapevole in età adulta di quello che sarebbe stato il mio destino: ripercorrere la storia dello zio, andare in Russia e capire quello che gli era successo. Insomma ho sempre voluto dare una risposta alla nonna. E l’ho fatto, insieme a quel desiderio delirante e perenne di riportare a casa lo zio.
Quando torno a Como passando per l’autostrada laghi, godo sempre dello spettacolo straordinario che ogni volta la mia terra mi propone, il lago con le sue montagne e io lo ammiro con gli occhi dello zio, con il suo stesso stupore e la gioia che avrebbe avuto nel ritornare a casa. Per me vuol dire sentirlo accanto.
Abbondio, muore molto probabilmente in un lager del Pahta Aral nel odierno Kazakhstan come tanti altri suoi commilitoni. Ogni volta che lo immagino morente in piena solitudine pensando a noi, riesco a vedere i suoi occhi. E simbolicamente mi sdraio vicino a lui e gli tengo la mano. Lui non è morto ma vive attraverso di me.
Silvia Ostinelli
Como
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