Immagini del mio primo viaggio "esplorativo" effettuato nel 2011... la steppa intorno a Novo Georgiewskij.
Dal 2011 camminiamo in Russia e ci regaliamo emozioni
Trekking ed escursioni in Russia sui campi di battaglia della Seconda Guerra Mondiale
Danilo Dolcini - Phone 349.6472823 - Email danilo.dolcini@gmail.com - FB Un italiano in Russia
mercoledì 24 marzo 2021
Onori a Attilio Fusi
Ricevo dalla Signora Mariella Fusi un ricordo del papà, Attilio, reduce di Russia che pubblico con piacere.
Per non dimenticare!
Nella valigia dei ricordi del papà (Fusi Attilio classe 1921 Alpino 6° Reggimento, Divisione Tridentina) ho trovato tra foto, lettere, piastrina del lager, libri con dediche, anche un’immagine della Madonna dell’Aiuto e la mente è subito tornata ad un giorno di molti anni fa quando entrai nella sua camera per portargli una limonata. Era a letto per una terribile intossicazione da funghi, ne era ghiotto e quella volta aveva veramente esagerato. Nell’attesa che terminasse di sorseggiare la calda bevanda mi sedetti su una sedia e il mio sguardo si posò su un brutto portafotografie, posto sul comodino, sbeccato e danneggiato dal tempo e con all’interno un’immagine della Madonna altrettanto rovinata e sbiadita. Era lì da sempre quel portafotografie e molte volte avevo avuto la tentazione di buttarlo ma non lo avevo mai fatto perché mi ero proposta di ottenere, prima di agire, il consenso del papà onde evitare inutili arrabbiature.
Fu proprio in quel momento che gli chiesi se potevo sostituirlo con uno nuovo, la risposta fu categorica: “Guai a te se lo tocchi!”. Ed iniziò il suo racconto. Quando partì per la guerra nel taschino della divisa inserì l’immagine della Madonna dell’Aiuto e lì sul lato del cuore la lasciò fino al suo ritorno a “baita”. Per paura che si sgualcisse e si raggrinzasse l’aveva attaccata, in qualche modo, ad un bel pezzo di lamiera. Durante le operazioni belliche della Campagna di Russia fu raggiunto da una scheggia che avrebbe potuto porre fine alla sua vita ma riuscì miracolosamente a cavarsela grazie a quell’immagine con la lamiera che gli fece da scudo e che porta infatti al centro il segno di quel frammento. Nella convinzione di essere stato salvato proprio da quella Madonna infinite volte a Lei rivolse una preghiera, nei tanti momenti difficili e drammatici, posando una mano sul cuore.
Una mano sul cuore se la metteva quando nel freddo e nel gelo della Russia, non adeguatamente coperto come ubriaco fra tanti ubriachi sfiniti e in preda a terribili morse di fame, avanzava barcollando in quella distesa di neve disseminata dai corpi di coloro che stremati si erano purtroppo lasciati andare precludendosi la strada del ritorno a “baita”. In quella distesa di neve il cui candore era ovunque sporcato dal sangue di coloro che erano stati sfortunatamente colpiti e che mai avrebbero potuto rivedere i loro cari.
Una mano sul cuore se la metteva quando sparavano i cannoni, quando le pallottole fischiavano nell’aria e via via volti noti scomparivano dalla sua vista. Ma quei visi con i ricordi della condivisione di alcuni momenti, di alcune esperienze e di molte sofferenze sono rimasti nella sua mente lasciando un segno indelebile. I suoi racconti, che noi familiari frequentemente interrompevamo perché troppo impregnati di inaudite e scioccanti violenze, avevano la capacità di tenerci per notti e notti con gli occhi sbarrati.
Con il passare del tempo il rifiuto di tanta inspiegabile disumanità portò il papà a sostituire la rabbia e le lacrime con un’apparente freddezza frutto di una difficile e complessa elaborazione interiore che gli aveva permesso di rendere non certo accettabile ma sicuramente meno pesante quell’ingombrante fardello.
Una mano sul cuore se la mise quando, ormai certo di poter riabbracciare i suoi familiari e di aver finalmente riconquistato la libertà, fu catturato al Brennero dai tedeschi perché rifiutatosi, come molti altri, di continuare a combattere nelle file del loro esercito e fu internato, per circa due anni, nel campo STALAG 1-B nella Prussia orientale. Un lager in cui non furono riconosciute neppure le garanzie delle Convenzioni di Ginevra, in cui non poté godere delle tutele spettanti della Croce Rossa e in cui dovette subire ripetutamente angherie e ritorsioni da parte dei tedeschi.
Una mano sul cuore se la metteva quando, dopo lunghe giornate di lavoro dimagrito pieno di pidocchi e stanco, riceveva come unico alimento un po’di brodaglia con una pagnotta da dividere con sei compagni (praticamente poco più di un boccone a testa). Privato anche della gavetta neppure tale brodaglia avrebbe avuto la possibilità di avere ma, fortunatamente, un amico gli donò il coperchio della sua. Il coperchio però poco brodo poteva contenere e il papà aveva cercato di aumentarne la profondità picchiettando con un sasso ripetutamente il fondo con molta attenzione per non forare il prezioso contenitore che contribuiva a garantirgli la sopravvivenza.
Ci si doveva ingegnare in tutti i modi per riuscire a restare in vita. Aveva imparato con rapidità il tedesco e ciò lo aveva risparmiato da alcune ingiustificate e assurde punizioni. In quel luogo dove regnava la disperazione una fortuna il papà l’ebbe! C’era un tedesco privo dell’arto inferiore, perso durante un combattimento, che ogni giorno arrivava all’interno del campo dalla sua abitazione, collocata a pochi chilometri dal lager, sul suo carretto trainato da un cavallo. Il papà, quando gli era possibile, si avvicinava al cavallo lo accarezzava, gli sussurrava nelle orecchie e l’animale lasciava fare a quell’Alpino che gli dimostrava tanta affettuosità.
Il tedesco da una finestra lo aveva più volte osservato ed un giorno decise di portarsi il papà a casa affinché si occupasse dell’animale, del fienile nel quale poteva dormire e di altre faccende che lui, a causa della sua menomazione, non era più in grado di svolgere. Gli ordini impartiti dal soldato e anche dalla moglie venivano eseguiti con diligenza dal papà che così si guadagnò la loro fiducia tanto che gli fu concesso di trasferirsi per dormire dal fienile all’interno dell’abitazione in una cameretta e gli fu fornito anche cibo a sufficienza.
Ma la pacchia, se così si può definire una tale situazione, durò solo circa un mese e poi il tedesco fu costretto a riportare il papà all’interno del lager. Prima di partire la moglie gli mise all’interno di una scatola del cibo, ma arrivato nel campo fu preso a calci dai tedeschi e fu fatto cadere a terra e a terra finì tutto quel bendidio. Tutte quelle leccornie gli furono sequestrate e a lui rimase solo il segno delle percosse ricevute e null’altro.
Il papà aveva imparato così bene il tedesco che spesso a casa dal terrazzo quando vedeva passare per strada turisti, il cui abbigliamento e aspetto fisico lo inducevano a pensare fossero tedeschi, lo sentivi porre il solito quesito: “Sprechen deutsch?”. E quando la risposta era: “Ja” la lingua gli si scioglieva come non mai. Si aprivano dialoghi intercalati da spassose risate che si concludevano, talvolta, addirittura con una foto ricordo che gli veniva successivamente fatta pervenire.
Quale fosse il contenuto di tali conversazioni non ho mai avuto modo di comprendere però sentendolo così spigliato e così in grado di catturare l’attenzione dell’interlocutore riusciva sempre a strapparmi un grande sorriso. Tornato a casa aveva tolto quell’immagine a lui tanto cara dalla divisa e l’aveva riposta in quel portafotografie (che io non conoscendo tutta la storia che dietro si celava avrei voluto buttare nella spazzatura) e ogni sera prima di coricarsi alla Madonna si rivolgeva e una preghiera recitava non più posando la mano sul cuore perché Colei che lo aveva salvato era ora davanti ai suoi occhi e non era più custodita nel taschino della giacca che in molti non avrebbero mai voluto indossare e che per molti è stata l’ultimo abito della loro esistenza conclusasi tragicamente.
Per non dimenticare!
Nella valigia dei ricordi del papà (Fusi Attilio classe 1921 Alpino 6° Reggimento, Divisione Tridentina) ho trovato tra foto, lettere, piastrina del lager, libri con dediche, anche un’immagine della Madonna dell’Aiuto e la mente è subito tornata ad un giorno di molti anni fa quando entrai nella sua camera per portargli una limonata. Era a letto per una terribile intossicazione da funghi, ne era ghiotto e quella volta aveva veramente esagerato. Nell’attesa che terminasse di sorseggiare la calda bevanda mi sedetti su una sedia e il mio sguardo si posò su un brutto portafotografie, posto sul comodino, sbeccato e danneggiato dal tempo e con all’interno un’immagine della Madonna altrettanto rovinata e sbiadita. Era lì da sempre quel portafotografie e molte volte avevo avuto la tentazione di buttarlo ma non lo avevo mai fatto perché mi ero proposta di ottenere, prima di agire, il consenso del papà onde evitare inutili arrabbiature.
Fu proprio in quel momento che gli chiesi se potevo sostituirlo con uno nuovo, la risposta fu categorica: “Guai a te se lo tocchi!”. Ed iniziò il suo racconto. Quando partì per la guerra nel taschino della divisa inserì l’immagine della Madonna dell’Aiuto e lì sul lato del cuore la lasciò fino al suo ritorno a “baita”. Per paura che si sgualcisse e si raggrinzasse l’aveva attaccata, in qualche modo, ad un bel pezzo di lamiera. Durante le operazioni belliche della Campagna di Russia fu raggiunto da una scheggia che avrebbe potuto porre fine alla sua vita ma riuscì miracolosamente a cavarsela grazie a quell’immagine con la lamiera che gli fece da scudo e che porta infatti al centro il segno di quel frammento. Nella convinzione di essere stato salvato proprio da quella Madonna infinite volte a Lei rivolse una preghiera, nei tanti momenti difficili e drammatici, posando una mano sul cuore.
Una mano sul cuore se la metteva quando nel freddo e nel gelo della Russia, non adeguatamente coperto come ubriaco fra tanti ubriachi sfiniti e in preda a terribili morse di fame, avanzava barcollando in quella distesa di neve disseminata dai corpi di coloro che stremati si erano purtroppo lasciati andare precludendosi la strada del ritorno a “baita”. In quella distesa di neve il cui candore era ovunque sporcato dal sangue di coloro che erano stati sfortunatamente colpiti e che mai avrebbero potuto rivedere i loro cari.
Una mano sul cuore se la metteva quando sparavano i cannoni, quando le pallottole fischiavano nell’aria e via via volti noti scomparivano dalla sua vista. Ma quei visi con i ricordi della condivisione di alcuni momenti, di alcune esperienze e di molte sofferenze sono rimasti nella sua mente lasciando un segno indelebile. I suoi racconti, che noi familiari frequentemente interrompevamo perché troppo impregnati di inaudite e scioccanti violenze, avevano la capacità di tenerci per notti e notti con gli occhi sbarrati.
Con il passare del tempo il rifiuto di tanta inspiegabile disumanità portò il papà a sostituire la rabbia e le lacrime con un’apparente freddezza frutto di una difficile e complessa elaborazione interiore che gli aveva permesso di rendere non certo accettabile ma sicuramente meno pesante quell’ingombrante fardello.
Una mano sul cuore se la mise quando, ormai certo di poter riabbracciare i suoi familiari e di aver finalmente riconquistato la libertà, fu catturato al Brennero dai tedeschi perché rifiutatosi, come molti altri, di continuare a combattere nelle file del loro esercito e fu internato, per circa due anni, nel campo STALAG 1-B nella Prussia orientale. Un lager in cui non furono riconosciute neppure le garanzie delle Convenzioni di Ginevra, in cui non poté godere delle tutele spettanti della Croce Rossa e in cui dovette subire ripetutamente angherie e ritorsioni da parte dei tedeschi.
Una mano sul cuore se la metteva quando, dopo lunghe giornate di lavoro dimagrito pieno di pidocchi e stanco, riceveva come unico alimento un po’di brodaglia con una pagnotta da dividere con sei compagni (praticamente poco più di un boccone a testa). Privato anche della gavetta neppure tale brodaglia avrebbe avuto la possibilità di avere ma, fortunatamente, un amico gli donò il coperchio della sua. Il coperchio però poco brodo poteva contenere e il papà aveva cercato di aumentarne la profondità picchiettando con un sasso ripetutamente il fondo con molta attenzione per non forare il prezioso contenitore che contribuiva a garantirgli la sopravvivenza.
Ci si doveva ingegnare in tutti i modi per riuscire a restare in vita. Aveva imparato con rapidità il tedesco e ciò lo aveva risparmiato da alcune ingiustificate e assurde punizioni. In quel luogo dove regnava la disperazione una fortuna il papà l’ebbe! C’era un tedesco privo dell’arto inferiore, perso durante un combattimento, che ogni giorno arrivava all’interno del campo dalla sua abitazione, collocata a pochi chilometri dal lager, sul suo carretto trainato da un cavallo. Il papà, quando gli era possibile, si avvicinava al cavallo lo accarezzava, gli sussurrava nelle orecchie e l’animale lasciava fare a quell’Alpino che gli dimostrava tanta affettuosità.
Il tedesco da una finestra lo aveva più volte osservato ed un giorno decise di portarsi il papà a casa affinché si occupasse dell’animale, del fienile nel quale poteva dormire e di altre faccende che lui, a causa della sua menomazione, non era più in grado di svolgere. Gli ordini impartiti dal soldato e anche dalla moglie venivano eseguiti con diligenza dal papà che così si guadagnò la loro fiducia tanto che gli fu concesso di trasferirsi per dormire dal fienile all’interno dell’abitazione in una cameretta e gli fu fornito anche cibo a sufficienza.
Ma la pacchia, se così si può definire una tale situazione, durò solo circa un mese e poi il tedesco fu costretto a riportare il papà all’interno del lager. Prima di partire la moglie gli mise all’interno di una scatola del cibo, ma arrivato nel campo fu preso a calci dai tedeschi e fu fatto cadere a terra e a terra finì tutto quel bendidio. Tutte quelle leccornie gli furono sequestrate e a lui rimase solo il segno delle percosse ricevute e null’altro.
Il papà aveva imparato così bene il tedesco che spesso a casa dal terrazzo quando vedeva passare per strada turisti, il cui abbigliamento e aspetto fisico lo inducevano a pensare fossero tedeschi, lo sentivi porre il solito quesito: “Sprechen deutsch?”. E quando la risposta era: “Ja” la lingua gli si scioglieva come non mai. Si aprivano dialoghi intercalati da spassose risate che si concludevano, talvolta, addirittura con una foto ricordo che gli veniva successivamente fatta pervenire.
Quale fosse il contenuto di tali conversazioni non ho mai avuto modo di comprendere però sentendolo così spigliato e così in grado di catturare l’attenzione dell’interlocutore riusciva sempre a strapparmi un grande sorriso. Tornato a casa aveva tolto quell’immagine a lui tanto cara dalla divisa e l’aveva riposta in quel portafotografie (che io non conoscendo tutta la storia che dietro si celava avrei voluto buttare nella spazzatura) e ogni sera prima di coricarsi alla Madonna si rivolgeva e una preghiera recitava non più posando la mano sul cuore perché Colei che lo aveva salvato era ora davanti ai suoi occhi e non era più custodita nel taschino della giacca che in molti non avrebbero mai voluto indossare e che per molti è stata l’ultimo abito della loro esistenza conclusasi tragicamente.
martedì 23 marzo 2021
L'ARMIR nella II battaglia del Don, parte 14
L'8 Armata italiana nella seconda battaglia difensiva del Don (11 dicembre 1942 - 31 gennaio 1943), quattordicesima parte.
VISIONE VICINA DEL RIPIEGAMENTO. Sin qui la visione panoramica che si ha della battaglia dall'alto di un virtuale osservatorio militare. Scendiamo, ora, al piano e guardiamo da vicino lo sterminato campo della tragica vicenda durante il ripiegamento. La steppa si presenta sotto l'aspetto più triste di desolazione e di morte. La temperatura tra i 35° ed i 40° sotto zero. Frammista a reparti, che pur mantengono una certa consistenza organica, una immensa fiumana di militari di tutte le armi e corpi, estenuata dal freddo e dalla fame procede verso ovest e verso sud-ovest attraverso campi, boschi coperti di neve, su strade ingorgate da carreggio, slitte, automezzi; premuta, attaccata, accerchiata, frazionata e deviata da carri armati, da elementi motorizzati, da cavalieri nemici. Sono uomini al limite di ogni umana resistenza, che una miracolosa forza sostiene e camminano, camminano come automi in colonne che sempre più si assottigliano avendo tre nemici mortali da combattere: il carro armato, il partigiano, il freddo. Contro i primi due, i più animosi si battono; di fronte al terzo, i più deboli soccombono.
Nella notte gelida, resa più tormentosa dall'implacabile bufera di neve molti cadono stremati di forze, si rialzano, fanno ancora pochi passi poi si fermano. Alcuni sono raccolti, altri si inginocchiano, pregano poi reclinano la testa: non occorre più raccoglierli. Suicidi e casi di pazzia completano il triste quadro. Le slitte sono stracariche di feriti e congelati, i quadrupedi si abbattono vinti dalla fatica; alpini, fanti, artiglieri si sostituiscono ad essi nel traino, ma ogni tanto qualche slitta deve fermarsi per non più muovere. E la fiumana si assottiglia, ma pur sempre imponente, procede nella sua marcia, inondando i villaggi dove le isbe rigurgitano di militari. Italiani, tedeschi, ungheresi, romeni si contendono a mano armata un posto al coperto per riposare e scaldarsi. Non di rado, nel trambusto violento, l'isba si incendia carbonizzando quelli che vi hanno cercato rifugio, impossibilitati ormai dall'intasamento a mettersi in salvo.
Man mano che si allontanano dalla pressione nemica i soldati perdono ogni parvenza militare. Molti si liberano delle armi, delle munizioni, delle bombe a mano per rendere meno faticosa la marcia. E qualche bomba esplode al passaggio di questo formicolaio umano: quasi non bastasse, nuove vittime vanno ad aggiungersi a quelle prodotte dal nemico, dal freddo, dall'esaurimento. Copricapi, giubbe della popolazione ucraina sostituiscono le uniformi lacere; stivaloni di feltro prendono il posto di scarpe a brandelli. Nelle soste, altri soldati, liberatisi dalla prigionia, senza cappotti, senza giubbe, e non pochi senza scarpe, tolto loro dal nemico per impedirne la fuga, con i piedi fasciati di paglia, raggiungono la marea umana e con essa tentano di proseguire la marcia. Passano così di casa in casa, di villaggio in villaggio ove la popolazione ucraina - per pietà, simpatia o per ordine ricevuto dalle autorità russe - è sollecita nell'alleviar sofferenze, offre da mangiare, vestire e possibilità di riposo.
In questo ambiente, che prevale nel quadro generale del grande rovescio militare nel quale fu travolta anche l'8a Armata italiana, ai reparti meno provati o ancora in pugno a comandanti energici toccò il duro compito di sostenere aspri combattimenti per aprire successivi varchi nei continui sbarramenti avversari, che i russi, informati dall'aviazione della direzione di marcia delle colonne e ben sapendo che le condizioni climatologiche imponevano di trascorrere la notte in paesi, si avvalevano di reparti motorizzati per precederle nell'occupazione degli abitati; ivi imponevano il combattimento mentre altre forze le attaccavano, più spesso sui fianchi che in coda, per spezzarle in tronconi che venivano poi sopraffatti o per lo meno scompaginati. Seguiamo le vicissitudini di un reparto come sono narrate in un rapporto: tutti si somigliano un po', quanto meno nel tormento.
«La colonna riprende la marcia. Dopo breve cammino l'avversario ci accoglie col fuoco di armi automatiche. La 2a e la 3a cp. si spiegano rapidamente e vanno decise all'attacco; i russi cedono terreno; ma appaiono presto i primi carri armati. in principio due carri leggeri che velocemente risalgono la rotabile in senso inverso al nostro movimento. I pezzi delle cp. cannoni prendono posizione sul lato sinistro della strada ed aprono il fuoco. Battoni i carri a brevissima distanza: li centrano, dalla torretta di essi si sprigiona, improvvisa e violenta, una fiammata che, simile ad una torcia, arderà a lungo illuminando di rossi bagliori fanti e cannonieri. La 2a e la 3a cp. guadagnano intanto terreno sebbene il crepitare delle mitragliatrici russe si vada facendo sempre più fitto e rabbioso. Nella notte buia la linea tenuta dal nemico è facilmente individuabile: le fiammelle delle sue armi ne punteggiano lo sviluppo; è evidente il tentativo di circondarci... Ben presto entrano in azione nuovi carri e questa volta si tratta di macchine imponenti per mole e armate di più mitragliatrici e provviste di cannone. A notevole velocità esse percorrono in su e in giù le strade e le piste provenienti da sud e mitragliano e cannoneggiano.
«La cp. cannoni, che ha seguito il movimento delle cp. fucilieri, prodiga il suo tiro. Si vedono i proiettili dei nostri 47/32 cogliere la corazzatura dei carri e rimbalzare arroventati in alto, verso il cielo, simili a razzi. Due carri vengono tuttavia immobilizzati, ma continuano a fare fuoco con le armi di bordo... La comparsa dei carri pesanti segna un momento d'arresto nell'azione; i nostri avanzano, ma sempre più penosamente e sempre più lentamente. Gli elementi di fanteria russa cedono terreno sfruttando abilmente ogni casa e ogni ostacolo per sbarrarci il cammino; il tempo passa veloce e lo slancio dei fanti tende ad appesantirsi; i cannonieri sono scorati; capi pezzi e puntatori si mordono le mani e piangono di fronte all'inutilità del loro fuoco. Ad aggravare la situazione ben presto la nostra prima linea urta contro una serie di carri pesanti fermi, appostati presso le case che falciano col tiro delle loro armi le nostre file: sono veri fortini contro i quali le armi di fanteria nulla valgono; tra carro e carro le mitragliatrici russe sgranano i loro colpi; di tratto in tratto, improvvisamente, un carro irrompe lungo la strada e le piste.
«A rendere la scena ancora più impressionante i carri con pallottole incendiarie appiccano metodicamente il fuoco ai tetti di paglia deve isbe, gli incendi illuminano a giorno il teatro del combattimento; ogni movimento dei nostri è visto e provoca violenta reazione di fuoco... I feriti, i caduti sono molti. Il combattimento tende a stabilizzarsi a tutto nostro danno. Sono manifesti i segni di scoramento e di sgomento. Le prime luci dell'alba stentatamente si fanno strada fra il fiammeggiare degli incendi che materializzano come torce giganti il cerchio che ci stringe da ogni parte. Se ogni ulteriore indugio può essere fatale un disperato tentativo di rompere la cerchia del nemico ha possibilità di riuscita? L'incertezza dura poco. All'ultimo "Avanti" il combattimento si riaccende violento; i russi sparano dalle case, dai carri e da ogni anfrattuosità del terreno; davanti a sui nostri fianchi crepitano le mitragliatrici, le pallottole frustano l'aria in ogni senso; chi può dire quanto sia durata questa corsa in avanti sorretta solo dalla volontà di sfuggire al nemico?
«Finalmente ci troviamo al di là dello schieramento avversario. Avanti il più rapidamente possibile verso sud-ovest evitando le strade. Si inizia, così, il nostro camminare alla bussola attraverso la steppa, fuori strada, sulla neve che talvolta ci sommerge fino al ginocchio, con temperature che oscillano fra 40° e 50° sotto zero, sorretti dalla disperata volontà di riprendere il nostro posto accanto ai nostri. Nevica e il vento gelido ci penetra fin nelle ossa. Siamo sfiniti, la sete che invano tentiamo sopire ingollando manciate di neve ci serra la gola! I più si muovono come automi ubbriachi, qualcuno si è buttato a terra supplicando di morire in pace. E' assolutamente indispensabile concedere qualche ora di riposo! ma dove? Nella steppa non c'è una casa, una pianta, un riparo pur che sia. Troviamo, infine, una balka piena di neve e ci sembra provvidenziale: se non altro saremo al riparo dal vento. All'"Alt", di schianto, gli uomini si buttano a terra nella neve e dormono; ma una vedetta veglia per tutti. La bufera che turbina sopra di noi, ci preservi da ogni sorpresa! E' la vigilia di Natale.
VISIONE VICINA DEL RIPIEGAMENTO. Sin qui la visione panoramica che si ha della battaglia dall'alto di un virtuale osservatorio militare. Scendiamo, ora, al piano e guardiamo da vicino lo sterminato campo della tragica vicenda durante il ripiegamento. La steppa si presenta sotto l'aspetto più triste di desolazione e di morte. La temperatura tra i 35° ed i 40° sotto zero. Frammista a reparti, che pur mantengono una certa consistenza organica, una immensa fiumana di militari di tutte le armi e corpi, estenuata dal freddo e dalla fame procede verso ovest e verso sud-ovest attraverso campi, boschi coperti di neve, su strade ingorgate da carreggio, slitte, automezzi; premuta, attaccata, accerchiata, frazionata e deviata da carri armati, da elementi motorizzati, da cavalieri nemici. Sono uomini al limite di ogni umana resistenza, che una miracolosa forza sostiene e camminano, camminano come automi in colonne che sempre più si assottigliano avendo tre nemici mortali da combattere: il carro armato, il partigiano, il freddo. Contro i primi due, i più animosi si battono; di fronte al terzo, i più deboli soccombono.
Nella notte gelida, resa più tormentosa dall'implacabile bufera di neve molti cadono stremati di forze, si rialzano, fanno ancora pochi passi poi si fermano. Alcuni sono raccolti, altri si inginocchiano, pregano poi reclinano la testa: non occorre più raccoglierli. Suicidi e casi di pazzia completano il triste quadro. Le slitte sono stracariche di feriti e congelati, i quadrupedi si abbattono vinti dalla fatica; alpini, fanti, artiglieri si sostituiscono ad essi nel traino, ma ogni tanto qualche slitta deve fermarsi per non più muovere. E la fiumana si assottiglia, ma pur sempre imponente, procede nella sua marcia, inondando i villaggi dove le isbe rigurgitano di militari. Italiani, tedeschi, ungheresi, romeni si contendono a mano armata un posto al coperto per riposare e scaldarsi. Non di rado, nel trambusto violento, l'isba si incendia carbonizzando quelli che vi hanno cercato rifugio, impossibilitati ormai dall'intasamento a mettersi in salvo.
Man mano che si allontanano dalla pressione nemica i soldati perdono ogni parvenza militare. Molti si liberano delle armi, delle munizioni, delle bombe a mano per rendere meno faticosa la marcia. E qualche bomba esplode al passaggio di questo formicolaio umano: quasi non bastasse, nuove vittime vanno ad aggiungersi a quelle prodotte dal nemico, dal freddo, dall'esaurimento. Copricapi, giubbe della popolazione ucraina sostituiscono le uniformi lacere; stivaloni di feltro prendono il posto di scarpe a brandelli. Nelle soste, altri soldati, liberatisi dalla prigionia, senza cappotti, senza giubbe, e non pochi senza scarpe, tolto loro dal nemico per impedirne la fuga, con i piedi fasciati di paglia, raggiungono la marea umana e con essa tentano di proseguire la marcia. Passano così di casa in casa, di villaggio in villaggio ove la popolazione ucraina - per pietà, simpatia o per ordine ricevuto dalle autorità russe - è sollecita nell'alleviar sofferenze, offre da mangiare, vestire e possibilità di riposo.
In questo ambiente, che prevale nel quadro generale del grande rovescio militare nel quale fu travolta anche l'8a Armata italiana, ai reparti meno provati o ancora in pugno a comandanti energici toccò il duro compito di sostenere aspri combattimenti per aprire successivi varchi nei continui sbarramenti avversari, che i russi, informati dall'aviazione della direzione di marcia delle colonne e ben sapendo che le condizioni climatologiche imponevano di trascorrere la notte in paesi, si avvalevano di reparti motorizzati per precederle nell'occupazione degli abitati; ivi imponevano il combattimento mentre altre forze le attaccavano, più spesso sui fianchi che in coda, per spezzarle in tronconi che venivano poi sopraffatti o per lo meno scompaginati. Seguiamo le vicissitudini di un reparto come sono narrate in un rapporto: tutti si somigliano un po', quanto meno nel tormento.
«La colonna riprende la marcia. Dopo breve cammino l'avversario ci accoglie col fuoco di armi automatiche. La 2a e la 3a cp. si spiegano rapidamente e vanno decise all'attacco; i russi cedono terreno; ma appaiono presto i primi carri armati. in principio due carri leggeri che velocemente risalgono la rotabile in senso inverso al nostro movimento. I pezzi delle cp. cannoni prendono posizione sul lato sinistro della strada ed aprono il fuoco. Battoni i carri a brevissima distanza: li centrano, dalla torretta di essi si sprigiona, improvvisa e violenta, una fiammata che, simile ad una torcia, arderà a lungo illuminando di rossi bagliori fanti e cannonieri. La 2a e la 3a cp. guadagnano intanto terreno sebbene il crepitare delle mitragliatrici russe si vada facendo sempre più fitto e rabbioso. Nella notte buia la linea tenuta dal nemico è facilmente individuabile: le fiammelle delle sue armi ne punteggiano lo sviluppo; è evidente il tentativo di circondarci... Ben presto entrano in azione nuovi carri e questa volta si tratta di macchine imponenti per mole e armate di più mitragliatrici e provviste di cannone. A notevole velocità esse percorrono in su e in giù le strade e le piste provenienti da sud e mitragliano e cannoneggiano.
«La cp. cannoni, che ha seguito il movimento delle cp. fucilieri, prodiga il suo tiro. Si vedono i proiettili dei nostri 47/32 cogliere la corazzatura dei carri e rimbalzare arroventati in alto, verso il cielo, simili a razzi. Due carri vengono tuttavia immobilizzati, ma continuano a fare fuoco con le armi di bordo... La comparsa dei carri pesanti segna un momento d'arresto nell'azione; i nostri avanzano, ma sempre più penosamente e sempre più lentamente. Gli elementi di fanteria russa cedono terreno sfruttando abilmente ogni casa e ogni ostacolo per sbarrarci il cammino; il tempo passa veloce e lo slancio dei fanti tende ad appesantirsi; i cannonieri sono scorati; capi pezzi e puntatori si mordono le mani e piangono di fronte all'inutilità del loro fuoco. Ad aggravare la situazione ben presto la nostra prima linea urta contro una serie di carri pesanti fermi, appostati presso le case che falciano col tiro delle loro armi le nostre file: sono veri fortini contro i quali le armi di fanteria nulla valgono; tra carro e carro le mitragliatrici russe sgranano i loro colpi; di tratto in tratto, improvvisamente, un carro irrompe lungo la strada e le piste.
«A rendere la scena ancora più impressionante i carri con pallottole incendiarie appiccano metodicamente il fuoco ai tetti di paglia deve isbe, gli incendi illuminano a giorno il teatro del combattimento; ogni movimento dei nostri è visto e provoca violenta reazione di fuoco... I feriti, i caduti sono molti. Il combattimento tende a stabilizzarsi a tutto nostro danno. Sono manifesti i segni di scoramento e di sgomento. Le prime luci dell'alba stentatamente si fanno strada fra il fiammeggiare degli incendi che materializzano come torce giganti il cerchio che ci stringe da ogni parte. Se ogni ulteriore indugio può essere fatale un disperato tentativo di rompere la cerchia del nemico ha possibilità di riuscita? L'incertezza dura poco. All'ultimo "Avanti" il combattimento si riaccende violento; i russi sparano dalle case, dai carri e da ogni anfrattuosità del terreno; davanti a sui nostri fianchi crepitano le mitragliatrici, le pallottole frustano l'aria in ogni senso; chi può dire quanto sia durata questa corsa in avanti sorretta solo dalla volontà di sfuggire al nemico?
«Finalmente ci troviamo al di là dello schieramento avversario. Avanti il più rapidamente possibile verso sud-ovest evitando le strade. Si inizia, così, il nostro camminare alla bussola attraverso la steppa, fuori strada, sulla neve che talvolta ci sommerge fino al ginocchio, con temperature che oscillano fra 40° e 50° sotto zero, sorretti dalla disperata volontà di riprendere il nostro posto accanto ai nostri. Nevica e il vento gelido ci penetra fin nelle ossa. Siamo sfiniti, la sete che invano tentiamo sopire ingollando manciate di neve ci serra la gola! I più si muovono come automi ubbriachi, qualcuno si è buttato a terra supplicando di morire in pace. E' assolutamente indispensabile concedere qualche ora di riposo! ma dove? Nella steppa non c'è una casa, una pianta, un riparo pur che sia. Troviamo, infine, una balka piena di neve e ci sembra provvidenziale: se non altro saremo al riparo dal vento. All'"Alt", di schianto, gli uomini si buttano a terra nella neve e dormono; ma una vedetta veglia per tutti. La bufera che turbina sopra di noi, ci preservi da ogni sorpresa! E' la vigilia di Natale.
lunedì 22 marzo 2021
Ricordi, parte 15
E poi ci sono i giorni come questi un cui passi delle ore a riguardarti le fotografie che hai scattato in Russia e ti manca tutto di quei giorni; non vedi l'ora che finisca tutto questo, anche per tornare e rivedere la steppa e la neve e poter camminare per ore nel silenzio più assoluto in un mondo che è scollegato a quello in cui sei abituato a vivere.
Onori a Enrico Righetti
Ricevo dal Signor Ferruccio Burlando un ricordo del fratello della nonna, disperso in Russia; Enrico Righetti era nato a Genova il 13 aprile 1922 ed era inquadrato nell'89° reggimento di fanteria, prima compagna del primo plotone, matricola 22765. Questa la sua ultima lettera a casa, datata 15 dicembre del 1942:
"Russia 15 Dicembre 1942 - XXI
Miei cari, non posso descrivervi il grande freddo che fa qui, é una cosa che ti prende il cuore e te lo schiaccia, vi prego di mandarmi presto presto un paio di scarponi e calze di lana pesante, ne ho bisogno perché costì senza si può morire, le mie vecchie scarpe si sono spaccate e al momento non posso chiederne di nuove perché "Loro" arrivano in continuazione... ma io ed i miei amici siamo determinati a tener duro e a non farli passare, però l'inverno combatte contro di noi. Ti prego Giorgia mandami gli scarponi e le calze di lana te ne supplico perché senza non posso resistere ancora per molto. Mammina ti abbraccio e ti mando un bacio prega per me perché possa tornare ad abbracciarti ancora.
Vostro Enrico".
Enrico verrà dichiarato disperso il giorno 17 dicembre 1942.
"Russia 15 Dicembre 1942 - XXI
Miei cari, non posso descrivervi il grande freddo che fa qui, é una cosa che ti prende il cuore e te lo schiaccia, vi prego di mandarmi presto presto un paio di scarponi e calze di lana pesante, ne ho bisogno perché costì senza si può morire, le mie vecchie scarpe si sono spaccate e al momento non posso chiederne di nuove perché "Loro" arrivano in continuazione... ma io ed i miei amici siamo determinati a tener duro e a non farli passare, però l'inverno combatte contro di noi. Ti prego Giorgia mandami gli scarponi e le calze di lana te ne supplico perché senza non posso resistere ancora per molto. Mammina ti abbraccio e ti mando un bacio prega per me perché possa tornare ad abbracciarti ancora.
Vostro Enrico".
Enrico verrà dichiarato disperso il giorno 17 dicembre 1942.
venerdì 19 marzo 2021
Caro Abbondio...
In questa pagina racconto storie di uomini, storie ormai lontane, storie di soldati inghiottiti in quel buco nero che fu la Campagna di Russia; ho sempre avuto un rispetto assoluto per chi ha vestito una divisa, da qualunque parte è stato; ma in particolare per i nostri soldati impegnati in Russia. Ricordarli mi fa sentire bene... Ma non ci sono solo loro in tutta questa storia, anzi. Ci sono anche le persone che li hanno visti partire, li hanno aspettati per mesi o anni e, purtroppo in tanti casi non li hanno visti tornare.
La mia famiglia, in questo senso, è stata fortunata; non è stata toccata da questa tragedia. Ma ho conosciuto diverse persone in questi anni che al contrario hanno vissuto sulla loro pelle tutto questo; volevo da tempo dare spazio anche a questo aspetto che nei diversi viaggi è sempre emerso parlando con le persone che venivano con me... perché tutto questo in qualche modo me lo hanno sempre trasmesso e me lo sento sempre addosso. Lascio pertanto la parola a chi saprà meglio di me raccontare questa parte della storia...
Raccontare la storia della mia famiglia senza la presenza di Abbondio è come aver vissuto la nostra vita a metà, incompleta di gesti, di parole e di affetto. Oggi che in famiglia rimango solo io a testimoniare cosa significhi vivere con “un disperso” vi posso dire che non è un morto qualsiasi ma un’anima che non ha mai trovato pace tra i nostri pensieri nonostante il tempo ci abbia sedotto con il pensiero della morte come unico sollievo. Mi chiamo Silvia Ostinelli e sono la nipote di Abbondio Ostinelli, alpino comasco della Tridentina inquadrato nel glorioso Battaglione Morbegno e dato disperso il 26 gennaio 1943. Da quella data mia nonna vedova con tre figli sulle spalle cominciò a cercare notizie del figlio scomparso nonostante le difficoltà di quel momento.
La storia...
Nel dicembre 1941 mia nonno muore. Lo zio di stanza a Merano fa ritorno a casa per i funerali del padre. E’ l’ultima volta che vedrà la famiglia e la sua terra. Mio padre mi raccontò anni fa alcuni aneddoti di quel momento:
“Abbondio prima di ritornare in caserma, volle che lo accompagnassi sulle nostre montagne, quelle che si affacciano sul lago come faceva spesso quando era a casa. Mi disse: 'Questa terra sarà per me motivo di forza e speranza in Russia'.
Il 22 luglio 43 partì da Avigliana con il 5° Alpini per raggiungere le zone di guerra in Russia lasciando l’Italia per sempre senza voler rivedere nessuno di noi. - Il distacco sarebbe troppo doloroso per te cara mamma ed io non lo sopporterei- scrisse in una lettera.
Per i primi mesi e fino alla fine del 1942 arrivarono a casa le sue lettere in cui non si dilungava troppo nel raccontarci particolari ma ci rassicurava e ci spiegava che tutto il Battaglione Morbegno era sul Don aspettando che venisse buona. Dal gennaio del 1943 cessarono di arrivare notizie. Mia madre preoccupata non smise mai di sperare anche contro ogni evidenza di vederlo tornare e nella vecchiaia sperò con tutte le sue forze che di quel figlio tornassero almeno i resti o una parte di essi per poter sfogare il suo dolore su qualcosa. Credo che la cosa peggiore per lei fosse proprio questa: non avere una tomba su cui piangere il figlio.
Ricordo che per tanti anni continuò a recarsi a Como all’Associazione dei Dispersi per cercare di trovare almeno qualche indizio anche minimo che potesse far luce sulla sua fine. Già la sua fine… Ormai era chiaro che nostro fratello era morto ma poter ripercorrere i suoi ultimi giorni, anche sommariamente, sarebbe stato un sollievo per lei, un modo di essergli vicino ancora.”
Anche i fratelli risentirono in modo profondo la perdita di Abbondio. Il loro legame si era indebolito, qualcosa si era spezzato inesorabilmente, si erano persi tra di loro quando avevano udito circa la possibile fine del fratello, ossia la prigionia. Difficile da far capire a chi non ha provato sulla pelle i resoconti di guerra e di prigionia subiti da un figlio o fratello. Se non trovi una valida motivazione che giustifichi la fine, è facile perdere la testa. Ecco che allora la sua morte diventa il sacrificio, un simbolo che da valore a tutto il tormento con il quale abbiamo convissuto da sempre.
Mia nonna si spense con gli anni, la sua mente non accettava più la realtà, e lentamente perse la memoria per il troppo dolore, la perse per il quotidiano vivere ma non per Abbondio. In qualche modo aveva trovato la maniera per convivere con il suo ricordo. Per tutti gli anni che rimase viva scrisse ovunque per raccogliere informazioni sulla sorte dello zio ma tra tutte le lettere me ne resta in testa una in particolare che mandò al Comando Raccolta prigionieri italiani a Odessa che mi ha colpito per la gentilezza delle parole usate per descrivere un atroce dolore. Ne riporto uno stralcio.
“Spettabile Comando, oso presentarmi a Voi come una madre piena di ansia e di affetto verso il proprio figlio con questa mia supplica che chiede di dare al cuore di questa madre qualche vostro cenno di risposta…. Di Mio figlio, Abbondio Ostinelli, già alpino del 5° rgt alpini, battaglione Morbegno, 45° compagnia, Tridentina non ho avuto più notizie dal gennaio 1943. Le ricerche intraprese sono state vane. Spero però nella vostra bontà nell’intraprenderne altre e nel darci comunicazioni, che portino a noi, parenti ansiosi, un poco di quella serenità perché sfiniti e angosciati. Mentre attendo vostre, spero e credo che attraverso la vostra gentilezza di cuore, possa anch’io un giorno sentire il nome del mio caro figlio sano e salvo in una terra grande e ospitale”...
Si dice che il dolore provato dai genitori si iscriva sul DNA dei figli come memoria perenne dei vissuti, tramandata attraverso le generazioni. Ecco io penso di aver ereditato questo dolore, quello di mia nonna in particolare perché averla vista disperata un’intera vita, ha condizionato la mia, rendendomi poi consapevole in età adulta di quello che sarebbe stato il mio destino: ripercorrere la storia dello zio, andare in Russia e capire quello che gli era successo. Insomma ho sempre voluto dare una risposta alla nonna. E l’ho fatto, insieme a quel desiderio delirante e perenne di riportare a casa lo zio.
Quando torno a Como passando per l’autostrada laghi, godo sempre dello spettacolo straordinario che ogni volta la mia terra mi propone, il lago con le sue montagne e io lo ammiro con gli occhi dello zio, con il suo stesso stupore e la gioia che avrebbe avuto nel ritornare a casa. Per me vuol dire sentirlo accanto.
Abbondio, muore molto probabilmente in un lager del Pahta Aral nel odierno Kazakhstan come tanti altri suoi commilitoni. Ogni volta che lo immagino morente in piena solitudine pensando a noi, riesco a vedere i suoi occhi. E simbolicamente mi sdraio vicino a lui e gli tengo la mano. Lui non è morto ma vive attraverso di me.
Silvia Ostinelli
Como
La mia famiglia, in questo senso, è stata fortunata; non è stata toccata da questa tragedia. Ma ho conosciuto diverse persone in questi anni che al contrario hanno vissuto sulla loro pelle tutto questo; volevo da tempo dare spazio anche a questo aspetto che nei diversi viaggi è sempre emerso parlando con le persone che venivano con me... perché tutto questo in qualche modo me lo hanno sempre trasmesso e me lo sento sempre addosso. Lascio pertanto la parola a chi saprà meglio di me raccontare questa parte della storia...
Raccontare la storia della mia famiglia senza la presenza di Abbondio è come aver vissuto la nostra vita a metà, incompleta di gesti, di parole e di affetto. Oggi che in famiglia rimango solo io a testimoniare cosa significhi vivere con “un disperso” vi posso dire che non è un morto qualsiasi ma un’anima che non ha mai trovato pace tra i nostri pensieri nonostante il tempo ci abbia sedotto con il pensiero della morte come unico sollievo. Mi chiamo Silvia Ostinelli e sono la nipote di Abbondio Ostinelli, alpino comasco della Tridentina inquadrato nel glorioso Battaglione Morbegno e dato disperso il 26 gennaio 1943. Da quella data mia nonna vedova con tre figli sulle spalle cominciò a cercare notizie del figlio scomparso nonostante le difficoltà di quel momento.
La storia...
Nel dicembre 1941 mia nonno muore. Lo zio di stanza a Merano fa ritorno a casa per i funerali del padre. E’ l’ultima volta che vedrà la famiglia e la sua terra. Mio padre mi raccontò anni fa alcuni aneddoti di quel momento:
“Abbondio prima di ritornare in caserma, volle che lo accompagnassi sulle nostre montagne, quelle che si affacciano sul lago come faceva spesso quando era a casa. Mi disse: 'Questa terra sarà per me motivo di forza e speranza in Russia'.
Il 22 luglio 43 partì da Avigliana con il 5° Alpini per raggiungere le zone di guerra in Russia lasciando l’Italia per sempre senza voler rivedere nessuno di noi. - Il distacco sarebbe troppo doloroso per te cara mamma ed io non lo sopporterei- scrisse in una lettera.
Per i primi mesi e fino alla fine del 1942 arrivarono a casa le sue lettere in cui non si dilungava troppo nel raccontarci particolari ma ci rassicurava e ci spiegava che tutto il Battaglione Morbegno era sul Don aspettando che venisse buona. Dal gennaio del 1943 cessarono di arrivare notizie. Mia madre preoccupata non smise mai di sperare anche contro ogni evidenza di vederlo tornare e nella vecchiaia sperò con tutte le sue forze che di quel figlio tornassero almeno i resti o una parte di essi per poter sfogare il suo dolore su qualcosa. Credo che la cosa peggiore per lei fosse proprio questa: non avere una tomba su cui piangere il figlio.
Ricordo che per tanti anni continuò a recarsi a Como all’Associazione dei Dispersi per cercare di trovare almeno qualche indizio anche minimo che potesse far luce sulla sua fine. Già la sua fine… Ormai era chiaro che nostro fratello era morto ma poter ripercorrere i suoi ultimi giorni, anche sommariamente, sarebbe stato un sollievo per lei, un modo di essergli vicino ancora.”
Anche i fratelli risentirono in modo profondo la perdita di Abbondio. Il loro legame si era indebolito, qualcosa si era spezzato inesorabilmente, si erano persi tra di loro quando avevano udito circa la possibile fine del fratello, ossia la prigionia. Difficile da far capire a chi non ha provato sulla pelle i resoconti di guerra e di prigionia subiti da un figlio o fratello. Se non trovi una valida motivazione che giustifichi la fine, è facile perdere la testa. Ecco che allora la sua morte diventa il sacrificio, un simbolo che da valore a tutto il tormento con il quale abbiamo convissuto da sempre.
Mia nonna si spense con gli anni, la sua mente non accettava più la realtà, e lentamente perse la memoria per il troppo dolore, la perse per il quotidiano vivere ma non per Abbondio. In qualche modo aveva trovato la maniera per convivere con il suo ricordo. Per tutti gli anni che rimase viva scrisse ovunque per raccogliere informazioni sulla sorte dello zio ma tra tutte le lettere me ne resta in testa una in particolare che mandò al Comando Raccolta prigionieri italiani a Odessa che mi ha colpito per la gentilezza delle parole usate per descrivere un atroce dolore. Ne riporto uno stralcio.
“Spettabile Comando, oso presentarmi a Voi come una madre piena di ansia e di affetto verso il proprio figlio con questa mia supplica che chiede di dare al cuore di questa madre qualche vostro cenno di risposta…. Di Mio figlio, Abbondio Ostinelli, già alpino del 5° rgt alpini, battaglione Morbegno, 45° compagnia, Tridentina non ho avuto più notizie dal gennaio 1943. Le ricerche intraprese sono state vane. Spero però nella vostra bontà nell’intraprenderne altre e nel darci comunicazioni, che portino a noi, parenti ansiosi, un poco di quella serenità perché sfiniti e angosciati. Mentre attendo vostre, spero e credo che attraverso la vostra gentilezza di cuore, possa anch’io un giorno sentire il nome del mio caro figlio sano e salvo in una terra grande e ospitale”...
Si dice che il dolore provato dai genitori si iscriva sul DNA dei figli come memoria perenne dei vissuti, tramandata attraverso le generazioni. Ecco io penso di aver ereditato questo dolore, quello di mia nonna in particolare perché averla vista disperata un’intera vita, ha condizionato la mia, rendendomi poi consapevole in età adulta di quello che sarebbe stato il mio destino: ripercorrere la storia dello zio, andare in Russia e capire quello che gli era successo. Insomma ho sempre voluto dare una risposta alla nonna. E l’ho fatto, insieme a quel desiderio delirante e perenne di riportare a casa lo zio.
Quando torno a Como passando per l’autostrada laghi, godo sempre dello spettacolo straordinario che ogni volta la mia terra mi propone, il lago con le sue montagne e io lo ammiro con gli occhi dello zio, con il suo stesso stupore e la gioia che avrebbe avuto nel ritornare a casa. Per me vuol dire sentirlo accanto.
Abbondio, muore molto probabilmente in un lager del Pahta Aral nel odierno Kazakhstan come tanti altri suoi commilitoni. Ogni volta che lo immagino morente in piena solitudine pensando a noi, riesco a vedere i suoi occhi. E simbolicamente mi sdraio vicino a lui e gli tengo la mano. Lui non è morto ma vive attraverso di me.
Silvia Ostinelli
Como
giovedì 18 marzo 2021
La guerra sul fronte orientale, parte 1
Senza altra finalità se non quella della condivisione storica e militare, pubblico questo primo video sugli orrori della guerra in generale e sul fronte orientale in particolare.
L'ARMIR nella II battaglia del Don, parte 13
L'8 Armata italiana nella seconda battaglia difensiva del Don (11 dicembre 1942 - 31 gennaio 1943), tredicesima parte.
IL RIPIEGAMENTO DEL CORPO D'ARMATA ALPINO E DEI RESTI DEL XXIV CORPO D'ARMATA.
Sganciatosi sul Don dal contatto frontale col nemico il C.A. alpino - che è costretto ad abbandonare tutte le artiglierie di medio calibro per mancanza di carburante - muove dapprima su larga fronte verso la ferrovia Rossosch-Jewdakowo prima linea di attestamento fissata; successivamente prosegue con movimenti convergenti intesi a costituire colonne di G.U. e ad avvicinarle fra loro perché possano prestarsi reciproco appoggio nell'azione di rottura dell'accerchiamento già in atto. Il C.A. alpino avrebbe dovuto effettuare il ripiegamento in stretto accordo e contatto, a nord, con le truppe ungheresi; ma tale collegamento è reso, sin dall'inizio, impossibile a causa dell'avvenuto arretramento delle truppe suddette in parte travolte.
Alle dipendenze del C.A. alpino viene posto il pressoché inesistente XXIV C.A. Cr. germanico: le sue divisioni, 385a e 387a, sono infatti ridotte a brandelli; esso dispone in tutto di 4 carri d'assalto, 2 semoventi, qualche pezzo di artiglieria ed una btr. di Katiusche. Questi resti - pochi, ma tuttavia preziosi - si uniranno al C.A. alpino col quale lotteranno per aprirsi un varco attraverso le linee avversarie. Al C.A. alpino, a Podgoronje, si accoderanno anche i carriaggi delle due divisioni: innumerevoli slitte ed impedimenta attorno alle quali sono circa 10.000 soldati germanici che seguiranno le colonne in ripiegamento; ma trascurabile sarà l'apporto in combattimento di tale massa di uomini alla quale si unirà, pochi giorni dopo, altrettanta truppa disarmata ungherese proveniente, in parte, da colonne di prigionieri liberati.
Il 18 gennaio, la D. «Tridentina» e la «Vicenza» lasciano la linea del Don senza difficoltà. La «Julia» e la «Cuneense» invece devono sostenere azioni di retroguardia. Il giorno 19, hanno inizio da parte della D. «Tridentina» i primi combattimenti, a Postojalyi e Skororyo, per l'apertura di un varco. L'indomani tutte le unità attaccano le forze nemiche che si oppongono a Postojalyi al movimento e, dopo aspri combattimenti ed a prezzo di gravi sacrifici, riescono a superare lo sbarramento. L'intervento della «Julia» e l'apporto dato dai battaglioni e gruppi della «Cuneense» contribuiscono notevolmente alla salvezza della colonna principale del C.A. che, già duramente impegnata di fronte e sul fianco destro, avrebbe altrimenti dovuto sostenere l'attacco di ingenti forze russe anche sulla sinistra. Ma sia lo sviluppo delle nostre azioni, che un attacco nemico con mezzi corazzati provenienti dal fronte ungherese nella zona di Opit (sede dei comandi di C.A. alpino e XXIV), che riesce fra l'altro a distruggere tutte le stazioni radio, portano al frazionamento delle forze del C.A. non più collegate fra di loro. Restano: - a nord: i comandi del C.A. alpino e del XXIV e la D. «Tridentina»; - a sud: le divisioni «Julia», «Cuneense» e «Vicenza» ed un'aliquota del XXIV C.A.
Il 21, con tempo avverso, freddo e tormenta, la colonna prosegue nel movimento da N. Charkowka su Krawzowka, che viene occupata dopo violento combattimento, e quindi, per Scheljakino, su Ladomirowka. Il nemico ha, però, disposto un secondo sbarramento fortemente presidiato sulla linea Olichowatka-Warwarowka, tendente a chiudere definitivamente le unità superstiti. La D. «Tridentina» deve, il 22, combattere aspramente a Scheljakino per aprire la strada a sè ed alla colonna sud che avrebbe dovuto seguirla nella breccia, ma di cui il C.A. non ha più notizie. In serata è raggiunta Ladomirowka dove affluiscono elementi sparsi delle divisioni «Julia», «Cuneense», «Vicenza». Alla sera del 22, tutti gli elementi superstiti del C.A. sono così incolonnati sullo stesso itinerario della «Tridentina». Le autorità tedesche affermano che le unità vengono aviorifornite. Sono riforniti, invero, solo i tedeschi che difendono i viveri armi alla mano. Il 23, il movimento prosegue su Nikolajewka dove la colonna sostiene un combattimento contro partigiani e regolari. L'indomani, superata altra resistenza a Malakijewa, la colonna prosegue in direzione di Nikitowka che raggiunge il 25.
In tale zona l'avversario ha predisposto una terza linea di sbarramento, sicché alle ore 2 del 26 la testa della colonna viene attaccata da notevoli forze (un btg. di ftr. anticarro con numerose armi automatiche) allo sbocco dell'abitato. Il nemico è respinto e lo sbarramento superato. Vengono catturati nell'azione numerosi mortai ed armi automatiche nonché 4 cannoni che gli alpini successivamente sono costretti ad abbandonare per l'impossibilità di trasporto. Lo stesso giorno, alle ore 12, ha inizio l'attacco contro Nikolajewka (da non confondersi con l'altra località dello stesso nome sopramenzionata) difesa da rilevanti forze (successivamente accertate in una divisione) appoggiate da numerose artiglierie e dall'aviazione, Nell'azione, che dura sino all'imbrunire, viene impegnata ogni risorsa per superare la resistenza. L'attacco sferrato, col concorso di carri d'assalto tedeschi, su uno dei quali prende posto il comandante della D. «Tridentina», ottiene un primo risultato con l'azione del 6° rgt.: la ferrovia è superata; sopraggiungono i reparti del 5°. Ufficiali validi di tutte le armi e specialità riuniscono gli elementi non inquadrati ancora in grado di combattere, li raccolgono in formazioni improvvisate e tutti, uniti in un supremo sforzo, rompono lo sbarramento: la città viene occupata. Catturati e distrutti 24 pezzi di m. c. nonché munizioni di mortai. Dolorose le perdite fra le quali sono oltre 40 ufficiali. Fra i caduti è il generale Martinat, capo di S.M. del C.A.
Sopraffatto il nemico a Nikolaiewka, si riprende la marcia ed il 27, con estenuante fatica, viene raggiunta Uspenka. Il 28 poiché la D. ungherese che doveva difendere Nowij Oskol è stata costretta a ripiegare, il comando Armata ordina che la colonna dirotti da Olchowyi in direzione di Woltschansk, in modo da sottrarla alla minaccia da nord, e provvede a far affluire autocolonne di rifornimenti verso tale località. La colonna giunge, quasi stremata, in giornata nella zona di Slonowka. E' durante questa marcia, quando ormai la meta si può dire raggiunta, che si debbono far saltare i pezzi per l'impossibilità di continuarne il trasporto. Il 29, ritardate e non chiare comunicazioni radio germaniche fanno si che la colonna, anziché dirigersi verso sud-ovest, si metta in marcia su Morosowa Balka. A mezzo apparecchio «cicogna» viene dirottata su Bolsche Troizkoje ove, il 30, incontra, finalmente, la colonna viveri e quella sanitaria. Qui si fermano gli italiani e vengono fatti proseguire tedeschi e ungheresi. Il giorno successivo i resti del C.A. alpino si raccolgono a Schebekino dove finalmente, possono essere ristorati, dopo un percorso di circa 350 chilometri e dopo aver sostenuto 13 combattimenti.
A Schebekino sostano tre giorni. Durante la sosta vengono sgomberati su Charckow 7571 tra feriti e congelati. Con la colonna sono sfuggiti all'accerchiamento oltre ai feriti ed ai congelati spedalizzati; 6.500 uomini della «Tridentina», 3.300 della «Julia», 1.600 della «Cuneense», 1.300 della «Vicenza», 880 del C.A. e suoi servizi, 8.000-9.000 tedeschi, 6.000-7.000 ungheresi. Gli alpini nel loro sforzo furono sorretti dalla volontà di uscire dalla cerchia ad ogni costo. Epperò i loro attacchi furono tenaci, i feriti seguirono la colonna senza un lamento e i congelati camminarono sempre. Non diversa, forse più tragica, fu la sorte dei piccoli reparti sparsi nelle impervie zone di retrovia del Corpo d'armata e dei presidi minori che, privi di comunicazioni, furono sorpresi dalla rapida avanzata russa. Sono altri 6.000 elementi che, guidati talvolta da ufficiali, talvolta da sottufficiali, affrontando disagi, pericoli e tormenti fisici e morali, seppero passare attraverso gli sbarramenti avversari.
Ad eccezione delle notizie frammentarie date da soldati ed ufficiali che hanno potuto ripiegare, nulla finora è possibile dire circa le vicende complessive delle divisioni «Julia», «Cuneense» e «Vicenza»: tutti parlano di duri combattimenti specie di carri armati. Sono fra i prigionieri i comandanti delle tre divisioni (la D. «Julia» i cui resti il 22 erano in zona Scheljakino pare che a tale data sia da ritenersi annientata. La notte sul 23, fra Scheljakino e Warwarowka è stato catturato il comandante. L'itinerario Scheljakino-Warwarowka è stato seguito anche dai resti delle divisioni «Vicenza» e «Cuneense». Elementi della «Vicenza» affiancati a reparti tedeschi si sarebbero diretti verso ovest il 24 con meta Waluiki. Non se ne avranno più notizie. La «Cuneense», duramente provata e scompaginata nell'attraversamento di Scheljakino e Warwarowka, accorsa al richiamo del cannone su Malakijewa (24 gennaio). Durante la sosta notturna in Derkupskaja sarebbe stata circondata da ingenti forze corazzate russe).
I COMBATTIMENTI NELLE VALLI DEL DERKUL, DELL'AJDAR E DEL KRASSNOJE.
Nel settore meridionale dell'Armata dal 16 al 31 gennaio, con forze tedesche affluenti da tergo, viene contenuto l'avversario che, raggiunta la zona di Waluiki, tende a procedere verso nord-ovest, ovest e sud-ovest. In questo periodo, sino a quando il comando Armata ha assolto compiti operativi (31 gennaio), hanno agito sull'ala meridionale dell'Armata alcuni reparti italiani con particolari compiti, che si inquadrano in quello più vasto della protezione della direttrice di Charkow. In particolare: - a Belowodsk (valle Derkul): il XXVI btg. CC.RR. ed elementi minori, per la difesa di tale importante località che sbarra la via su Starobolosk; - a Starobolosk (valle Aidar): il XXVII gr. art. compl., un gruppo del 4° contraerei, il XXVI btg. artieri, il rep. speciale art., una cp. del 450° btg. TM, una cp. lavoratori, una cp. genio guastatori, una cp. idrici, una cp. artieri ed elementi minori, per la difesa della città e la protezione della ferrovia; - a Kupjansk (settore Krassnoje): il XXVI btg. CC.RR., un btg. bers. di formazione, il XXXV gr. ost. c. a. ed elementi minori, per lo sbarramento della rotabile Waluiki-Kupjansk e la difesa della città.
Alle ore o del I° febbraio, non essendovi ormai più in linea truppe italiane, l'autorità superiore germanica stabilisce che l'Armata ceda il comando del settore al gruppo Lanz e raggiunga la zona di riordinamento delle proprie truppe (nord-est di Kiew) per regolarne più da vicino i movimenti in corso ed i provvedimenti relativi al riordinamento.
IL RIPIEGAMENTO DEL CORPO D'ARMATA ALPINO E DEI RESTI DEL XXIV CORPO D'ARMATA.
Sganciatosi sul Don dal contatto frontale col nemico il C.A. alpino - che è costretto ad abbandonare tutte le artiglierie di medio calibro per mancanza di carburante - muove dapprima su larga fronte verso la ferrovia Rossosch-Jewdakowo prima linea di attestamento fissata; successivamente prosegue con movimenti convergenti intesi a costituire colonne di G.U. e ad avvicinarle fra loro perché possano prestarsi reciproco appoggio nell'azione di rottura dell'accerchiamento già in atto. Il C.A. alpino avrebbe dovuto effettuare il ripiegamento in stretto accordo e contatto, a nord, con le truppe ungheresi; ma tale collegamento è reso, sin dall'inizio, impossibile a causa dell'avvenuto arretramento delle truppe suddette in parte travolte.
Alle dipendenze del C.A. alpino viene posto il pressoché inesistente XXIV C.A. Cr. germanico: le sue divisioni, 385a e 387a, sono infatti ridotte a brandelli; esso dispone in tutto di 4 carri d'assalto, 2 semoventi, qualche pezzo di artiglieria ed una btr. di Katiusche. Questi resti - pochi, ma tuttavia preziosi - si uniranno al C.A. alpino col quale lotteranno per aprirsi un varco attraverso le linee avversarie. Al C.A. alpino, a Podgoronje, si accoderanno anche i carriaggi delle due divisioni: innumerevoli slitte ed impedimenta attorno alle quali sono circa 10.000 soldati germanici che seguiranno le colonne in ripiegamento; ma trascurabile sarà l'apporto in combattimento di tale massa di uomini alla quale si unirà, pochi giorni dopo, altrettanta truppa disarmata ungherese proveniente, in parte, da colonne di prigionieri liberati.
Il 18 gennaio, la D. «Tridentina» e la «Vicenza» lasciano la linea del Don senza difficoltà. La «Julia» e la «Cuneense» invece devono sostenere azioni di retroguardia. Il giorno 19, hanno inizio da parte della D. «Tridentina» i primi combattimenti, a Postojalyi e Skororyo, per l'apertura di un varco. L'indomani tutte le unità attaccano le forze nemiche che si oppongono a Postojalyi al movimento e, dopo aspri combattimenti ed a prezzo di gravi sacrifici, riescono a superare lo sbarramento. L'intervento della «Julia» e l'apporto dato dai battaglioni e gruppi della «Cuneense» contribuiscono notevolmente alla salvezza della colonna principale del C.A. che, già duramente impegnata di fronte e sul fianco destro, avrebbe altrimenti dovuto sostenere l'attacco di ingenti forze russe anche sulla sinistra. Ma sia lo sviluppo delle nostre azioni, che un attacco nemico con mezzi corazzati provenienti dal fronte ungherese nella zona di Opit (sede dei comandi di C.A. alpino e XXIV), che riesce fra l'altro a distruggere tutte le stazioni radio, portano al frazionamento delle forze del C.A. non più collegate fra di loro. Restano: - a nord: i comandi del C.A. alpino e del XXIV e la D. «Tridentina»; - a sud: le divisioni «Julia», «Cuneense» e «Vicenza» ed un'aliquota del XXIV C.A.
Il 21, con tempo avverso, freddo e tormenta, la colonna prosegue nel movimento da N. Charkowka su Krawzowka, che viene occupata dopo violento combattimento, e quindi, per Scheljakino, su Ladomirowka. Il nemico ha, però, disposto un secondo sbarramento fortemente presidiato sulla linea Olichowatka-Warwarowka, tendente a chiudere definitivamente le unità superstiti. La D. «Tridentina» deve, il 22, combattere aspramente a Scheljakino per aprire la strada a sè ed alla colonna sud che avrebbe dovuto seguirla nella breccia, ma di cui il C.A. non ha più notizie. In serata è raggiunta Ladomirowka dove affluiscono elementi sparsi delle divisioni «Julia», «Cuneense», «Vicenza». Alla sera del 22, tutti gli elementi superstiti del C.A. sono così incolonnati sullo stesso itinerario della «Tridentina». Le autorità tedesche affermano che le unità vengono aviorifornite. Sono riforniti, invero, solo i tedeschi che difendono i viveri armi alla mano. Il 23, il movimento prosegue su Nikolajewka dove la colonna sostiene un combattimento contro partigiani e regolari. L'indomani, superata altra resistenza a Malakijewa, la colonna prosegue in direzione di Nikitowka che raggiunge il 25.
In tale zona l'avversario ha predisposto una terza linea di sbarramento, sicché alle ore 2 del 26 la testa della colonna viene attaccata da notevoli forze (un btg. di ftr. anticarro con numerose armi automatiche) allo sbocco dell'abitato. Il nemico è respinto e lo sbarramento superato. Vengono catturati nell'azione numerosi mortai ed armi automatiche nonché 4 cannoni che gli alpini successivamente sono costretti ad abbandonare per l'impossibilità di trasporto. Lo stesso giorno, alle ore 12, ha inizio l'attacco contro Nikolajewka (da non confondersi con l'altra località dello stesso nome sopramenzionata) difesa da rilevanti forze (successivamente accertate in una divisione) appoggiate da numerose artiglierie e dall'aviazione, Nell'azione, che dura sino all'imbrunire, viene impegnata ogni risorsa per superare la resistenza. L'attacco sferrato, col concorso di carri d'assalto tedeschi, su uno dei quali prende posto il comandante della D. «Tridentina», ottiene un primo risultato con l'azione del 6° rgt.: la ferrovia è superata; sopraggiungono i reparti del 5°. Ufficiali validi di tutte le armi e specialità riuniscono gli elementi non inquadrati ancora in grado di combattere, li raccolgono in formazioni improvvisate e tutti, uniti in un supremo sforzo, rompono lo sbarramento: la città viene occupata. Catturati e distrutti 24 pezzi di m. c. nonché munizioni di mortai. Dolorose le perdite fra le quali sono oltre 40 ufficiali. Fra i caduti è il generale Martinat, capo di S.M. del C.A.
Sopraffatto il nemico a Nikolaiewka, si riprende la marcia ed il 27, con estenuante fatica, viene raggiunta Uspenka. Il 28 poiché la D. ungherese che doveva difendere Nowij Oskol è stata costretta a ripiegare, il comando Armata ordina che la colonna dirotti da Olchowyi in direzione di Woltschansk, in modo da sottrarla alla minaccia da nord, e provvede a far affluire autocolonne di rifornimenti verso tale località. La colonna giunge, quasi stremata, in giornata nella zona di Slonowka. E' durante questa marcia, quando ormai la meta si può dire raggiunta, che si debbono far saltare i pezzi per l'impossibilità di continuarne il trasporto. Il 29, ritardate e non chiare comunicazioni radio germaniche fanno si che la colonna, anziché dirigersi verso sud-ovest, si metta in marcia su Morosowa Balka. A mezzo apparecchio «cicogna» viene dirottata su Bolsche Troizkoje ove, il 30, incontra, finalmente, la colonna viveri e quella sanitaria. Qui si fermano gli italiani e vengono fatti proseguire tedeschi e ungheresi. Il giorno successivo i resti del C.A. alpino si raccolgono a Schebekino dove finalmente, possono essere ristorati, dopo un percorso di circa 350 chilometri e dopo aver sostenuto 13 combattimenti.
A Schebekino sostano tre giorni. Durante la sosta vengono sgomberati su Charckow 7571 tra feriti e congelati. Con la colonna sono sfuggiti all'accerchiamento oltre ai feriti ed ai congelati spedalizzati; 6.500 uomini della «Tridentina», 3.300 della «Julia», 1.600 della «Cuneense», 1.300 della «Vicenza», 880 del C.A. e suoi servizi, 8.000-9.000 tedeschi, 6.000-7.000 ungheresi. Gli alpini nel loro sforzo furono sorretti dalla volontà di uscire dalla cerchia ad ogni costo. Epperò i loro attacchi furono tenaci, i feriti seguirono la colonna senza un lamento e i congelati camminarono sempre. Non diversa, forse più tragica, fu la sorte dei piccoli reparti sparsi nelle impervie zone di retrovia del Corpo d'armata e dei presidi minori che, privi di comunicazioni, furono sorpresi dalla rapida avanzata russa. Sono altri 6.000 elementi che, guidati talvolta da ufficiali, talvolta da sottufficiali, affrontando disagi, pericoli e tormenti fisici e morali, seppero passare attraverso gli sbarramenti avversari.
Ad eccezione delle notizie frammentarie date da soldati ed ufficiali che hanno potuto ripiegare, nulla finora è possibile dire circa le vicende complessive delle divisioni «Julia», «Cuneense» e «Vicenza»: tutti parlano di duri combattimenti specie di carri armati. Sono fra i prigionieri i comandanti delle tre divisioni (la D. «Julia» i cui resti il 22 erano in zona Scheljakino pare che a tale data sia da ritenersi annientata. La notte sul 23, fra Scheljakino e Warwarowka è stato catturato il comandante. L'itinerario Scheljakino-Warwarowka è stato seguito anche dai resti delle divisioni «Vicenza» e «Cuneense». Elementi della «Vicenza» affiancati a reparti tedeschi si sarebbero diretti verso ovest il 24 con meta Waluiki. Non se ne avranno più notizie. La «Cuneense», duramente provata e scompaginata nell'attraversamento di Scheljakino e Warwarowka, accorsa al richiamo del cannone su Malakijewa (24 gennaio). Durante la sosta notturna in Derkupskaja sarebbe stata circondata da ingenti forze corazzate russe).
I COMBATTIMENTI NELLE VALLI DEL DERKUL, DELL'AJDAR E DEL KRASSNOJE.
Nel settore meridionale dell'Armata dal 16 al 31 gennaio, con forze tedesche affluenti da tergo, viene contenuto l'avversario che, raggiunta la zona di Waluiki, tende a procedere verso nord-ovest, ovest e sud-ovest. In questo periodo, sino a quando il comando Armata ha assolto compiti operativi (31 gennaio), hanno agito sull'ala meridionale dell'Armata alcuni reparti italiani con particolari compiti, che si inquadrano in quello più vasto della protezione della direttrice di Charkow. In particolare: - a Belowodsk (valle Derkul): il XXVI btg. CC.RR. ed elementi minori, per la difesa di tale importante località che sbarra la via su Starobolosk; - a Starobolosk (valle Aidar): il XXVII gr. art. compl., un gruppo del 4° contraerei, il XXVI btg. artieri, il rep. speciale art., una cp. del 450° btg. TM, una cp. lavoratori, una cp. genio guastatori, una cp. idrici, una cp. artieri ed elementi minori, per la difesa della città e la protezione della ferrovia; - a Kupjansk (settore Krassnoje): il XXVI btg. CC.RR., un btg. bers. di formazione, il XXXV gr. ost. c. a. ed elementi minori, per lo sbarramento della rotabile Waluiki-Kupjansk e la difesa della città.
Alle ore o del I° febbraio, non essendovi ormai più in linea truppe italiane, l'autorità superiore germanica stabilisce che l'Armata ceda il comando del settore al gruppo Lanz e raggiunga la zona di riordinamento delle proprie truppe (nord-est di Kiew) per regolarne più da vicino i movimenti in corso ed i provvedimenti relativi al riordinamento.
Il processo D'Onofrio, parte 3
Il processo D'Onofrio, terza parte. Premetto un aspetto molto importante che ha sempre contraddistinto questa pagina: a volte si toccano argomenti scottanti ed ancora oggi delicati; quello che qui tratterò è forse uno dei più significativi da questo punto di vista. Ma detto questo sottolineo che quanto andrò a riportare NON ha alcun fine politico o di parte, ma esclusivamente storico. Sono fatti relativi alla Campagna di Russia ed alle sue conseguenze e come tali vengono riportati. Qualsiasi commento inopportuno da una parte e dall'altra verrà immediatamente cancellato. Chiedo a chi segue la pagina di esporre la propria idea con educazione e rispetto verso chi magari espone pensieri opposti: la storia e non solo la storia ha già condannato chi mandò quei sfortunati ragazzi in Russia e chi contribuì a tenerli più del dovuto.
LA SECONDA UDIENZA.
Dopo una settimana di sospensione, il processo è ripreso il 23 maggio 1949 con la deposizione dell’ultimo imputato, Ivo Emett, tenente degli alpini, caduto prigioniero il 27 gennaio 1943, nei pressi di Valuiki. Dopo un viaggio estenuante a piedi, senza cibo né acqua, i prigionieri furono chiusi nel campo di Tamboff. Le condizioni fisiche di tutti erano terribili. Conferma i casi di cannibalismo. Un giorno arrivò una signora italiana: la signora Torre.
Emett: 'Credevamo che fosse venuta in nostro aiuto e invece a qualcuno che le domandava un pezzo di pane chiese in compenso quei pochi gioielli, quella poca roba di valore che il prigioniero era riuscito a salvare'.
Venti ufficiali italiani, fra i quali l'Emett stesso, furono trasferiti al campo di Oranki. Giunsero estenuati. Due medici italiani che si trovavano in quel campo, il prof. Ioli e il dott. Reginato, fecero miracoli per i malati. Usavano coltelli da cucina per gli interventi chirurgici ma come medicina, oltre al permanganato, non potevano dare che il loro conforto.
L'Emett appena dimesso dall'ospedale venne interrogato dal commissario Fiammenghi. Il colloquio fu dei più estenuanti. Si volle sapere il perché della sua presenza in Russia, del suo nome che tradiva l'origine inglese, della sua iscrizione al partito fascista o meglio al Guf, come tutti gli studenti delle università italiane.
Nel convalescenziario di Skit (uno scantinato dove gli ammalati, anziché guarire, peggioravano) l'Emett trovò che si era costituito un gruppo di ufficiali marxisti i quali ricevevano uno speciale trattamento di favore.
Emett: 'Un giorno all'aperto vidi degli ufficiali che si riunivano. D'Onofrio rivolgeva loro la parola. Rimanendo sdraiato dove mi trovavo, a qualche metro dalla riunione, sentii che il «cospiratore» proponeva agli ufficiali di inviare un appello al governo Badoglio, per invitarlo a non continuare la guerra. Sentii il cap. Magnani rifiutarsi a nome di tutti di firmare, prospettando la inopportunità del proclama non soltanto dal punto di vista politico ma della disciplina militare. Quasi tutti i presenti applaudirono a lungo il capitano e allora il D'Onofrio ordinò che l’adunata fosse sciolta e che rimanessero soltanto quelli che facevano parte del cosiddetto gruppo antifascista, ossia comunista. Rimasero una quindicina.
D'Onofrio venne poi da me, qualche giorno dopo, in ospedale e mi chiese di firmare l'appello. Rifiutai. M'accusò di essere fascista e aggiunse che dovevo cambiare idea. Replicai che le mie non erano idee politiche. Ero un ufficiale e come tale non potevo e non dovevo interessarmi di politica. Il colloquio finì alla maniera di tutti gli altri: con le solite minacce di dimissioni dall’ospedale, il che per me, in tali condizioni di depressione fisica e psichica, significava morire'.
Due ore è durata la deposizione del ten. Emett e con essa s'è chiuso questo primo capitolo della raccapricciante narrazione dei reduci.
Ha inizio la deposizione del sen. D'Onofrio. Il querelante, confermata la querela e riservatosi di produrre il settimanale 'L'Alba' stampato per i prigionieri di Russia, spiega al tribunale il perché della sua azione.
D'Onofrio: 'Io ho ravvisato negli articoli offesa alla mia persona, come comunista e come italiano. Ciò perché ho sempre difeso gli interessi del mio paese: in Italia come in Russia'.
Presidente: 'È vero che lei procedeva ad interrogatori nel modo come hanno detto gli imputati?'.
D'Onofrio: 'Non ho mai tentato di convincere altri alle mie idee usando imposizioni e minacce'.
Il senatore comunista accennando alla polemica avuta nel febbraio 1948 con il giornale romano 'Risorgimento Liberale' che pubblicò degli articoli contro la sua attività antitaliana in Russia, ha detto che in quell'occasione non si querelò, perché il direttore del giornale pubblicò regolarmente tutte le lettere di risposta, per cui la questione rimase negli stretti limiti della polemica politico giornalistica.
D'Onofrio: 'Ma durante la campagna elettorale viene fuori quel libello (il numero unico 'Russia') nel quale ricorrono chiaramente gli estremi dell’oltraggio. L'accusa fattami, di violenze o minacce, è assolutamente falsa, in quanto non si possono infondere con quei mezzi idee politiche, ma soltanto con una assidua opera di persuasione. Il fatto è che al fondo di tutta questa storia c'è una ragione politica. Perciò sono lieto di poter esporre al Tribunale quegli episodi che, pur essendo ormai di dominio pubblico, vanno posti nella loro vera luce'.
Dopo questa premessa il sen. D'Onofrio è entrato nel vivo della questione cominciando con l'affermare che la cifra di 80 mila prigionieri in Russia è esagerata. Dalle dichiarazioni degli stessi prigionieri essi sarebbero stati non più di 10 o 12 mila. Secondo studi effettuati dagli Stati Maggiori, l'Armir avrebbe perduto 84 mila uomini e in questa cifra vanno compresi naturalmente oltre quelli catturati dai russi, i morti e i feriti. Ora, giacché l'URSS ha restituito all’Italia 12 o 13 mila prigionieri, va da sé che la differenza che manca è data dal numero dei caduti.
La responsabilità di un cosi elevato numero di morti, secondo D'Onofrio, è tutta dei capi che non furono capaci di organizzare una resa che avrebbe salvato tante vite.
A questo punto il pubblico che fino ad allora aveva assistito silenziosamente e compostamente al dibattito, reagisce alle dichiarazioni del senatore con vivaci mormorii di disapprovazione, tanto che il Presidente è costretto ad intervenire per ristabilire il silenzio nell'aula. Ma prima che torni la calma, qualcuno, che non è possibile identificare, nella folla grida: 'Allora non è morto nessuno nei campi di concentramento?'.
Avv. Taddei: 'Sicché la Russia avrebbe restituito all'Italia più uomini di quanti non ne avesse catturati!'.
Ma D'Onofrio non raccoglie l'insinuazione della difesa, e prosegue nella sua esposizione dei fatti, scagionando la Russia da ogni diretta responsabilità nelle morti dei soldati.
D'Onofrio: 'Era inevitabile che i prigionieri fossero sottoposti ad una vita di grandi disagi specialmente quando venivano trasferiti. Le condizioni della Russia, causa la guerra, non consentivano viaggi agevoli. Quindi le sofferenze durante tali viaggi non possono essere attribuite a malevolenza da parte russa. Quanto ai casi di malattia e alle epidemie tra i prigionieri, si trattava di malattie di cui i prigionieri stessi erano già affetti prima ancora della cattura. Quanto alla mancanza dell'acqua era anche essa inevitabile, perché in certe zone l’acqua mancava completamente e la stessa popolazione civile ne era priva. Per tornare ai trasporti è vero che i trasferimenti venivano effettuati su carri bestiame ma quelli russi sono più grandi di quelli usati in Italia e nella parte centrale di essi era stata sistemata una stufa, cosicché i prigionieri potevano godere di un minimo di comfort'.
Questa ultima dichiarazione di D'Onofrio suscita un fragoroso scoppio di ilarità e il presidente è costretto per la seconda volta a richiamare il pubblico al silenzio.
Dalla deposizione del senatore comunista si apprende che le condizioni dei prigionieri andarono sempre più migliorando. Nel settembre del 1943 la razione di un ufficiale prigioniero, ad esempio, sarebbe stata così composta: 300 grammi di pane bianco; 300 grammi di pane nero; 10 grammi di farina; 100 grammi d'orzo; 200 grammi di pasta; 75 grammi di carne; 80 grammi di pesce; 40 grammi di burro; 40 grammi di zucchero; 10 grammi di olio; 10 grammi di frutta fresca; 400 grammi di patate; 190 grammi di verdure.
Nuova eccitazione fra i presenti, a stento frenata dal Presidente, quando la Russia viene additata come una nazione amica.
Costretto a fuggire dall’Italia per le persecuzioni fasciste, D'Onofrio passò prima in Francia e di lì in Spagna dove combatté nelle file antifranchiste. Nel 1939 accompagnò in Russia un gruppo di reduci dalla guerra di Spagna e quando stava già per tornare indietro fu sorpreso dallo scoppio del secondo conflitto mondiale. Rimase perciò in Russia.
D'Onofrio: 'Ero convinto che la guerra voluta dai fascisti non dovesse continuare. Ma da ciò non si deve dedurre che io fossi un disfattista. Io ho sempre sostenuto l’urgenza di una uscita dell’Italia dal conflitto, prima che venisse la disfatta. Mi ripromettevo di elevare la coscienza democratica dei prigionieri attraverso una costante opera di persuasione e di convinzione: mi proponevo di unire tutti i nostri prigionieri su questa base politica.
Prima del 25 luglio 1943 tenni nel campo di Oranki e in quello di Skit due conferenze. E in ambedue le manifestazioni ricevetti le congratulazioni e l’applauso di tutti i presenti. Lo stesso cap. Magnani, nel campo di Skit, manifestò il suo entusiasmo dicendo che era la prima volta che in Russia sentiva parlare un vero italiano. Parlai poi, tra i prigionieri, del settimanale 'L'Alba' che doveva essere diffuso nei vari campi di concentramento e molti avanzarono proposte sul come tale giornale avrebbe dovuto essere fatto.
Gli aderenti ai gruppi antifascisti non avevano un trattamento migliore degli altri. L'adesione a tali gruppi era assolutamente volontaria e chi vi faceva parte era spinto da convinzione personale e non da tornaconto'.
A questo punto il querelante fa presente al tribunale che dovrà parlare ancora per due ore almeno. Sono già le 13,30: l'esposizione dura ormai da quattro ore. Il Presidente decide allora di rinviare a domani la prosecuzione del dibattito.
LA TERZA UDIENZA.
24 maggio 1949. Il seguito della deposizione del sen. D’Onofrio, si protrae per tutta l'udienza odierna concludendosi con un vivace incidente fra gli avvocati della difesa e quelli di parte civile. Il querelante ha esordito smentendo di avere assunto in Russia lo pseudonimo 'Edo'.
Presidente: 'Ci parli delle sue conferenze con i prigionieri'.
D'Onofrio: 'Nei primi giorni dopo il mio arrivo al campo di Oranki ebbi alcune conversazioni singolarmente con gli ufficiali internati, soprattutto con quelli che costituivano il gruppo antifascista. Ma poi volli parlare con tutti gli ufficiali, molti dei quali avevano sollecitato questi colloqui'.
Presidente: 'Chi era presente a queste conversazioni?'.
D'Onofrio: 'Quasi sempre si svolgevano tra me e l'ufficiale senza la presenza di terze persone. Solamente qualche volta assistette alle conversazioni il magg. Orloff. La porta delle baracche, ove esse si svolgevano, era sempre aperta e non fu mai redatto alcun verbale, in alcuna lingua, di quanto si diceva nel corso di quelle conversazioni. La mia era, dunque, una semplice inchiesta giornalistica che mi doveva servire per i miei discorsi e per gli articoli da stampare sul settimanale 'L'Alba'. Gli ufficiali mi erano presentati dall’istruttore politico Fiammenghi'.
Presidente: 'Era presente il Fiammenghi alle conversazioni?'.
D'Onofrio: 'Solo qualche volta. Escludo che io o il Fiammenghi, o il magg. Orloff (il quale non è vero appartenesse alla polizia di Stato sovietica ma era soltanto ufficiale di amministrazione) abbiamo mai scritte in precedenza domande o risposte che avrebbero costituito l'oggetto delle conversazioni'.
Il D'Onofrio nega di aver minacciato, in un incontro personale, il ten. Ioli, che, a suo dire, faceva nel campo attiva propagando fascista, e di averne provocato l'invio in un campo di punizione. Ma non può contestare, che lo Ioli fosse in realtà gravemente punito e allontanato. Il senatore comunista dice di aver scritto su 'L'Alba' un ordine del giorno che costituirebbe un inno di italianità, di compiacimento per la caduta del fascismo e per il nuovo governo Badoglio, approvato all'unanimità. Inesistente quindi, a suo dire, l'appello antigovernativo e rivoluzionario. Inizia il serrato fuoco di fila delle domande, rivolte dagli avvocati, tramite il Presidente.
Avv. Taddei: 'Quale era la posizione giuridica degli italiani emigrati in Russia?'.
D'Onofrio: 'Io ho sempre mantenuto la cittadinanza italiana, in Francia, come in Spagna, come in Russia'.
Avv. Taddei: 'Perché, allora, mentre l'Italia era in guerra con l'U.R.S.S. lei circolava liberamente in Russia?'.
D'Onofrio: 'Non ritengo necessario rispondere a questa domanda'.
Avv. Paone: 'Qui si vuole fare il processo all'antifascismo. La domanda non è pertinente alla causa'.
Avv. Taddei: 'Spieghi, il sen. D'Onofrio, come mai il tenente Amadeo, fucilato nel 1943, poté far pervenire per radio notizie alla sua famiglia ancora nel 1946'.
D'Onofrio: 'Non conosco questo fatto specifico. Quel che posso dire è che tutti i messaggi venivano ammassati da Radio Mosca che li trasmetteva a gruppi; non è quindi escluso, dato il gran numero di essi, che alcuni potessero esser trasmessi con ritardo'.
Avv. Taddei: 'Il querelante, sa che contro qualcuno dei prigionieri italiani da lui interrogati, è stato celebrato in Russia un procedimento penale?'.
D'Onofrio: 'No. Non mi risulta... D'altra parte non ho mai fatto indagini in proposito'.
Avv. Taddei: 'Certi Danilo Ferretti e Fidia Gambetti, facevano parte del gruppo antifascista?'.
D'Onofrio: 'Sì. Li conobbi ambedue. L'uno e l'altro mi confermarono la loro fede fascista ma poi mutarono radicalmente le loro idee. Il Ferretti diventò collaboratore de 'L’Alba'.
Avv. Mastino Del Rio: 'Infatti... prima era capo della stampa e propaganda del fascismo e poi...'.
La frase dell’avvocato della difesa provoca un vivace incidente fra i patroni delle due parti e il pubblico, come al solito numeroso, sottolinea il battibecco con lunghi mormorii e con segni evidenti di nervosismo sicché il Presidente ritiene opportuno rinviare la udienza a domani.
LA SECONDA UDIENZA.
Dopo una settimana di sospensione, il processo è ripreso il 23 maggio 1949 con la deposizione dell’ultimo imputato, Ivo Emett, tenente degli alpini, caduto prigioniero il 27 gennaio 1943, nei pressi di Valuiki. Dopo un viaggio estenuante a piedi, senza cibo né acqua, i prigionieri furono chiusi nel campo di Tamboff. Le condizioni fisiche di tutti erano terribili. Conferma i casi di cannibalismo. Un giorno arrivò una signora italiana: la signora Torre.
Emett: 'Credevamo che fosse venuta in nostro aiuto e invece a qualcuno che le domandava un pezzo di pane chiese in compenso quei pochi gioielli, quella poca roba di valore che il prigioniero era riuscito a salvare'.
Venti ufficiali italiani, fra i quali l'Emett stesso, furono trasferiti al campo di Oranki. Giunsero estenuati. Due medici italiani che si trovavano in quel campo, il prof. Ioli e il dott. Reginato, fecero miracoli per i malati. Usavano coltelli da cucina per gli interventi chirurgici ma come medicina, oltre al permanganato, non potevano dare che il loro conforto.
L'Emett appena dimesso dall'ospedale venne interrogato dal commissario Fiammenghi. Il colloquio fu dei più estenuanti. Si volle sapere il perché della sua presenza in Russia, del suo nome che tradiva l'origine inglese, della sua iscrizione al partito fascista o meglio al Guf, come tutti gli studenti delle università italiane.
Nel convalescenziario di Skit (uno scantinato dove gli ammalati, anziché guarire, peggioravano) l'Emett trovò che si era costituito un gruppo di ufficiali marxisti i quali ricevevano uno speciale trattamento di favore.
Emett: 'Un giorno all'aperto vidi degli ufficiali che si riunivano. D'Onofrio rivolgeva loro la parola. Rimanendo sdraiato dove mi trovavo, a qualche metro dalla riunione, sentii che il «cospiratore» proponeva agli ufficiali di inviare un appello al governo Badoglio, per invitarlo a non continuare la guerra. Sentii il cap. Magnani rifiutarsi a nome di tutti di firmare, prospettando la inopportunità del proclama non soltanto dal punto di vista politico ma della disciplina militare. Quasi tutti i presenti applaudirono a lungo il capitano e allora il D'Onofrio ordinò che l’adunata fosse sciolta e che rimanessero soltanto quelli che facevano parte del cosiddetto gruppo antifascista, ossia comunista. Rimasero una quindicina.
D'Onofrio venne poi da me, qualche giorno dopo, in ospedale e mi chiese di firmare l'appello. Rifiutai. M'accusò di essere fascista e aggiunse che dovevo cambiare idea. Replicai che le mie non erano idee politiche. Ero un ufficiale e come tale non potevo e non dovevo interessarmi di politica. Il colloquio finì alla maniera di tutti gli altri: con le solite minacce di dimissioni dall’ospedale, il che per me, in tali condizioni di depressione fisica e psichica, significava morire'.
Due ore è durata la deposizione del ten. Emett e con essa s'è chiuso questo primo capitolo della raccapricciante narrazione dei reduci.
Ha inizio la deposizione del sen. D'Onofrio. Il querelante, confermata la querela e riservatosi di produrre il settimanale 'L'Alba' stampato per i prigionieri di Russia, spiega al tribunale il perché della sua azione.
D'Onofrio: 'Io ho ravvisato negli articoli offesa alla mia persona, come comunista e come italiano. Ciò perché ho sempre difeso gli interessi del mio paese: in Italia come in Russia'.
Presidente: 'È vero che lei procedeva ad interrogatori nel modo come hanno detto gli imputati?'.
D'Onofrio: 'Non ho mai tentato di convincere altri alle mie idee usando imposizioni e minacce'.
Il senatore comunista accennando alla polemica avuta nel febbraio 1948 con il giornale romano 'Risorgimento Liberale' che pubblicò degli articoli contro la sua attività antitaliana in Russia, ha detto che in quell'occasione non si querelò, perché il direttore del giornale pubblicò regolarmente tutte le lettere di risposta, per cui la questione rimase negli stretti limiti della polemica politico giornalistica.
D'Onofrio: 'Ma durante la campagna elettorale viene fuori quel libello (il numero unico 'Russia') nel quale ricorrono chiaramente gli estremi dell’oltraggio. L'accusa fattami, di violenze o minacce, è assolutamente falsa, in quanto non si possono infondere con quei mezzi idee politiche, ma soltanto con una assidua opera di persuasione. Il fatto è che al fondo di tutta questa storia c'è una ragione politica. Perciò sono lieto di poter esporre al Tribunale quegli episodi che, pur essendo ormai di dominio pubblico, vanno posti nella loro vera luce'.
Dopo questa premessa il sen. D'Onofrio è entrato nel vivo della questione cominciando con l'affermare che la cifra di 80 mila prigionieri in Russia è esagerata. Dalle dichiarazioni degli stessi prigionieri essi sarebbero stati non più di 10 o 12 mila. Secondo studi effettuati dagli Stati Maggiori, l'Armir avrebbe perduto 84 mila uomini e in questa cifra vanno compresi naturalmente oltre quelli catturati dai russi, i morti e i feriti. Ora, giacché l'URSS ha restituito all’Italia 12 o 13 mila prigionieri, va da sé che la differenza che manca è data dal numero dei caduti.
La responsabilità di un cosi elevato numero di morti, secondo D'Onofrio, è tutta dei capi che non furono capaci di organizzare una resa che avrebbe salvato tante vite.
A questo punto il pubblico che fino ad allora aveva assistito silenziosamente e compostamente al dibattito, reagisce alle dichiarazioni del senatore con vivaci mormorii di disapprovazione, tanto che il Presidente è costretto ad intervenire per ristabilire il silenzio nell'aula. Ma prima che torni la calma, qualcuno, che non è possibile identificare, nella folla grida: 'Allora non è morto nessuno nei campi di concentramento?'.
Avv. Taddei: 'Sicché la Russia avrebbe restituito all'Italia più uomini di quanti non ne avesse catturati!'.
Ma D'Onofrio non raccoglie l'insinuazione della difesa, e prosegue nella sua esposizione dei fatti, scagionando la Russia da ogni diretta responsabilità nelle morti dei soldati.
D'Onofrio: 'Era inevitabile che i prigionieri fossero sottoposti ad una vita di grandi disagi specialmente quando venivano trasferiti. Le condizioni della Russia, causa la guerra, non consentivano viaggi agevoli. Quindi le sofferenze durante tali viaggi non possono essere attribuite a malevolenza da parte russa. Quanto ai casi di malattia e alle epidemie tra i prigionieri, si trattava di malattie di cui i prigionieri stessi erano già affetti prima ancora della cattura. Quanto alla mancanza dell'acqua era anche essa inevitabile, perché in certe zone l’acqua mancava completamente e la stessa popolazione civile ne era priva. Per tornare ai trasporti è vero che i trasferimenti venivano effettuati su carri bestiame ma quelli russi sono più grandi di quelli usati in Italia e nella parte centrale di essi era stata sistemata una stufa, cosicché i prigionieri potevano godere di un minimo di comfort'.
Questa ultima dichiarazione di D'Onofrio suscita un fragoroso scoppio di ilarità e il presidente è costretto per la seconda volta a richiamare il pubblico al silenzio.
Dalla deposizione del senatore comunista si apprende che le condizioni dei prigionieri andarono sempre più migliorando. Nel settembre del 1943 la razione di un ufficiale prigioniero, ad esempio, sarebbe stata così composta: 300 grammi di pane bianco; 300 grammi di pane nero; 10 grammi di farina; 100 grammi d'orzo; 200 grammi di pasta; 75 grammi di carne; 80 grammi di pesce; 40 grammi di burro; 40 grammi di zucchero; 10 grammi di olio; 10 grammi di frutta fresca; 400 grammi di patate; 190 grammi di verdure.
Nuova eccitazione fra i presenti, a stento frenata dal Presidente, quando la Russia viene additata come una nazione amica.
Costretto a fuggire dall’Italia per le persecuzioni fasciste, D'Onofrio passò prima in Francia e di lì in Spagna dove combatté nelle file antifranchiste. Nel 1939 accompagnò in Russia un gruppo di reduci dalla guerra di Spagna e quando stava già per tornare indietro fu sorpreso dallo scoppio del secondo conflitto mondiale. Rimase perciò in Russia.
D'Onofrio: 'Ero convinto che la guerra voluta dai fascisti non dovesse continuare. Ma da ciò non si deve dedurre che io fossi un disfattista. Io ho sempre sostenuto l’urgenza di una uscita dell’Italia dal conflitto, prima che venisse la disfatta. Mi ripromettevo di elevare la coscienza democratica dei prigionieri attraverso una costante opera di persuasione e di convinzione: mi proponevo di unire tutti i nostri prigionieri su questa base politica.
Prima del 25 luglio 1943 tenni nel campo di Oranki e in quello di Skit due conferenze. E in ambedue le manifestazioni ricevetti le congratulazioni e l’applauso di tutti i presenti. Lo stesso cap. Magnani, nel campo di Skit, manifestò il suo entusiasmo dicendo che era la prima volta che in Russia sentiva parlare un vero italiano. Parlai poi, tra i prigionieri, del settimanale 'L'Alba' che doveva essere diffuso nei vari campi di concentramento e molti avanzarono proposte sul come tale giornale avrebbe dovuto essere fatto.
Gli aderenti ai gruppi antifascisti non avevano un trattamento migliore degli altri. L'adesione a tali gruppi era assolutamente volontaria e chi vi faceva parte era spinto da convinzione personale e non da tornaconto'.
A questo punto il querelante fa presente al tribunale che dovrà parlare ancora per due ore almeno. Sono già le 13,30: l'esposizione dura ormai da quattro ore. Il Presidente decide allora di rinviare a domani la prosecuzione del dibattito.
LA TERZA UDIENZA.
24 maggio 1949. Il seguito della deposizione del sen. D’Onofrio, si protrae per tutta l'udienza odierna concludendosi con un vivace incidente fra gli avvocati della difesa e quelli di parte civile. Il querelante ha esordito smentendo di avere assunto in Russia lo pseudonimo 'Edo'.
Presidente: 'Ci parli delle sue conferenze con i prigionieri'.
D'Onofrio: 'Nei primi giorni dopo il mio arrivo al campo di Oranki ebbi alcune conversazioni singolarmente con gli ufficiali internati, soprattutto con quelli che costituivano il gruppo antifascista. Ma poi volli parlare con tutti gli ufficiali, molti dei quali avevano sollecitato questi colloqui'.
Presidente: 'Chi era presente a queste conversazioni?'.
D'Onofrio: 'Quasi sempre si svolgevano tra me e l'ufficiale senza la presenza di terze persone. Solamente qualche volta assistette alle conversazioni il magg. Orloff. La porta delle baracche, ove esse si svolgevano, era sempre aperta e non fu mai redatto alcun verbale, in alcuna lingua, di quanto si diceva nel corso di quelle conversazioni. La mia era, dunque, una semplice inchiesta giornalistica che mi doveva servire per i miei discorsi e per gli articoli da stampare sul settimanale 'L'Alba'. Gli ufficiali mi erano presentati dall’istruttore politico Fiammenghi'.
Presidente: 'Era presente il Fiammenghi alle conversazioni?'.
D'Onofrio: 'Solo qualche volta. Escludo che io o il Fiammenghi, o il magg. Orloff (il quale non è vero appartenesse alla polizia di Stato sovietica ma era soltanto ufficiale di amministrazione) abbiamo mai scritte in precedenza domande o risposte che avrebbero costituito l'oggetto delle conversazioni'.
Il D'Onofrio nega di aver minacciato, in un incontro personale, il ten. Ioli, che, a suo dire, faceva nel campo attiva propagando fascista, e di averne provocato l'invio in un campo di punizione. Ma non può contestare, che lo Ioli fosse in realtà gravemente punito e allontanato. Il senatore comunista dice di aver scritto su 'L'Alba' un ordine del giorno che costituirebbe un inno di italianità, di compiacimento per la caduta del fascismo e per il nuovo governo Badoglio, approvato all'unanimità. Inesistente quindi, a suo dire, l'appello antigovernativo e rivoluzionario. Inizia il serrato fuoco di fila delle domande, rivolte dagli avvocati, tramite il Presidente.
Avv. Taddei: 'Quale era la posizione giuridica degli italiani emigrati in Russia?'.
D'Onofrio: 'Io ho sempre mantenuto la cittadinanza italiana, in Francia, come in Spagna, come in Russia'.
Avv. Taddei: 'Perché, allora, mentre l'Italia era in guerra con l'U.R.S.S. lei circolava liberamente in Russia?'.
D'Onofrio: 'Non ritengo necessario rispondere a questa domanda'.
Avv. Paone: 'Qui si vuole fare il processo all'antifascismo. La domanda non è pertinente alla causa'.
Avv. Taddei: 'Spieghi, il sen. D'Onofrio, come mai il tenente Amadeo, fucilato nel 1943, poté far pervenire per radio notizie alla sua famiglia ancora nel 1946'.
D'Onofrio: 'Non conosco questo fatto specifico. Quel che posso dire è che tutti i messaggi venivano ammassati da Radio Mosca che li trasmetteva a gruppi; non è quindi escluso, dato il gran numero di essi, che alcuni potessero esser trasmessi con ritardo'.
Avv. Taddei: 'Il querelante, sa che contro qualcuno dei prigionieri italiani da lui interrogati, è stato celebrato in Russia un procedimento penale?'.
D'Onofrio: 'No. Non mi risulta... D'altra parte non ho mai fatto indagini in proposito'.
Avv. Taddei: 'Certi Danilo Ferretti e Fidia Gambetti, facevano parte del gruppo antifascista?'.
D'Onofrio: 'Sì. Li conobbi ambedue. L'uno e l'altro mi confermarono la loro fede fascista ma poi mutarono radicalmente le loro idee. Il Ferretti diventò collaboratore de 'L’Alba'.
Avv. Mastino Del Rio: 'Infatti... prima era capo della stampa e propaganda del fascismo e poi...'.
La frase dell’avvocato della difesa provoca un vivace incidente fra i patroni delle due parti e il pubblico, come al solito numeroso, sottolinea il battibecco con lunghi mormorii e con segni evidenti di nervosismo sicché il Presidente ritiene opportuno rinviare la udienza a domani.
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