Immagini del mio primo viaggio "esplorativo" effettuato nel 2011... l'abitato di Novo Carkowka: " ... l’avanguardia con movimento celerissimo raggiunge la località alle ore 17, trovata occupata dal nemico si dispone ad un immediato attacco. L’avversario che presidia tale località con una forza valutata a due battaglioni rinforzata da carri armati, artiglierie e mortai si difende rabbiosamente; ma , soprattutto dall’irruenza dell’attacco che non gli consente di spiegare come vorrebbe le sue forze, deve cedere il terreno. Inutili diventano ormai le puntate offensive dei carri armati messi fuori combattimento, devono desistere dalla lotta".
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Trekking ed escursioni in Russia sui campi di battaglia della Seconda Guerra Mondiale
Danilo Dolcini - Phone 349.6472823 - Email danilo.dolcini@gmail.com - FB Un italiano in Russia
martedì 9 marzo 2021
L'ARMIR nella II battaglia del Don, parte 12
L'8 Armata italiana nella seconda battaglia difensiva del Don (11 dicembre 1942 - 31 gennaio 1943), dodicesima parte.
SECONDO PERIODO (9-31 gennaio) - LA PREPARAZIONE DEL NEMICO AL NUOVO ATTACCO.
La crescente attività nemica e l'afflusso di nuove forze, sia in corrispondenza dell'ala destra dell'Armata (XXIV C.A. e 19a D. cr.) sia sul fronte della 2a Armata ungherese, precisano l'intenzione nemica di riprendere le offensive, agendo da nord e da sud del C.A. alpino per sviluppare ancora una volta quella manovra a tenaglia con la quale ha già conseguito tanti imponenti risultati. Il comando tedesco non ha forze per predisporre adeguate contromisure su entrambi i settori minacciati. D'altra parte attribuisce maggiore importanza alla possibile azione nemica sul fronte ungherese che ritiene debba estendersi al C.A. alpino.
L'Armata richiama l'attenzione del comando Gruppo Armate sulla situazione dell'ala meridionale dello schieramento, ma nessun provvedimento viene preso per parare la minaccia che giorno per giorno si va delineando sempre più consistente sull'ala destra del XXIV C.A. Le forze sul fronte dell'Armata alla sera del 13 gennaio risultano dallo schizzo 13. Sono 11 divisioni, 2 brigate, 3 corpi Cr. (con un complesso di 450-500 carri) ed un corpo di cavalleria da parte nemica; alle quali si oppongono 6 divisioni di ftr. italo-tedesche e 2 divisioni cr. di cui la 27a senza carri, e con unità di fanteria in corso di affluenza (2° rgt. di addestramento).
LA ROTTURA SUL FRONTE DEL XXIV CORPO D' ARMATA E L'AVVOLGIMENTO DELL'ALA SINISTRA DELL'ARMATA.
Il 14 mattina, il nemico inizia gli attacchi sulla destra del XXIV C.A. (27a D. cr., Gruppo Fegelein, btg. Führer) con direzione generale ovest e nord-ovest. A differenza di quanto avvenuto nella prima fase, l'avversario attacca subito con mezzi corazzati. Le forze della difesa non sono in grado di ostacolare seriamente l'azione nemica che, nella stessa giornata, raggiunge con le punte avanzate Kulikowka e Shilino, travolgendo, in quest'ultima località, il comando tedesco del XXIV C.A. Il comando d'Armata, mentre tenta di ristabilire il fronte arretrando l'ala sinistra del XXIV C.A. in corrispondenza della valle Krinitschnaja e guadagnando così, con l'accorciamento del fronte la disponibilità della 385a D., insiste presso i! generale tedesco, capo del nucleo di collegamento, perchè siano dati in tempo ordini di ripiegamento per il C.A. alpino, che si prevede verrà isolato, ricordando l'impegno preso dai comandi superiori germanici di evitarne a qualunque costo l'accerchiamento.
L'indomani il nemico riprende l'attacco appoggiato da masse di carri armati su tutto il settore del giorno precedente, annientando le residue forze del Gruppo Fegelein e del btg. Führer ed infliggendo forti perdite anche alla 387a D. germ. Punte corazzate, spinte verso nord dal varco aperto nella difesa, giungono a Rossosch, sede del comando del C.A. alpino ed a Oljchowatka. Il comando Armata chiede al Gruppo Armate di impartire direttive per il ripiegamento dell'Armata e di autorizzare l'arretramento del C.A. alpino in armonia con la 2a Armata ungherese. La questione viene prospettata al Führer, il quale non solo non concede il ripiegamento del C.A. alpino, ma neppure la rettifica già concordata del fronte del XXIV C.A. intesa a creare un fianco difensivo. Il comandante dell'Armata fa presente al generale tedesco di collegamento che ordini del genere sono imposti dalla situazione e dispone l'arretramento del XXIV C.A. sulla linea Ternowka - Grakoff- nord Michailowka e, se nccessario, dell'ala destra della D. «Cuneense», per prendere contatto con la sinistra del XXIV C.A.
Il comando Gruppo Armate prende nota delle disposizioni dichiarando di non associarsi; in serata, però, giunge notizia che il Führer ha sanzionato gli ordini del comando d'Armata. Il mattino del 16, i russi attaccano più volte le posizioni del btg. Edolo (5° alpini), ma sono respinti. Lo stesso giorno 16 ed il 17 il nemico continua la penetrazione da est verso ovest nel vuoto creatosi fra il XXIV C.A. e la 27a D. cr. Unità corazzate raggiungono e superano Rowenki puntando su Waluiki. Nella notte sul 17, forze valutate a circa due rgt. attaccano sulla linea del Don il fronte della D. «Tridentina». Dopo ripetuti violenti combattimenti sono respinte con sanguinose perdite dai btg. alpini «Vestone» «Morbegno» ed «Edolo». La D. «Julia» ripiegando sul Kalitwa è attaccata ripetutamente e subisce gravi perdite anch'essa.
Il presidio di Tschertkowo, che da 27 giorni resiste agli attacchi nemici, rotto l'accerchiamento e superate altre forze che ne contrastano il movimento, raggiunge Belowodsk da dove i resti stremati sono successivamente avviati alle retrovie. Il presidio del campo avio di Gartmjschewka, che stretto da prevalenti forze nemiche non riesce a rompere l'accerchiamento, viene successivamente sgomberato con aerei da trasporto. Anche sul fronte ungherese il nemico ha creato una breccia penetrando per oltre 50 km. verso Ostrogoshsk. L'Armata fa presente al generale tedesco di collegamento che il persistere nella decisione di rimanere al Don non può portare che a gravi conseguenze perché l'arretramento è ormai imposto dagli eventi. Ciò, malgrado nessun provvedimento viene ancora preso, nel giorno 16, dal comando Gruppo Armate.
Soltanto il giorno 17 quando gli ungheresi hanno già abbandonato il Don, il Gruppo Armate da facoltà al comando d'Armata di ordinare il ripiegamento del C.A. alpino, ma la manovra nemica, intesa ad avvolgere l'ala sinistra dell'Armata, è già in pieno sviluppo con le due branche moventi: a sud, dalla zona di rottura determinata nei giorni precedenti; a nord, da quella creata nel settore della Armata ungherese. Quando all'imbrunire del 17 gennaio il C.A. alpino inizia il ripiegamento, gli ungheresi sono già alla ferrovia Sswoboda - Rossosch, il Corpo Cramer (il Corpo Cramer era stato promesso, in caso di bisogno, all'Armata italiana a sostegno del C.A. alpino e XXIV germanico, ma venne assorbito dalle vicende sul fronte ungherese) (che dipende dalla 2a Armata ungherese) è a nord-ovest di Ostrogoshsk e le punte corazzate avversarie sono già a Postojalyj ed a B.Lipjagj (est di Waluiki), sono cioè in possesso delle principali arterie di comunicazione alle spalle del C.A.
SECONDO PERIODO (9-31 gennaio) - LA PREPARAZIONE DEL NEMICO AL NUOVO ATTACCO.
La crescente attività nemica e l'afflusso di nuove forze, sia in corrispondenza dell'ala destra dell'Armata (XXIV C.A. e 19a D. cr.) sia sul fronte della 2a Armata ungherese, precisano l'intenzione nemica di riprendere le offensive, agendo da nord e da sud del C.A. alpino per sviluppare ancora una volta quella manovra a tenaglia con la quale ha già conseguito tanti imponenti risultati. Il comando tedesco non ha forze per predisporre adeguate contromisure su entrambi i settori minacciati. D'altra parte attribuisce maggiore importanza alla possibile azione nemica sul fronte ungherese che ritiene debba estendersi al C.A. alpino.
L'Armata richiama l'attenzione del comando Gruppo Armate sulla situazione dell'ala meridionale dello schieramento, ma nessun provvedimento viene preso per parare la minaccia che giorno per giorno si va delineando sempre più consistente sull'ala destra del XXIV C.A. Le forze sul fronte dell'Armata alla sera del 13 gennaio risultano dallo schizzo 13. Sono 11 divisioni, 2 brigate, 3 corpi Cr. (con un complesso di 450-500 carri) ed un corpo di cavalleria da parte nemica; alle quali si oppongono 6 divisioni di ftr. italo-tedesche e 2 divisioni cr. di cui la 27a senza carri, e con unità di fanteria in corso di affluenza (2° rgt. di addestramento).
LA ROTTURA SUL FRONTE DEL XXIV CORPO D' ARMATA E L'AVVOLGIMENTO DELL'ALA SINISTRA DELL'ARMATA.
Il 14 mattina, il nemico inizia gli attacchi sulla destra del XXIV C.A. (27a D. cr., Gruppo Fegelein, btg. Führer) con direzione generale ovest e nord-ovest. A differenza di quanto avvenuto nella prima fase, l'avversario attacca subito con mezzi corazzati. Le forze della difesa non sono in grado di ostacolare seriamente l'azione nemica che, nella stessa giornata, raggiunge con le punte avanzate Kulikowka e Shilino, travolgendo, in quest'ultima località, il comando tedesco del XXIV C.A. Il comando d'Armata, mentre tenta di ristabilire il fronte arretrando l'ala sinistra del XXIV C.A. in corrispondenza della valle Krinitschnaja e guadagnando così, con l'accorciamento del fronte la disponibilità della 385a D., insiste presso i! generale tedesco, capo del nucleo di collegamento, perchè siano dati in tempo ordini di ripiegamento per il C.A. alpino, che si prevede verrà isolato, ricordando l'impegno preso dai comandi superiori germanici di evitarne a qualunque costo l'accerchiamento.
L'indomani il nemico riprende l'attacco appoggiato da masse di carri armati su tutto il settore del giorno precedente, annientando le residue forze del Gruppo Fegelein e del btg. Führer ed infliggendo forti perdite anche alla 387a D. germ. Punte corazzate, spinte verso nord dal varco aperto nella difesa, giungono a Rossosch, sede del comando del C.A. alpino ed a Oljchowatka. Il comando Armata chiede al Gruppo Armate di impartire direttive per il ripiegamento dell'Armata e di autorizzare l'arretramento del C.A. alpino in armonia con la 2a Armata ungherese. La questione viene prospettata al Führer, il quale non solo non concede il ripiegamento del C.A. alpino, ma neppure la rettifica già concordata del fronte del XXIV C.A. intesa a creare un fianco difensivo. Il comandante dell'Armata fa presente al generale tedesco di collegamento che ordini del genere sono imposti dalla situazione e dispone l'arretramento del XXIV C.A. sulla linea Ternowka - Grakoff- nord Michailowka e, se nccessario, dell'ala destra della D. «Cuneense», per prendere contatto con la sinistra del XXIV C.A.
Il comando Gruppo Armate prende nota delle disposizioni dichiarando di non associarsi; in serata, però, giunge notizia che il Führer ha sanzionato gli ordini del comando d'Armata. Il mattino del 16, i russi attaccano più volte le posizioni del btg. Edolo (5° alpini), ma sono respinti. Lo stesso giorno 16 ed il 17 il nemico continua la penetrazione da est verso ovest nel vuoto creatosi fra il XXIV C.A. e la 27a D. cr. Unità corazzate raggiungono e superano Rowenki puntando su Waluiki. Nella notte sul 17, forze valutate a circa due rgt. attaccano sulla linea del Don il fronte della D. «Tridentina». Dopo ripetuti violenti combattimenti sono respinte con sanguinose perdite dai btg. alpini «Vestone» «Morbegno» ed «Edolo». La D. «Julia» ripiegando sul Kalitwa è attaccata ripetutamente e subisce gravi perdite anch'essa.
Il presidio di Tschertkowo, che da 27 giorni resiste agli attacchi nemici, rotto l'accerchiamento e superate altre forze che ne contrastano il movimento, raggiunge Belowodsk da dove i resti stremati sono successivamente avviati alle retrovie. Il presidio del campo avio di Gartmjschewka, che stretto da prevalenti forze nemiche non riesce a rompere l'accerchiamento, viene successivamente sgomberato con aerei da trasporto. Anche sul fronte ungherese il nemico ha creato una breccia penetrando per oltre 50 km. verso Ostrogoshsk. L'Armata fa presente al generale tedesco di collegamento che il persistere nella decisione di rimanere al Don non può portare che a gravi conseguenze perché l'arretramento è ormai imposto dagli eventi. Ciò, malgrado nessun provvedimento viene ancora preso, nel giorno 16, dal comando Gruppo Armate.
Soltanto il giorno 17 quando gli ungheresi hanno già abbandonato il Don, il Gruppo Armate da facoltà al comando d'Armata di ordinare il ripiegamento del C.A. alpino, ma la manovra nemica, intesa ad avvolgere l'ala sinistra dell'Armata, è già in pieno sviluppo con le due branche moventi: a sud, dalla zona di rottura determinata nei giorni precedenti; a nord, da quella creata nel settore della Armata ungherese. Quando all'imbrunire del 17 gennaio il C.A. alpino inizia il ripiegamento, gli ungheresi sono già alla ferrovia Sswoboda - Rossosch, il Corpo Cramer (il Corpo Cramer era stato promesso, in caso di bisogno, all'Armata italiana a sostegno del C.A. alpino e XXIV germanico, ma venne assorbito dalle vicende sul fronte ungherese) (che dipende dalla 2a Armata ungherese) è a nord-ovest di Ostrogoshsk e le punte corazzate avversarie sono già a Postojalyj ed a B.Lipjagj (est di Waluiki), sono cioè in possesso delle principali arterie di comunicazione alle spalle del C.A.
Il processo D'Onofrio, parte 2
Il processo D'Onofrio, seconda parte. Premetto un aspetto molto importante che ha sempre contraddistinto questa pagina: a volte si toccano argomenti scottanti ed ancora oggi delicati; quello che qui tratterò è forse uno dei più significativi da questo punto di vista. Ma detto questo sottolineo che quanto andrò a riportare NON ha alcun fine politico o di parte, ma esclusivamente storico. Sono fatti relativi alla Campagna di Russia ed alle sue conseguenze e come tali vengono riportati. Qualsiasi commento inopportuno da una parte e dall'altra verrà immediatamente cancellato. Chiedo a chi segue la pagina di esporre la propria idea con educazione e rispetto verso chi magari espone pensieri opposti: la storia e non solo la storia ha già condannato chi mandò quei sfortunati ragazzi in Russia e chi contribuì a tenerli più del dovuto.
LA QUERELA PRESENTATA DA EDOARDO D'ONOFRIO.
Ill.mo Sig. Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di ROMA.
È stato in questi giorni pubblicato e viene diffuso in migliaia di copie, sotto il nome "Russia", un cosiddetto numero unico, a cura dell’U.N.I.R.R. (Unione Nazionale Italiani Reduci di Russia) nel quale, a caratteri di scatola, si leggono all'indirizzo di alcuni cittadini italiani e fra essi il sottoscritto Edoardo D'Onofrio, espressioni come le seguenti: "rinnegati postisi a servizio della polizia sovietica, aguzzini" (dei nostri prigionieri dell'Unione Sovietica).
Inoltre in un articolo stampato in grassetto e sotto il titolo: "Edoardo D'Onofrio", si accusa il sottoscritto di avere fra l'altro nei campi di concentramento di Oranki e di Skit, sottoposto ad estenuanti interrogatori dei prigionieri italiani detenuti in quei campi, e ciò alla presenza di un ufficiale dell'N.K.V.D.; che non si trattava di semplici conversazioni politiche come D’Onofrio vorrebbe far credere, ma di veri e propri interrogatori durante i quali veniva messo a verbale quanto il prigioniero rispondeva; che immediatamente dopo la visita di D'Onofrio in quei campi, alcuni dei prigionieri italiani che in quei giorni erano stati sottoposti ad interrogatorio furono allontanati e rinchiusi in campi di punizione; che simili procedimenti avevano il duplice scopo di far crollare prima con lusinghe e poi con esplicite minacce (non tornerà a casa; lei non conosce la Siberia? Allusioni alla famiglia, carcere e simili) la resistenza fisica e morale di questi uomini.
Questo articolo, o dichiarazione che sia, risulta sottoscritto da Domenico Dal Toso - Luigi Avalli - Ivo Emett ecc.
L'essenza e il fine diffamatori di tali pubblicazioni per le espressioni adoperate e per gli addebiti specifici sono palesi e non v’è bisogno di illustrarli, tanto più quando siano messi in relazione col fatto che, precedentemente, il sottoscritto in una polemica sulle colonne di "Risorgimento Liberale", aveva già posto in chiaro la vera natura e la portata democratica e patriottica della propaganda antifascista e antitedesca che il sottoscritto svolse nei suoi contatti coi prigionieri italiani nell'Unione Sovietica, prima e dopo l’8 settembre 1943, propaganda che si svolse all'infuori di qualsiasi ingerenza della polizia sovietica, a servizio della quale, contrariamente alla calunniosa accusa di cui sopra, il sottoscritto non è mai stato.
Del resto l'indole dell’attività politica e propagandistica del sottoscritto sui suoi rapporti con i suoi connazionali, in quel tempo prigionieri nella Unione Sovietica, è consegnata nella collezione del giornale "L'Alba" che sarà esibita, al fine di contribuire all’accertamento della verità. Pertanto il sottoscritto, costituendo le pubblicazioni in parola il reato di diffamazione in suo danno a mezzo della stampa, sporge formale querela, facendo istanza per la punizione dei sigg.:
1) Giorgio Pittaluga, che figura come Direttore della pubblicazione;
2) Ugo Graioni, il cui nome è a sua volta indicato come redattore responsabile;
3) Domenico Dal Toso;
4) Luigi Avalli;
5) Ivo Emett;
quanto agli altri tre, e a chiunque altro ne debba rispondere, limitatamente all’articolo pubblicato a pagina 7, sotto il titolo "Edoardo D'Onofrio".
Relativamente al Pittaluga, direttore, e al Graioni, redattore responsabile, sembra al sottoscritto che, entrambi, e non soltanto il Graioni, debbano rispondere di diffamazione a mezzo della stampa, sia perché trattandosi di pubblicazione non periodica, tutti e due devono considerarsi coautori della pubblicazione stessa, e sono quindi punibili ai sensi dell’art. 57 Cod. Pen., sia perché la figura del redattore responsabile, secondo la recente legge sulla stampa, è stata soppressa, risalendo, in ogni caso di pubblicazioni periodiche, la responsabilità allo stesso direttore.
Con riserva di indicare testimoni o di produrre documenti nonché di costituirsi parte civile, il sottoscritto concede ai querelati la più ampia facoltà di prova in ordine agli addebiti come sopra mossigli.
Elegge infine il proprio domicilio in Roma, via Giosuè Carducci n. 2, presso l’avv. Mario Paone, che delega per tutti gli adempimenti relativi alla presente querela.
Salvo ogni altro diritto. Con osservanza. EDOARDO D'ONOFRIO.
I PROTAGONISTI DEL PROCESSO.
Presso il Tribunale penale di Roma - Sez. X - Aula della 1a Sezione della Corte d'Assise.
Presidente del Collegio: Dott. Vincenzo Carpanzano.
Pubblico Ministero: Dott. Pietro Manca.
I comunisti.
Querelante: Sen. Edoardo D'Onofrio.
Rappresentanti della Parte Civile: Avv. Mario Paone e Avv. Prof. Giuseppe Sotgiu.
I reduci di Russia.
Imputati: Ugo Graioni, Giorgio Pittaluga, Ivo Emett, Domenico Dal Toso, Luigi Avalli.
Collegio di difesa: Avv. Mastino Del Rio e Avv. Rinaldo Taddei.
Imputazione: diffamazione a mezzo stampa di cui agli art. 595 cod. pen. e 13 l. 8 febbraio 1948 n. 47.
LA PRIMA UDIENZA.
Palazzo di Giustizia di Roma - Lunedì 16 maggio 1949.
La tragedia dei nostri soldati in Russia aveva bisogno di una cornice più vasta che non fosse la solita, piccola aula dove quotidianamente i magistrati amministrano giustizia. Per questo, forse, è stato deciso che il giudizio si tenga nell’aula della 1a Sezione della Corte d'Assise; la stessa, per la cronaca, nella quale per sette mesi si svolse il processo a carico dell’ex Maresciallo d'Italia, Rodolfo Graziani.
Ore 9,10 precise: entra il tribunale. Tutti gli imputati sono presenti al loro banco. D'Onofrio, invece, siede ad un tavolo situato al centro del pretorio. La parte dell'aula riservata al pubblico è affollatissima. Curiosità? No! Non è la morbosa curiosità che porta le folle sotto le gabbie e i plotoni di esecuzione. Sono reduci che vogliono rivivere le sofferenze trascorse, attraverso il racconto, che qui dentro si andrà facendo, della loro triste odissea; sono soldati che sperano di ritrovare il commilitone perduto; sono spose, madri, sorelle, fidanzate, amici di chi non è più tornato; è una folla sulla quale il tempo è passato senza riuscire a lenire dolori e sofferenze. È l'Italia che piange ì suoi figli perduti e si erge severa e solenne contro i traditori della patria e della civiltà.
Breve e precisa, la messa a punto del 'responsabile' del numero unico 'Russia', Giorgio Pittaluga, dà il via al dibattito, dopo che il Presidente ha dichiaralo aperta l'udienza. Egli permise la pubblicazione dell’articolo riguardante il sen. D'Onofrio perché ebbe assicurazione dagli autori stessi che tutti i fatti specificati nello scritto erano perfettamente rispondenti alla realtà. Si trattava di un riferimento obiettivo senza alcuna intenzione diffamatoria, fatto col puro e semplice animus narrandi.
Ugo Graioni, il direttore del numero unico, ne dà conferma aggiungendo che molti reduci dalla Russia con i quali ebbe occasione di parlare gli ribadirono l'esattezza dei fatti riassunti nello scritto.
Il primo a narrare quello che accadde ai nostri soldati è l'imputato Domenico Dal Toso, tenente del IV artiglieria alpina della Divisione Cuneense, caduto prigioniero nel gennaio del 1943, trasferito al campo di Krinovaia con una lunga, estenuante marcia forzata.
Dal Toso: 'Partimmo in tremila, arrivammo in millecinquecento. Ci nutrivamo di semi di girasole. Avevamo avuto come viveri per il viaggio, soltanto un filone di pane da 500 grammi. Giunti nel campo di Krinovaia venimmo distribuiti a seconda del rango, in alcuni box simili a quelli dove, nelle scuderie, si rinchiudono i cavalli: in ognuno dei quali eravamo stipati in ventisei persone. Lo spazio era così limitato che era impossibile perfino sdraiarsi. Vi rimanemmo per quattro giorni, senza acqua, prima che ci fosse acconsentito di attingerne da un pozzo. Ci legavamo le gavette alla cintura e ci si spenzolava giù per poter arrivare fino in fondo. Molti, nel tentativo, caddero nell'acqua ed annegarono. L'acqua s'inquinò e non potemmo più berne.
Nel campo, insieme al Dal Toso, si trovava un cappellano militare, padre Turla, il quale era a conoscenza delle tristissime condizioni in cui versavano i prigionieri negli altri campi. Egli disse al Dal Toso che in alcune sezioni riservate ai soldati semplici erano avvenuti addirittura casi di cannibalismo.
'Cannibalismo?' - interrompe qualcuno nell'aula su cui grava una atmosfera di dolore e di morte. Dal Toso: 'Sì. Cannibalismo. Aspettavano che un commilitone morisse e poi ne mangiavano il cuore ed il fegato'.
Un giorno venne al campo un uomo, che dimostrava una quarantina di anni d’età. Nessuno osò domandargli il nome, né lui si preoccupò di dircelo: era un italiano e noi aspettavamo da lui almeno una parola di conforto, in nome di quel vincolo fraterno che dovrebbe unire tutti coloro che sono nati entro gli stessi confini. Rudemente egli ci disse invece che dovevamo ringraziare Dio se ancora non ci avevano fucilato. Più tardi si presentò una commissione russa per trasferire coloro i quali fossero in grado di camminare, in un altro campo di concentramento. L'accertamento per la idoneità consisteva nel fare venti passi davanti alla commissione. Ma tanto era lo sfinimento che molti caddero prima di aver compiuto il percorso di prova. Il ten. Dal Toso fu tra i prescelti.
Dal Toso: 'Lasciammo Krinovaia in 400 ufficiali. Giungemmo ad Oranki in 290. Gli altri erano morti durante il trasferimento compiuto nell’interno di carri bestiame e senza alcun cibo. Nel nuovo campo scoppiò una violenta epidemia di tifo petecchiale. Ma non fu dato altro medicamento che del permanganato. Quando fui trasferito al campo convalescenziario di Skit, pesavo soltanto 39 chili. Durante la permanenza ad Oranki venne per la prima volta il Fiammenghi il quale tenne numerose conferenze ai prigionieri'.
Presidente: 'Cosa vi disse in particolare il Fiammenghi?'.
Dal Toso: 'Voleva conoscere la nostra opinione politica. Egli teneva ad informarci che in Italia le cose andavano molto male. Poiché il Fiammenghi fece capire chiaramente che a coloro i quali si fossero dichiarati antifascisti sarebbe stato concesso un miglioramento del rancio, qualcuno aderì alle nuove idee di cui veniva fatta ampia propaganda. È chiaro che, secondo la prassi del partito bolscevico, per antifascismo doveva intendersi, adesione alle dottrine marxiste'.
L'imputato narra poi come alla fine di luglio arrivò il signor D'Onofrio, il quale radunò gli ufficiali italiani proponendo loro che sottoscrivessero un appello al popolo italiano di incitamento ad abbattere il governo Badoglio e la monarchia. In Italia, come è noto, si era verificato il colpo di stato che aveva rovesciato il governo fascista il 25 luglio 1943.
A domanda del presidente, Dal Toso precisa che il signor D'Onofrio, comunista, si qualificò di professione 'cospiratore'.
Presidente: 'Come, come?...'. Dal Toso: 'Sì, sì, professione «cospiratore». Così ci disse. Egli era accompagnato da un ufficiale della polizia russa. Prima ci parlò a lungo della patria lontana, delle nostre case, delle famiglie, provocando la comprensibile commozione dei presenti. Poi ritornò per farci firmare il famoso appello al popolo. Il cap. Magnani, che era a capo della nostra comunità, rispose a nome di tutti che i soldati e gli ufficiali italiani erano legati da un giuramento al Re e che quindi mai avrebbero potuto firmare un appello del genere. D'Onofrio andò su tutte le furie e la sua reazione fu immediata. Il capitano Magnani fu chiamato dal D'Onofrio ed ebbe con lui, presente un capitano russo, un colloquio durato due ore. Al termine di esso il Magnani aveva il viso stravolto. Il giorno successivo veniva trasferito in altro campo e da allora non s’è saputo più nulla di lui se non che fu rinchiuso in un campo di punizione. D'Onofrio aveva detto: 'Al capitano Magnani ci penso io'.
Come tutti gli altri anche l'imputato dovette subire un interrogatorio, alla presenza di un ufficiale russo, il quale annotava tutte le risposte, al termine del quale il D'Onofrio lo minacciò di non riveder più sua madre se avesse coltivato certe idee di italianità perché in Russia ognuno era controllato e dalla Russia non era facile tornare indietro... In Russia vi erano regioni ancora più fredde, con chiaro riferimento alla deportazione in Siberia.
La lunga deposizione del primo imputato è finita: Dal Toso ha parlato con voce bassa che tradiva una visibile commozione interiore.
Subito dopo viene introdotto il secondo reduce querelato. È il tenente di fanteria della divisione Sforzesca, Luigi Avalli, fatto prigioniero nell’agosto 1942 in Russia. È tutto un racconto di sofferenze senza nome che si riassumono nel desiderio più volte espresso dai prigionieri di essere fucilati piuttosto di continuare a vivere in quegli infernali campi di concentramento. Krinovaja - Minciurinsk - Tamboff: nessuno ne parla eppure erano simili e forse anche peggiori di Meidanek - Buchenwald - Mathausen che tutto il mondo conosce! L'imputato narra le pressioni politiche cui i prigionieri erano sottoposti, con le continue conferenze, le domande, gli interrogatori del Fiammenghi e del D'Onofrio, che richiamavano all'ordine chiunque osasse esprimere opinioni sfavorevoli sul regime sovietico.
Con questa deposizione s’è chiusa la prima udienza. L'atmosfera nell’aula è grave, pesante. Il racconto dei reduci ha lasciato in tutti una penosa impressione.
LA QUERELA PRESENTATA DA EDOARDO D'ONOFRIO.
Ill.mo Sig. Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di ROMA.
È stato in questi giorni pubblicato e viene diffuso in migliaia di copie, sotto il nome "Russia", un cosiddetto numero unico, a cura dell’U.N.I.R.R. (Unione Nazionale Italiani Reduci di Russia) nel quale, a caratteri di scatola, si leggono all'indirizzo di alcuni cittadini italiani e fra essi il sottoscritto Edoardo D'Onofrio, espressioni come le seguenti: "rinnegati postisi a servizio della polizia sovietica, aguzzini" (dei nostri prigionieri dell'Unione Sovietica).
Inoltre in un articolo stampato in grassetto e sotto il titolo: "Edoardo D'Onofrio", si accusa il sottoscritto di avere fra l'altro nei campi di concentramento di Oranki e di Skit, sottoposto ad estenuanti interrogatori dei prigionieri italiani detenuti in quei campi, e ciò alla presenza di un ufficiale dell'N.K.V.D.; che non si trattava di semplici conversazioni politiche come D’Onofrio vorrebbe far credere, ma di veri e propri interrogatori durante i quali veniva messo a verbale quanto il prigioniero rispondeva; che immediatamente dopo la visita di D'Onofrio in quei campi, alcuni dei prigionieri italiani che in quei giorni erano stati sottoposti ad interrogatorio furono allontanati e rinchiusi in campi di punizione; che simili procedimenti avevano il duplice scopo di far crollare prima con lusinghe e poi con esplicite minacce (non tornerà a casa; lei non conosce la Siberia? Allusioni alla famiglia, carcere e simili) la resistenza fisica e morale di questi uomini.
Questo articolo, o dichiarazione che sia, risulta sottoscritto da Domenico Dal Toso - Luigi Avalli - Ivo Emett ecc.
L'essenza e il fine diffamatori di tali pubblicazioni per le espressioni adoperate e per gli addebiti specifici sono palesi e non v’è bisogno di illustrarli, tanto più quando siano messi in relazione col fatto che, precedentemente, il sottoscritto in una polemica sulle colonne di "Risorgimento Liberale", aveva già posto in chiaro la vera natura e la portata democratica e patriottica della propaganda antifascista e antitedesca che il sottoscritto svolse nei suoi contatti coi prigionieri italiani nell'Unione Sovietica, prima e dopo l’8 settembre 1943, propaganda che si svolse all'infuori di qualsiasi ingerenza della polizia sovietica, a servizio della quale, contrariamente alla calunniosa accusa di cui sopra, il sottoscritto non è mai stato.
Del resto l'indole dell’attività politica e propagandistica del sottoscritto sui suoi rapporti con i suoi connazionali, in quel tempo prigionieri nella Unione Sovietica, è consegnata nella collezione del giornale "L'Alba" che sarà esibita, al fine di contribuire all’accertamento della verità. Pertanto il sottoscritto, costituendo le pubblicazioni in parola il reato di diffamazione in suo danno a mezzo della stampa, sporge formale querela, facendo istanza per la punizione dei sigg.:
1) Giorgio Pittaluga, che figura come Direttore della pubblicazione;
2) Ugo Graioni, il cui nome è a sua volta indicato come redattore responsabile;
3) Domenico Dal Toso;
4) Luigi Avalli;
5) Ivo Emett;
quanto agli altri tre, e a chiunque altro ne debba rispondere, limitatamente all’articolo pubblicato a pagina 7, sotto il titolo "Edoardo D'Onofrio".
Relativamente al Pittaluga, direttore, e al Graioni, redattore responsabile, sembra al sottoscritto che, entrambi, e non soltanto il Graioni, debbano rispondere di diffamazione a mezzo della stampa, sia perché trattandosi di pubblicazione non periodica, tutti e due devono considerarsi coautori della pubblicazione stessa, e sono quindi punibili ai sensi dell’art. 57 Cod. Pen., sia perché la figura del redattore responsabile, secondo la recente legge sulla stampa, è stata soppressa, risalendo, in ogni caso di pubblicazioni periodiche, la responsabilità allo stesso direttore.
Con riserva di indicare testimoni o di produrre documenti nonché di costituirsi parte civile, il sottoscritto concede ai querelati la più ampia facoltà di prova in ordine agli addebiti come sopra mossigli.
Elegge infine il proprio domicilio in Roma, via Giosuè Carducci n. 2, presso l’avv. Mario Paone, che delega per tutti gli adempimenti relativi alla presente querela.
Salvo ogni altro diritto. Con osservanza. EDOARDO D'ONOFRIO.
I PROTAGONISTI DEL PROCESSO.
Presso il Tribunale penale di Roma - Sez. X - Aula della 1a Sezione della Corte d'Assise.
Presidente del Collegio: Dott. Vincenzo Carpanzano.
Pubblico Ministero: Dott. Pietro Manca.
I comunisti.
Querelante: Sen. Edoardo D'Onofrio.
Rappresentanti della Parte Civile: Avv. Mario Paone e Avv. Prof. Giuseppe Sotgiu.
I reduci di Russia.
Imputati: Ugo Graioni, Giorgio Pittaluga, Ivo Emett, Domenico Dal Toso, Luigi Avalli.
Collegio di difesa: Avv. Mastino Del Rio e Avv. Rinaldo Taddei.
Imputazione: diffamazione a mezzo stampa di cui agli art. 595 cod. pen. e 13 l. 8 febbraio 1948 n. 47.
LA PRIMA UDIENZA.
Palazzo di Giustizia di Roma - Lunedì 16 maggio 1949.
La tragedia dei nostri soldati in Russia aveva bisogno di una cornice più vasta che non fosse la solita, piccola aula dove quotidianamente i magistrati amministrano giustizia. Per questo, forse, è stato deciso che il giudizio si tenga nell’aula della 1a Sezione della Corte d'Assise; la stessa, per la cronaca, nella quale per sette mesi si svolse il processo a carico dell’ex Maresciallo d'Italia, Rodolfo Graziani.
Ore 9,10 precise: entra il tribunale. Tutti gli imputati sono presenti al loro banco. D'Onofrio, invece, siede ad un tavolo situato al centro del pretorio. La parte dell'aula riservata al pubblico è affollatissima. Curiosità? No! Non è la morbosa curiosità che porta le folle sotto le gabbie e i plotoni di esecuzione. Sono reduci che vogliono rivivere le sofferenze trascorse, attraverso il racconto, che qui dentro si andrà facendo, della loro triste odissea; sono soldati che sperano di ritrovare il commilitone perduto; sono spose, madri, sorelle, fidanzate, amici di chi non è più tornato; è una folla sulla quale il tempo è passato senza riuscire a lenire dolori e sofferenze. È l'Italia che piange ì suoi figli perduti e si erge severa e solenne contro i traditori della patria e della civiltà.
Breve e precisa, la messa a punto del 'responsabile' del numero unico 'Russia', Giorgio Pittaluga, dà il via al dibattito, dopo che il Presidente ha dichiaralo aperta l'udienza. Egli permise la pubblicazione dell’articolo riguardante il sen. D'Onofrio perché ebbe assicurazione dagli autori stessi che tutti i fatti specificati nello scritto erano perfettamente rispondenti alla realtà. Si trattava di un riferimento obiettivo senza alcuna intenzione diffamatoria, fatto col puro e semplice animus narrandi.
Ugo Graioni, il direttore del numero unico, ne dà conferma aggiungendo che molti reduci dalla Russia con i quali ebbe occasione di parlare gli ribadirono l'esattezza dei fatti riassunti nello scritto.
Il primo a narrare quello che accadde ai nostri soldati è l'imputato Domenico Dal Toso, tenente del IV artiglieria alpina della Divisione Cuneense, caduto prigioniero nel gennaio del 1943, trasferito al campo di Krinovaia con una lunga, estenuante marcia forzata.
Dal Toso: 'Partimmo in tremila, arrivammo in millecinquecento. Ci nutrivamo di semi di girasole. Avevamo avuto come viveri per il viaggio, soltanto un filone di pane da 500 grammi. Giunti nel campo di Krinovaia venimmo distribuiti a seconda del rango, in alcuni box simili a quelli dove, nelle scuderie, si rinchiudono i cavalli: in ognuno dei quali eravamo stipati in ventisei persone. Lo spazio era così limitato che era impossibile perfino sdraiarsi. Vi rimanemmo per quattro giorni, senza acqua, prima che ci fosse acconsentito di attingerne da un pozzo. Ci legavamo le gavette alla cintura e ci si spenzolava giù per poter arrivare fino in fondo. Molti, nel tentativo, caddero nell'acqua ed annegarono. L'acqua s'inquinò e non potemmo più berne.
Nel campo, insieme al Dal Toso, si trovava un cappellano militare, padre Turla, il quale era a conoscenza delle tristissime condizioni in cui versavano i prigionieri negli altri campi. Egli disse al Dal Toso che in alcune sezioni riservate ai soldati semplici erano avvenuti addirittura casi di cannibalismo.
'Cannibalismo?' - interrompe qualcuno nell'aula su cui grava una atmosfera di dolore e di morte. Dal Toso: 'Sì. Cannibalismo. Aspettavano che un commilitone morisse e poi ne mangiavano il cuore ed il fegato'.
Un giorno venne al campo un uomo, che dimostrava una quarantina di anni d’età. Nessuno osò domandargli il nome, né lui si preoccupò di dircelo: era un italiano e noi aspettavamo da lui almeno una parola di conforto, in nome di quel vincolo fraterno che dovrebbe unire tutti coloro che sono nati entro gli stessi confini. Rudemente egli ci disse invece che dovevamo ringraziare Dio se ancora non ci avevano fucilato. Più tardi si presentò una commissione russa per trasferire coloro i quali fossero in grado di camminare, in un altro campo di concentramento. L'accertamento per la idoneità consisteva nel fare venti passi davanti alla commissione. Ma tanto era lo sfinimento che molti caddero prima di aver compiuto il percorso di prova. Il ten. Dal Toso fu tra i prescelti.
Dal Toso: 'Lasciammo Krinovaia in 400 ufficiali. Giungemmo ad Oranki in 290. Gli altri erano morti durante il trasferimento compiuto nell’interno di carri bestiame e senza alcun cibo. Nel nuovo campo scoppiò una violenta epidemia di tifo petecchiale. Ma non fu dato altro medicamento che del permanganato. Quando fui trasferito al campo convalescenziario di Skit, pesavo soltanto 39 chili. Durante la permanenza ad Oranki venne per la prima volta il Fiammenghi il quale tenne numerose conferenze ai prigionieri'.
Presidente: 'Cosa vi disse in particolare il Fiammenghi?'.
Dal Toso: 'Voleva conoscere la nostra opinione politica. Egli teneva ad informarci che in Italia le cose andavano molto male. Poiché il Fiammenghi fece capire chiaramente che a coloro i quali si fossero dichiarati antifascisti sarebbe stato concesso un miglioramento del rancio, qualcuno aderì alle nuove idee di cui veniva fatta ampia propaganda. È chiaro che, secondo la prassi del partito bolscevico, per antifascismo doveva intendersi, adesione alle dottrine marxiste'.
L'imputato narra poi come alla fine di luglio arrivò il signor D'Onofrio, il quale radunò gli ufficiali italiani proponendo loro che sottoscrivessero un appello al popolo italiano di incitamento ad abbattere il governo Badoglio e la monarchia. In Italia, come è noto, si era verificato il colpo di stato che aveva rovesciato il governo fascista il 25 luglio 1943.
A domanda del presidente, Dal Toso precisa che il signor D'Onofrio, comunista, si qualificò di professione 'cospiratore'.
Presidente: 'Come, come?...'. Dal Toso: 'Sì, sì, professione «cospiratore». Così ci disse. Egli era accompagnato da un ufficiale della polizia russa. Prima ci parlò a lungo della patria lontana, delle nostre case, delle famiglie, provocando la comprensibile commozione dei presenti. Poi ritornò per farci firmare il famoso appello al popolo. Il cap. Magnani, che era a capo della nostra comunità, rispose a nome di tutti che i soldati e gli ufficiali italiani erano legati da un giuramento al Re e che quindi mai avrebbero potuto firmare un appello del genere. D'Onofrio andò su tutte le furie e la sua reazione fu immediata. Il capitano Magnani fu chiamato dal D'Onofrio ed ebbe con lui, presente un capitano russo, un colloquio durato due ore. Al termine di esso il Magnani aveva il viso stravolto. Il giorno successivo veniva trasferito in altro campo e da allora non s’è saputo più nulla di lui se non che fu rinchiuso in un campo di punizione. D'Onofrio aveva detto: 'Al capitano Magnani ci penso io'.
Come tutti gli altri anche l'imputato dovette subire un interrogatorio, alla presenza di un ufficiale russo, il quale annotava tutte le risposte, al termine del quale il D'Onofrio lo minacciò di non riveder più sua madre se avesse coltivato certe idee di italianità perché in Russia ognuno era controllato e dalla Russia non era facile tornare indietro... In Russia vi erano regioni ancora più fredde, con chiaro riferimento alla deportazione in Siberia.
La lunga deposizione del primo imputato è finita: Dal Toso ha parlato con voce bassa che tradiva una visibile commozione interiore.
Subito dopo viene introdotto il secondo reduce querelato. È il tenente di fanteria della divisione Sforzesca, Luigi Avalli, fatto prigioniero nell’agosto 1942 in Russia. È tutto un racconto di sofferenze senza nome che si riassumono nel desiderio più volte espresso dai prigionieri di essere fucilati piuttosto di continuare a vivere in quegli infernali campi di concentramento. Krinovaja - Minciurinsk - Tamboff: nessuno ne parla eppure erano simili e forse anche peggiori di Meidanek - Buchenwald - Mathausen che tutto il mondo conosce! L'imputato narra le pressioni politiche cui i prigionieri erano sottoposti, con le continue conferenze, le domande, gli interrogatori del Fiammenghi e del D'Onofrio, che richiamavano all'ordine chiunque osasse esprimere opinioni sfavorevoli sul regime sovietico.
Con questa deposizione s’è chiusa la prima udienza. L'atmosfera nell’aula è grave, pesante. Il racconto dei reduci ha lasciato in tutti una penosa impressione.
sabato 6 marzo 2021
Il viaggio del 2011, Nowo Postojalowka
Immagini del mio primo viaggio "esplorativo" effettuato nel 2011... vista parziale del campo di battaglia di Nowo Postojalowka: " ... quella sanguinosa, disperata battaglia che durò, pressoché ininterrotta, per più di trenta ore ed in cui rifulse il sovrumano e sfortunato valore dei battaglioni e dei gruppi della Julia e della Cuneense, che ne uscirono poco meno che distrutti... la più dura, lunga e cruenta fra le molte sostenute dagli alpini, sia in linea sia nel corso del ripiegamento".
mercoledì 3 marzo 2021
Il processo D'Onofrio, parte 1
Il processo D'Onofrio, prima parte. Premetto un aspetto molto importante che ha sempre contraddistinto questa pagina: a volte si toccano argomenti scottanti ed ancora oggi delicati; quello che qui tratterò è forse uno dei più significativi da questo punto di vista. Ma detto questo sottolineo che quanto andrò a riportare NON ha alcun fine politico, ma esclusivamente storico. Sono fatti relativi alla Campagna di Russia ed alle sue conseguenze e come tali vengono narrati. Qualsiasi commento inopportuno verrà immediatamente cancellato; chiedo a chi segue la pagina di esporre la propria idea con educazione e rispetto verso chi magari espone pensieri opposti: la storia e non solo la storia ha già condannato chi mandò quei sfortunati ragazzi in Russia e chi contribuì a tenerli più del dovuto.
Il "processo D'Onofrio" fu intentato proprio dal D'Onofrio, uno dei maggiori dirigenti del partito comunista italiano, nei confronti di alcuni reduci dell'ARM.I.R. - Armata Italiana in Russia, per il numero unico 'Russia', pubblicato dagli stessi, nel quale il D'Onofrio veniva accusato pubblicamente di "aver interrogato, maltrattato, minacciato i nostri soldati prigionieri in Unione Sovietica, oltre ogni legittimo ed umano comportamento".
CHI ERA EDOARDO D'ONOFRIO.
Edoardo D'Onofrio nacque a Roma il 10 febbraio 1901 da Pietro e da Giulia Di Manno. All'età di dodici anni il D'Onofrio si iscrisse alla federazione giovanile socialista militando in vari circoli della capitale. Nel 1917 venne arrestato per la prima volta nel corso di una manifestazione per la pace e alla fine dell'anno entrò a far parte del comitato centrale della federazione giovanile socialista, schierandosi con la corrente di sinistra che si ispirava alla rivoluzione russa. L'anno successivo entrò nel partito socialista e venne arrestato per la seconda volta per aver distribuito volantini antimilitaristi.
Nel 1921 fu al congresso di Livorno e partecipò alla fondazione del partito comunista d'Italia e assunse compiti di direzione della Federazione giovanile comunista. Nel 1922 si recò a Mosca al IV congresso dell'Internazionale. Al rientro in Italia venne subito arrestato e trascorse sei mesi in carcere. Una volta liberato partì clandestinamente per Mosca, ma fu richiamato in Italia nel 1925 per organizzare la federazione giovanile comunista. Arrestato nel 1928, venne condannato dal Tribunale speciale per la difesa dello Stato a 12 anni e 6 mesi di reclusione e a tre anni di libertà vigilata.
Liberato in seguito all'amnistia del 1934, riuscì ad espatriare illegalmente nel giugno 1935 e si rifugiò in Francia. Dopo aver partecipato alla guerra civile spagnola, raggiunge l'Unione Sovietica nel 1939. Qui, nel 1943, venne incaricato della direzione del lavoro politico tra i prigionieri italiani, assunse la direzione de "L'Alba" periodico diffuso nei campi di prigionia e s'impegnò personalmente nelle "attività" che gli verranno addebitate da quei pochissimi nostri prigionieri rientrati in Italia, dopo anni di durissima prigionia. Nel 1945 si trasferì a Roma dove venne eletto segretario delle federazione provinciale romana e successivamente anche segretario regionale per il Lazio e per l'Abruzzo. Ricoprì diversi incarichi di partito e morì a Roma il 14 agosto 1973.
I REDUCI ED IL NUMERO UNICO "RUSSIA".
D'Onofrio durante la sua permanenza nei campi di concentramento di Oranki e di Skit:
1) assistito dal Fiammenghi e alla presenza di un Ufficiale dell'N.K.V.D. ha sottoposto ad estenuanti interrogatori dei prigionieri italiani detenuti in quei campi;
2) non si trattava di semplici conversazioni politiche, come ipocritamente il D'Onofrio vorrebbe far credere, ma di veri e propri interrogatori di carattere politico che spesso duravano delle ore e durante i quali veniva messo a verbale quanto il prigioniero rispondeva;
3) immediatamente dopo la visita di D'Onofrio in quei campi alcuni dei prigionieri italiani che in quei giorni erano stati sottoposti ad interrogatorio furono allontanati e rinchiusi in campi di punizione e ancora oggi alcuni sono trattenuti nei campi di concentramento di Kiev;
4) simili procedimenti avevano il duplice scopo di far crollare prima con lusinghe e poi con esplicite minacce (non ritornerete a casa; lei non conosce la Siberia? allusioni alla famiglia, carcere e simili) la resistenza fisica e morale di questi uomini ridotti dalla fame, dalle malattie, dai maltrattamenti a cadaveri viventi e guadagnare l’adesione degli altri prigionieri intimoriti dall’esempio della sorte toccata a questi.
Il "processo D'Onofrio" fu intentato proprio dal D'Onofrio, uno dei maggiori dirigenti del partito comunista italiano, nei confronti di alcuni reduci dell'ARM.I.R. - Armata Italiana in Russia, per il numero unico 'Russia', pubblicato dagli stessi, nel quale il D'Onofrio veniva accusato pubblicamente di "aver interrogato, maltrattato, minacciato i nostri soldati prigionieri in Unione Sovietica, oltre ogni legittimo ed umano comportamento".
CHI ERA EDOARDO D'ONOFRIO.
Edoardo D'Onofrio nacque a Roma il 10 febbraio 1901 da Pietro e da Giulia Di Manno. All'età di dodici anni il D'Onofrio si iscrisse alla federazione giovanile socialista militando in vari circoli della capitale. Nel 1917 venne arrestato per la prima volta nel corso di una manifestazione per la pace e alla fine dell'anno entrò a far parte del comitato centrale della federazione giovanile socialista, schierandosi con la corrente di sinistra che si ispirava alla rivoluzione russa. L'anno successivo entrò nel partito socialista e venne arrestato per la seconda volta per aver distribuito volantini antimilitaristi.
Nel 1921 fu al congresso di Livorno e partecipò alla fondazione del partito comunista d'Italia e assunse compiti di direzione della Federazione giovanile comunista. Nel 1922 si recò a Mosca al IV congresso dell'Internazionale. Al rientro in Italia venne subito arrestato e trascorse sei mesi in carcere. Una volta liberato partì clandestinamente per Mosca, ma fu richiamato in Italia nel 1925 per organizzare la federazione giovanile comunista. Arrestato nel 1928, venne condannato dal Tribunale speciale per la difesa dello Stato a 12 anni e 6 mesi di reclusione e a tre anni di libertà vigilata.
Liberato in seguito all'amnistia del 1934, riuscì ad espatriare illegalmente nel giugno 1935 e si rifugiò in Francia. Dopo aver partecipato alla guerra civile spagnola, raggiunge l'Unione Sovietica nel 1939. Qui, nel 1943, venne incaricato della direzione del lavoro politico tra i prigionieri italiani, assunse la direzione de "L'Alba" periodico diffuso nei campi di prigionia e s'impegnò personalmente nelle "attività" che gli verranno addebitate da quei pochissimi nostri prigionieri rientrati in Italia, dopo anni di durissima prigionia. Nel 1945 si trasferì a Roma dove venne eletto segretario delle federazione provinciale romana e successivamente anche segretario regionale per il Lazio e per l'Abruzzo. Ricoprì diversi incarichi di partito e morì a Roma il 14 agosto 1973.
I REDUCI ED IL NUMERO UNICO "RUSSIA".
D'Onofrio durante la sua permanenza nei campi di concentramento di Oranki e di Skit:
1) assistito dal Fiammenghi e alla presenza di un Ufficiale dell'N.K.V.D. ha sottoposto ad estenuanti interrogatori dei prigionieri italiani detenuti in quei campi;
2) non si trattava di semplici conversazioni politiche, come ipocritamente il D'Onofrio vorrebbe far credere, ma di veri e propri interrogatori di carattere politico che spesso duravano delle ore e durante i quali veniva messo a verbale quanto il prigioniero rispondeva;
3) immediatamente dopo la visita di D'Onofrio in quei campi alcuni dei prigionieri italiani che in quei giorni erano stati sottoposti ad interrogatorio furono allontanati e rinchiusi in campi di punizione e ancora oggi alcuni sono trattenuti nei campi di concentramento di Kiev;
4) simili procedimenti avevano il duplice scopo di far crollare prima con lusinghe e poi con esplicite minacce (non ritornerete a casa; lei non conosce la Siberia? allusioni alla famiglia, carcere e simili) la resistenza fisica e morale di questi uomini ridotti dalla fame, dalle malattie, dai maltrattamenti a cadaveri viventi e guadagnare l’adesione degli altri prigionieri intimoriti dall’esempio della sorte toccata a questi.
Una tragedia annunciata, parte 5
Riporto la quinta ed ultima parte di un interessantissimo articolo, tutto da leggere, di Nicola Pignato apparso su "Storia Militare" numero 117 del giugno 2003; è un articolo dall'altissima valenza storica che ci permette di conoscere alcuni aspetti della Campagna di Russia, evidentemente fino ad oggi poco evidenziati.
Ci sembra infine il caso di sottolineare alcune inesattezze ancora presenti in lavori recentemente pubblicati e basati più sull'aneddotica che sui documenti. Anzitutto, la "leggenda" secondo la quale in un bollettino Armata rossa il N. 630 - sarebbe comparsa la frase "solo il corpo alpino italiano deve ritenersi imbattuto in terra di Russia". Si sarebbe riferito al fatto che i superstiti della Tridentina, guidati dal generale Reverberi, erano riusciti a spezzare l'accerchiamento dopo un'epica marcia, superando ripetuti sbarramenti nemici (e nonostante le condizioni meteorologiche proibitive), in località Nikolajewka, salvando cosi dalla prigionia (e con tutta probabilità dalla morte) non solo loro stessi, ma una moltitudine di sbandati che si era loro accodata.
Ebbene, in questi ultimi anni un'accurata indagine, recepita anche dall'Associazione Nazionale Alpini, ha dimostrato che mai il Comando sovietico aveva affermato alcunché di simile. Anzi, aveva trionfalmente proclamato la totale distruzione di tutte e tre le divisioni. E gli scampati sarebbero stati molti di più se si fosse stati più accorti: il 20 gennaio a Opit (relazione del gen. Nasci sui fatti d'arme del C.A. Alpino dal 14 gennaio al 21 gennaio 1943, A.C.S., Ministero della Real Casa, UPAC, Serie Speciale, p.9), dove erano concentrati nella sede del comando del C.A. alpino, senza averla apprestata a difesa, i pochi e preziosi mezzi di collegamento radio, questi rimasero distrutti durante un attacco russo; le divisioni alpine Julia e Cuneense restarono cosi senza direttive e i loro comandanti dopo pochi giorni finirono per arrendersi con i superstiti ormai demotivati (la pietà nei confronti dei prigionieri, dei quali solo una piccola percentuale sopravvisse ai maltrattamenti, non può esimerci dal ricordare che taluni di essi si trasformarono in aguzzini dei loro commilitoni e che uno dei tre generali, quando lo incarcerarono - tornò infatti quattro anni dopo i suoi gregari - dichiarò di essere stato deluso dall'accoglienza riservatagli - lui, che con i suoi due parigrado, aveva ricevuto un trattamento di favore - e che non si sarebbe arreso se avesse saputo ciò che l'aspettava. Non tutti avevano la tempra del maggiore - poi, da generale, comandante della brigata alpina Taurinense - Franco Magnani il quale seppe resistere alle minacce ed alle lusinghe anche a costo di scontare una lunga detenzione in campi di punizione e lavori forzati addirittura fino al 1951).
Anche questo episodio ha dello sconcertante: il genio del Corpo d'Armata Alpino era largamente provvisto di moderni apparati radio, tra i quali 4 stazioni autocarreggiate A 350 e 6 A 310. Non è chiaro perché queste fossero state abbandonate a Rossoch (precedente sede del comando) e siano andate distrutte quando quella località fu investita, il 15 gennaio, da un attacco sovietico, restando, una volta che l'altro centro radio di Postojali (con altre 2 RF3C ed 1 R4) era andato perduto il 14, con le sole tre RF3C di Opit. Sia ben chiaro che con queste precisazioni non si vuole sminuire il valore e il coraggio di tanti che si batterono senza risparmio, ma soltanto mettere in evidenza la disorganizzazione dei comandi italo-tedeschi: le eccezionali doti di saldezza delle nostre truppe da montagna, se bene inquadrate e comandate, si sono evidenziate in tante occasioni da non avere bisogno di ulteriori apprezzamenti, specie se di dubbia origine come quelli inventati dai fuorusciti (si veda N. Pignato, Lo sfortunato epilogo della campagna di Russia in "Panorama Difesa", novembre 1998).
La storia del "bollettino" faceva il paio con l'altrettanto assurda menzogna, questa di provata origine sovietica: il cosiddetto "eccidio di Leopoli", dove i tedeschi avrebbero eliminato i superstiti dell'ARM.I.R. Come i lettori sapranno, fu soltanto dopo costose inchieste sollecitate, per non meglio identificati bassi interessi filosovietici, da qualche sprovveduto politico (quando già nel 1964 il Maresciallo Messe, nella 4a edizione delle sue memorie, aveva chiarito che la strage era esistita solo nella fantasia di una povera mitomane) che anch'essa venne clamorosamente smentita. Eppure nel 1988, e poco prima che emergesse la verità, chi scrive, in possesso di numerosi documenti inediti che ne confermavano la falsità, si offri di consegnarli a un quotidiano "d'informazione" perché venissero pubblicati. Ma il giornalista all'uopo contattato si penti di aver accettato la collaborazione e si defilò quasi subito, probabilmente perché una presa di posizione del genere non sarebbe Stata in sintonia con la linea politica della sua redazione.
Accenniamo solamente, poi, alle inesattezze che, insieme con la "favola" del bollettino ancora si riscontrano in un volume apparso ed ampiamente pubblicizzato nel 1998 (A. Petacco, L'armata scomparsa, Milano, Mondatori). Qui, addirittura, il numero degli effettivi dell'8a Armata viene elevato - in quarta di copertina - a ben 250.000 (appena un corpo d'armata in più!); i carri T-34 (pag. 118) raggiungono le 50 tonnellate (come se le 26,5 tonnellate del modello 76 B allora in uso non fossero già abbastanza per assalire fanterie sprovviste di mezzi di contrasto). Si aggiunga che il lettore era Stato già "informato" (p. 16) che il nostro carro L aveva preso questa sigla dalla parola "Littorio" (anziché, essere, come sanno anche i sassi, l'abbreviazione di "leggero") e che pesava, invece delle sue 3,5 tonnellate, quasi un terzo di meno - 2,6 - al fine, forse, di rendere più impressionante la sproporzione! (ovviamente, mai i due modelli di carro ebbero occasione di confrontarsi. In realtà, quasi tutti i carri L3 inviati inviati in Russia nel 1941, all'epoca degli avvenimenti di cui ci occupiamo erano stati eliminati, ed era stato rimpatriato il III Gruppo di cavalleria carrista San Giorgio che li aveva in dotazione; in seguito erano stati inviati alla III Divisione Celere un battaglione di carri L 6/40 - 6,8 t, con mitragliera da 20 - e 24 semoventi da 47 sul medesimo scafo. I primi non dettero buona prova, degli altri non si sa nemmeno se mai trovarono impiego in combattimenti veri e propri).
Sarebbe ora il caso, dopo sessant'anni, di rivedere attentamente queste vicende, per trarne anche gli opportuni ammaestramenti (benché simili fatti non potranno mai ripetersi, almeno in quelle situazioni). Magari, riesaminando lo svolgersi degli avvenimenti avvalendosi di tutti i documenti finalmente disponibili, nonché di quelle testimonianze rese "a caldo" e non mediate o peggio influenzate dall'età e dalle periodiche successive letture. Andrà soprattutto messo in rilievo come, indipendentemente dal tardivo intervento di Roma e dallo scadente armamento di alcune delle nostre divisioni, il comando germanico avesse disatteso in quella occasione i più noti principi dell'arte della guerra. Senza scomodare Jomini, Clausewitz, Foch, Fall e Fuller, vorremmo anticiparne brevemente le motivazioni. Riteniamo possa essere escluso quello della massa (che purtroppo, dato la conformazione dello spiegamento, lineare e sottile per tutti i 270 km tenuti dall'8a Armata, poteva essere messo in atto solo dal nemico a nostro danno), ricordiamo, in primis, quelli dell'iniziativa/offensiva e della manovra (si privilegiò invece una difesa rigida e statica, e il dispositivo era stato previsto in funzione appunto di questa scelta). Fu un grave errore non aver lasciato l'unica divisione motorizzata in riserva e non aver predisposto una riserva d'armata: rinuncia, quindi, ad ogni moltiplicatore di risorse. E anche il non aver previsto la rottura del contatto per un ordinato ripiegamento, visto che non esisteva schieramento in profondità.
Si tenga presente che fino ad allora sembrava che le forze contrapposte fossero equivalenti e che la superiorità numerica dei sovietici potesse essere bilanciata con la qualità e la fiducia in sé stessi propria delle armate germaniche. Altrettanto nefasta si dimostrò l'unitarietà di comando (sia perché questo veniva esercitato da chi non era in grado di valutare sul posto l'evolversi della situazione e quindi non poteva emanare ordini tempestivi, sia per la complessità della catena di comando determinata dalle unità multinazionali presenti nello schieramento). Fu inoltre trascurato il principio dell'economia delle forze: ovvero impiegare solo ciò che è indispensabile al raggiungimento dello scopo (in sostanza, presidiare la riva del Don) e, nella fattispecie, il mancato accorciamento della linea, mediante il quale, invece, si poteva creare una piccola riserva. La mancanza dell'elemento sorpresa era un punto a nostro favore: il 21 settembre 1942, alle 20, il generale Gariboldi aveva avvertito tutti comandanti dei corpi d'armata in sottordine: "L'apparente calma del nemico non illuda nessuno. Alt. est probabile prossima ripresa grossa puntata a largo obiettivo. Alt. Tutti siano preparati con le predisposizioni più opportune dei mezzi a disposizione e di quelli eventualmente e progressivamente assegnati. Alt. Sia data comunicazione di quanto sopra ai comandanti delle dipendenti divisioni. Alt.".
Questo dimostra che c'era tempo per prendere tutti i provvedimenti necessari. Perfino dopo l'inizio dell'offensiva, vi sarebbe stata possibilità, da parte del C.A. alpino, che era fronteggiato da una sola divisione sovietica, di sferrare un attacco diversivo che avrebbe almeno avuto l'effetto di disorientare il nemico. Per ciò che attiene alla sicurezza o alla protezione, mancò infine un'efficace cooperazione aerea (ricognizione e appoggio tattico), specialmente durante la ritirata. Si ricordi la teoria di Clausewitz sulla forza decrescente dell'offensiva, di cui non si tenne alcun conto. Del morale dei nostri, fattore anch'esso tanto caro a Clausewitz, si è già detto: resterebbe da soffermarsi sul problema della disciplina, fattore che - allora come oggi - è il presupposto dell'efficienza di qualsiasi forza armata. Ma a questo riguardo, lasciamo la parola al generale Antonio Ricchezza il quale, nelle considerazioni conclusive stilate al termine di una sua opera (Storia illustrata di tutta la campagna di Russia, Milano, Longanesi, 1972, Vol. III, p.128), si è espresso al riguardo senza mezzi termini: "In Russia occorreva, fin dal primo momento, reagire [allo sfaldamento dei reparti] anche con la fucilazione sul posto degli elementi che abbandonavano le armi".
Ci sembra infine il caso di sottolineare alcune inesattezze ancora presenti in lavori recentemente pubblicati e basati più sull'aneddotica che sui documenti. Anzitutto, la "leggenda" secondo la quale in un bollettino Armata rossa il N. 630 - sarebbe comparsa la frase "solo il corpo alpino italiano deve ritenersi imbattuto in terra di Russia". Si sarebbe riferito al fatto che i superstiti della Tridentina, guidati dal generale Reverberi, erano riusciti a spezzare l'accerchiamento dopo un'epica marcia, superando ripetuti sbarramenti nemici (e nonostante le condizioni meteorologiche proibitive), in località Nikolajewka, salvando cosi dalla prigionia (e con tutta probabilità dalla morte) non solo loro stessi, ma una moltitudine di sbandati che si era loro accodata.
Ebbene, in questi ultimi anni un'accurata indagine, recepita anche dall'Associazione Nazionale Alpini, ha dimostrato che mai il Comando sovietico aveva affermato alcunché di simile. Anzi, aveva trionfalmente proclamato la totale distruzione di tutte e tre le divisioni. E gli scampati sarebbero stati molti di più se si fosse stati più accorti: il 20 gennaio a Opit (relazione del gen. Nasci sui fatti d'arme del C.A. Alpino dal 14 gennaio al 21 gennaio 1943, A.C.S., Ministero della Real Casa, UPAC, Serie Speciale, p.9), dove erano concentrati nella sede del comando del C.A. alpino, senza averla apprestata a difesa, i pochi e preziosi mezzi di collegamento radio, questi rimasero distrutti durante un attacco russo; le divisioni alpine Julia e Cuneense restarono cosi senza direttive e i loro comandanti dopo pochi giorni finirono per arrendersi con i superstiti ormai demotivati (la pietà nei confronti dei prigionieri, dei quali solo una piccola percentuale sopravvisse ai maltrattamenti, non può esimerci dal ricordare che taluni di essi si trasformarono in aguzzini dei loro commilitoni e che uno dei tre generali, quando lo incarcerarono - tornò infatti quattro anni dopo i suoi gregari - dichiarò di essere stato deluso dall'accoglienza riservatagli - lui, che con i suoi due parigrado, aveva ricevuto un trattamento di favore - e che non si sarebbe arreso se avesse saputo ciò che l'aspettava. Non tutti avevano la tempra del maggiore - poi, da generale, comandante della brigata alpina Taurinense - Franco Magnani il quale seppe resistere alle minacce ed alle lusinghe anche a costo di scontare una lunga detenzione in campi di punizione e lavori forzati addirittura fino al 1951).
Anche questo episodio ha dello sconcertante: il genio del Corpo d'Armata Alpino era largamente provvisto di moderni apparati radio, tra i quali 4 stazioni autocarreggiate A 350 e 6 A 310. Non è chiaro perché queste fossero state abbandonate a Rossoch (precedente sede del comando) e siano andate distrutte quando quella località fu investita, il 15 gennaio, da un attacco sovietico, restando, una volta che l'altro centro radio di Postojali (con altre 2 RF3C ed 1 R4) era andato perduto il 14, con le sole tre RF3C di Opit. Sia ben chiaro che con queste precisazioni non si vuole sminuire il valore e il coraggio di tanti che si batterono senza risparmio, ma soltanto mettere in evidenza la disorganizzazione dei comandi italo-tedeschi: le eccezionali doti di saldezza delle nostre truppe da montagna, se bene inquadrate e comandate, si sono evidenziate in tante occasioni da non avere bisogno di ulteriori apprezzamenti, specie se di dubbia origine come quelli inventati dai fuorusciti (si veda N. Pignato, Lo sfortunato epilogo della campagna di Russia in "Panorama Difesa", novembre 1998).
La storia del "bollettino" faceva il paio con l'altrettanto assurda menzogna, questa di provata origine sovietica: il cosiddetto "eccidio di Leopoli", dove i tedeschi avrebbero eliminato i superstiti dell'ARM.I.R. Come i lettori sapranno, fu soltanto dopo costose inchieste sollecitate, per non meglio identificati bassi interessi filosovietici, da qualche sprovveduto politico (quando già nel 1964 il Maresciallo Messe, nella 4a edizione delle sue memorie, aveva chiarito che la strage era esistita solo nella fantasia di una povera mitomane) che anch'essa venne clamorosamente smentita. Eppure nel 1988, e poco prima che emergesse la verità, chi scrive, in possesso di numerosi documenti inediti che ne confermavano la falsità, si offri di consegnarli a un quotidiano "d'informazione" perché venissero pubblicati. Ma il giornalista all'uopo contattato si penti di aver accettato la collaborazione e si defilò quasi subito, probabilmente perché una presa di posizione del genere non sarebbe Stata in sintonia con la linea politica della sua redazione.
Accenniamo solamente, poi, alle inesattezze che, insieme con la "favola" del bollettino ancora si riscontrano in un volume apparso ed ampiamente pubblicizzato nel 1998 (A. Petacco, L'armata scomparsa, Milano, Mondatori). Qui, addirittura, il numero degli effettivi dell'8a Armata viene elevato - in quarta di copertina - a ben 250.000 (appena un corpo d'armata in più!); i carri T-34 (pag. 118) raggiungono le 50 tonnellate (come se le 26,5 tonnellate del modello 76 B allora in uso non fossero già abbastanza per assalire fanterie sprovviste di mezzi di contrasto). Si aggiunga che il lettore era Stato già "informato" (p. 16) che il nostro carro L aveva preso questa sigla dalla parola "Littorio" (anziché, essere, come sanno anche i sassi, l'abbreviazione di "leggero") e che pesava, invece delle sue 3,5 tonnellate, quasi un terzo di meno - 2,6 - al fine, forse, di rendere più impressionante la sproporzione! (ovviamente, mai i due modelli di carro ebbero occasione di confrontarsi. In realtà, quasi tutti i carri L3 inviati inviati in Russia nel 1941, all'epoca degli avvenimenti di cui ci occupiamo erano stati eliminati, ed era stato rimpatriato il III Gruppo di cavalleria carrista San Giorgio che li aveva in dotazione; in seguito erano stati inviati alla III Divisione Celere un battaglione di carri L 6/40 - 6,8 t, con mitragliera da 20 - e 24 semoventi da 47 sul medesimo scafo. I primi non dettero buona prova, degli altri non si sa nemmeno se mai trovarono impiego in combattimenti veri e propri).
Sarebbe ora il caso, dopo sessant'anni, di rivedere attentamente queste vicende, per trarne anche gli opportuni ammaestramenti (benché simili fatti non potranno mai ripetersi, almeno in quelle situazioni). Magari, riesaminando lo svolgersi degli avvenimenti avvalendosi di tutti i documenti finalmente disponibili, nonché di quelle testimonianze rese "a caldo" e non mediate o peggio influenzate dall'età e dalle periodiche successive letture. Andrà soprattutto messo in rilievo come, indipendentemente dal tardivo intervento di Roma e dallo scadente armamento di alcune delle nostre divisioni, il comando germanico avesse disatteso in quella occasione i più noti principi dell'arte della guerra. Senza scomodare Jomini, Clausewitz, Foch, Fall e Fuller, vorremmo anticiparne brevemente le motivazioni. Riteniamo possa essere escluso quello della massa (che purtroppo, dato la conformazione dello spiegamento, lineare e sottile per tutti i 270 km tenuti dall'8a Armata, poteva essere messo in atto solo dal nemico a nostro danno), ricordiamo, in primis, quelli dell'iniziativa/offensiva e della manovra (si privilegiò invece una difesa rigida e statica, e il dispositivo era stato previsto in funzione appunto di questa scelta). Fu un grave errore non aver lasciato l'unica divisione motorizzata in riserva e non aver predisposto una riserva d'armata: rinuncia, quindi, ad ogni moltiplicatore di risorse. E anche il non aver previsto la rottura del contatto per un ordinato ripiegamento, visto che non esisteva schieramento in profondità.
Si tenga presente che fino ad allora sembrava che le forze contrapposte fossero equivalenti e che la superiorità numerica dei sovietici potesse essere bilanciata con la qualità e la fiducia in sé stessi propria delle armate germaniche. Altrettanto nefasta si dimostrò l'unitarietà di comando (sia perché questo veniva esercitato da chi non era in grado di valutare sul posto l'evolversi della situazione e quindi non poteva emanare ordini tempestivi, sia per la complessità della catena di comando determinata dalle unità multinazionali presenti nello schieramento). Fu inoltre trascurato il principio dell'economia delle forze: ovvero impiegare solo ciò che è indispensabile al raggiungimento dello scopo (in sostanza, presidiare la riva del Don) e, nella fattispecie, il mancato accorciamento della linea, mediante il quale, invece, si poteva creare una piccola riserva. La mancanza dell'elemento sorpresa era un punto a nostro favore: il 21 settembre 1942, alle 20, il generale Gariboldi aveva avvertito tutti comandanti dei corpi d'armata in sottordine: "L'apparente calma del nemico non illuda nessuno. Alt. est probabile prossima ripresa grossa puntata a largo obiettivo. Alt. Tutti siano preparati con le predisposizioni più opportune dei mezzi a disposizione e di quelli eventualmente e progressivamente assegnati. Alt. Sia data comunicazione di quanto sopra ai comandanti delle dipendenti divisioni. Alt.".
Questo dimostra che c'era tempo per prendere tutti i provvedimenti necessari. Perfino dopo l'inizio dell'offensiva, vi sarebbe stata possibilità, da parte del C.A. alpino, che era fronteggiato da una sola divisione sovietica, di sferrare un attacco diversivo che avrebbe almeno avuto l'effetto di disorientare il nemico. Per ciò che attiene alla sicurezza o alla protezione, mancò infine un'efficace cooperazione aerea (ricognizione e appoggio tattico), specialmente durante la ritirata. Si ricordi la teoria di Clausewitz sulla forza decrescente dell'offensiva, di cui non si tenne alcun conto. Del morale dei nostri, fattore anch'esso tanto caro a Clausewitz, si è già detto: resterebbe da soffermarsi sul problema della disciplina, fattore che - allora come oggi - è il presupposto dell'efficienza di qualsiasi forza armata. Ma a questo riguardo, lasciamo la parola al generale Antonio Ricchezza il quale, nelle considerazioni conclusive stilate al termine di una sua opera (Storia illustrata di tutta la campagna di Russia, Milano, Longanesi, 1972, Vol. III, p.128), si è espresso al riguardo senza mezzi termini: "In Russia occorreva, fin dal primo momento, reagire [allo sfaldamento dei reparti] anche con la fucilazione sul posto degli elementi che abbandonavano le armi".
domenica 28 febbraio 2021
Il viaggio del 2011, le isbe di Nowo Postojalowka
Immagini del mio primo viaggio "esplorativo" effettuato nel 2011... vecchie isbe a Nowo Postojalowka; tra il 19 ed il20 gennaio 1943 qui si svolse il più rilevante scontro armato, per reparti impegnati e per il numero di caduti, fra le divisioni italiane alpine in ritirata e l'Armata Rossa, dietro le linee del Don.
sabato 27 febbraio 2021
Tambov ricorda
Estate 2016, è il primo viaggio estivo in Russia nella zona tenuta dalla Divisione Pasubio e Torino, dalle Legioni Tagliamento e Montebello. Il programma a suo tempo predisposto prevede anche la visita del lager di Tambov; il pomeriggio del giorno precedente la visita al campo arriviamo in città e abbiamo qualche ora per visitarla.
Lungo un viale principale arriviamo in una grossa piazza che si affaccia ad un parco cittadino recintato; lungo la recinzione sono appesi dei pannelli di notevoli dimensioni che ricordano la "Grande guerra patriotica". Ecco perché ammiro la Russia e i russi: ricordano sempre ed ovunque, anche a distanza di così tanti anni, i loro soldati, sempre e comunque!
Lungo un viale principale arriviamo in una grossa piazza che si affaccia ad un parco cittadino recintato; lungo la recinzione sono appesi dei pannelli di notevoli dimensioni che ricordano la "Grande guerra patriotica". Ecco perché ammiro la Russia e i russi: ricordano sempre ed ovunque, anche a distanza di così tanti anni, i loro soldati, sempre e comunque!
Italiani, brava gente... il film
Ho sempre ritenuto il film "Italiani, brava gente" un film mediocre se non peggio. "Italiani, brava gente" uscì nelle sale italiane il 16 settembre 1964; registi: Giuseppe De Santis e Dmitrij Ivanovič Vasil'ev per una produzione mista Italia e Unione Sovietica. La trama si può così sintetizzare: durante la Seconda Guerra Mondiale un gruppo di soldati italiani si trova in Russia al seguito dell'esercito nazista. Gli uomini però rifiutano la violenza dei tedeschi e finiscono per familiarizzare con alcuni prigionieri sovietici.
Negli anni mi sono sempre chiesto come questo film potesse riscuotere tanto interesse, ma soprattutto mi sono sempre chiesto se fossi l'unico a giudicarlo come sopra indicato; fino a quando ho scoperto una recensione presente in Internet; e non è una recensione di una persona qualsiasi. E' la recensione del Professore Mario Altarui. E non posso che fare mie le parole di Mario Altarui.
Per chi non lo dovesse conoscere Mario Altarui fu un personaggio di un certo rilievo all'interno dell'A.N.A.; fondatore e direttore responsabile del periodico "Fiamme Verdi", periodico appunto della sezione di Conegliano dell'A.N.A.; il suo nome si collega alla realizzazione del Bosco delle "Penne Mozze", del quale fu il promotore ed il responsabile geloso (link https://it.wikipedia.org/wiki/Bosco_delle_Penne_Mozze).
La recensione che qui riporto per intero è verificabile al link http://www.anaconegliano.it/fiammeverdi/ nella data Dicembre 1964.
"Nella mia città - decorate di medaglia, d’oro al valore militare - era in programma (in un cinema di proprietà del Comune e a gestione privata) il film ITALIANI BRAVA GENTE; era proprio il 4 Novembre (nei giorni precedenti era apparsa Sui giornali la preghiera che la pellicola non venisse proiettata almeno per quel giorno) e, in vena di peccato pure io, vi andai. Sono state le mie quattrocento lire peggio spese dell’anno. Ho detto all’inizio che come film sovietico il lavoro di De Santis può andare, ma è doveroso precisare che ciò è ammissibile per quanto concerne la finalità e il contenuto poiché sarebbe un’offesa pensare che i russi producano film di un livello artistico così scadente; ma, anche per quanto concerne l’essenza del film è da porre dubbi che i russi sarebbero da soli caduti in una retorica tanto bolsa e puerile.
Ad ogni modo la pellicola ha avuto la sua presentazione con la serie dei nomi dei... realizzatori (stavo per dire «responsabili») quasi tutti evidenziati in coppia come innamorati: uno italiano e uno russo, uno russo e l’altro italiano e così via. I fatti descritti - che il produttore Giuseppe De Santis afferma come «incontestabili» anche per quanto concerne i luoghi descritti - sono stati contestati proprio dal Gen. Chiaramonti che al tempo degli avvenimenti era colonnello e che, comandando il reparto operante nella precisata zona del Bug, si è sentito identificato nella figura del comandante peraltro interpretata in modo encomiabile da Andrea Checchi. Ritenendo che il produttore non sia esattamente informato, io propendo a credere più al Generale Chiaramonti che a Giuseppe De Santis.
Il film meriterebbe un’ampia descrizione ma devo tralasciare molti dettagli anche perché non afferravo spesso il dialogo quasi sempre dialettale dei soldati italiani mentre risultava che i russi capivano benissimo il romanesco, il bergamasco e il napoletano. Il film si basa sulla seguente classificazione ormai giunta alla noia: - i russi tutti eroici e generosi; la popolazione russa paziente, sprezzante e perseguitata; - i tedeschi tutti carogne con l’attenuante dei disertori; e ci hanno messo anche qui i cani perché, essendoci una razza di «pastori tedeschi» sembra necessario dimostrare che anche i cani erano sanguinose SS che abbaiavano «Heil Hitler»; - i fascisti altrettante carogne: ladri, stupratori, sbruffoni, vili, ecc.; - gli italiani (cioè i soldati dell’esercito), di volta in volta ingenui, scadenti nelle azioni, disertori, con gli ufficiali rassegnati e il sergente fetente e vile: in sostanza, dei bravi imbecilli anziché della brava gente.
Parte degli spettatori rideva alle battute di Raffaele che impersonava il soldato Libero Gabrielli; una delle più belle (e commoventi) era appunto quella del soldato Gabrielli che riferì quanto li padre gli disse alla partenza: «Vieni a caso se no t’ammazzo!» E la gente rideva, come quando i soldati dicevano che i morti fertilizzavano la terra meglio del concime ed infine quando Gabrielli disse: «Non potevano lasciarmi a casa? Soldato più, soldato meno; qui (ridendo) siamo tutti dei militi ignoti; eh! (con evidente riferimento) io il monumento ce l’ho già! ».
Un soldato riceve una lettera da casa dopo un anno (ed è una balla) con la notizia che gli è morto il nonno; e allora il soggettista gli fa dire, quasi che fosse una cosa spiritosa: «Ma come faccio a piangere la morte del nonno dopo un anno?!». A questa scenata gli spettatori ridono. Penosa era la scena della retata di popolazione russa che canta impavida l’Internazionale malgrado le botte dei tedeschi. Vero ma avvenuto in Grecia l’episodio del soldato Sanna (sardo e non pugliese di Cerignola) che rompe la faccia a testate a un tedesco che gl’impediva di dare un pezzo di pane a colui che aveva iniziato a cantare; il fatto riguarda invece l’offerta del pane a un bambino greco affamato, e se a qualcuno interessa descriverò la circostanza in altra occasione.
Quella dei soldati che rubano gli orologi è una pagliacciata anche perché si vedevano (nel film) contadinelle prive persino di sottoveste e di scarpe ma con un orologio al polso di fabbricazione almeno svizzera, di foggia modernissima ed elegante cinturino, che si sentiva lontano un miglio ch’era appena uscito di negozio. La popolazione dava dei fascista a tutti i nostri soldati con un coraggioso disprezzo degno di miglior causa. I fascisti hanno nel film una intensa citazione. Razziatori e saccheggiatori, inseguitori di ragazze con tentativo di violenza in cinque o sei per una (evidente ingenerosa copiatura, anche nei particolari fotografici, dell’analoga sequenza del film «La ciociara» il cui fondamento storico è chiaramente provato grazie alla «civiltà» del Comando Alleato in Italia!) e provvidenziale intervento del soldato Gabrielli che fa però dedurre che non in tutti i casi può esserci stato un nostro soldato ad intervenire con bombe a mano. Tant’è vero che, per punizione provocata dal comandante delle camicie nere, il reparto del nostro esercito viene rinviato in prima linea.
Sul maggiore (mi sembra che si dicesse «seniore») delle camicie nere c’è tutta una storia e quando arriva a bordo di un’autoblinda (in uno stadio con l’enorme scritta «vincere» e quadri di Mussolini, scritte fasciste, ecc.) si prende una palla di neve in testa mentre esce dal portello. Questo ipotetico comandante dei «superarditi» fascisti si dimostra violento (schiaffeggia un cuciniere), accusa di disfattismo gli altri (e tira fuori il «tutti eroi o tutti accoppati»), insubordinato nei confronti del colonnello, vile fingendo di essere mutilato di una mano che poi risulta essere ben sana per guidare un camion nella ritirata e per sparare a due nostri militari finendo poi male (linciato forse come parrebbe significare quel guanto nero abbandonato sulla neve) per la reazione dei soldati.
Tanto per non mettere dubbi che anche tra i soldati dell’esercito c’erano dei sanguinari fascisti, l’estensore del film inventa un sergente feroce (gli americani creano per i loro film i sergenti che da soli vincono la guerra: e fa altrettanto schifo) che dà dei traditori ai propri subordinati e che ammazza vilmente un soldato russo che allegramente si contende, con un nostro soldato, il possesso di una candida lepre uccisa tra le due opposte trincee. Anche per questa scena il regista ha usato i due prototipi di soldati: il russo gigantesco, dall’infantile espressione di vigorosa bontà e che muore con una smorfia d’incredulità e di rassegnato disprezzo; il nostro soldato esile e con un’espressione quasi ebete che, colpito, cade col viso contratto in una grinta rabbiosa e maledicente.
Altra figura ridicola il film riserva al tenente medico: napoletano, lavativo, raccomandato, con addosso un impermeabilino borghese bianco che usano i signorini di oggi e non di vent’anni fa. Avviene che il capo partigiano (quello che in precedenza aveva solennemente iniziato a cantare l’Internazionale) si reca a chiedere l’aiuto del medico italiano per curare un ferito russo ed offrendo se stesso quale ostaggio. Finalmente, dopo un dialogo in cui la titubanza dei nostri è contrapposta alla fermezza del partigiano, il tenente medico parte con i russi e durante il viaggio parla in napoletano e i russi lo capiscono ed ascoltano con facciotte bonarie; perché non si sporchi i lucidi stivali lo portano persino in braccio, e lui - pazzerello - che parla un po’ di tutto chiedendo tra l’altro: «Ma se siete atei come fate a bestemmiare?!». Intanto se la prende comoda, non si lascia bendare che da una sfolgorante partigiana e cura il ferito (la dottoressa russa è ferita ad una mano!) e viene alla fine anche festeggiato. Al ritorno una pattuglia tedesca ammazza medico ed accompagnatori (questi, tanto per cambiare, avevano reagito con immediatezza) e gli italiani, non vedendo tornare il proprio medico, impiccano il partigiano.
Questa circostanza (e la data 12-4-1942) è stata confrontata dal Generale Chiaromonti prima citato, come pure la fucilazione di alcuni borghesi russi come vendetta per aver fatto saltare una fabbrica che poi in realtà non è mai esistita. Naturalmente, in tutti i combattimenti, si vede che pochi russi fanno fuori centinaia di nostri soldati (scene la film western americani!); persino un carrista, avuto il mezzo immobilizzato (per un guasto, eh!) esce decisamente dal portello col mitra e fa fuori almeno un plotone italiano.
Quando poi i russi sfondano il fronte le sequenze del film diventane caotiche; alla fine il colonnello italiano è costretto ad arrendersi e, mentre raccoglie lentamente le piastrine di riconoscimento dei morti ai quali rivolge il saluto col rituale «Onore ai Caduti», i russi tutti attorno se ne stanno buoni e comprensivi ad osservare! Beh! Adesso sono anche stufo di raccontarvele tutte, ma avrete capito ugualmente che, salvo qualche limitatissimo pregio, il film fa veramente disgusto soprattutto pensando che esso è stato realizzato pestando anche materialmente quel terreno e quella neve che ancora ricoprono i resti dei nostri soldati.
I realizzatori del film hanno reso un pessimo servizio proprio ai russi. Anzitutto perché vogliono mettere in ridicolo il nazionalismo (che non piace nemmeno a noi essendo una degenerazione del vero patriottismo) che è stata la più potente leva con la quale il comando russo ha agito sui sentimenti del popolo e dell’esercito, e soprattutto perché, con «Italiani brava gente», hanno sminuito la vittoria dell’esercito sovietico sull’eroismo del quale noi non vagliamo porre dubbi.
Infatti, se due soli russi eliminavano mezzo reggimento italiano e pochi cosacchi sfasciavano con tanta facilità le divisioni tedesche, si deduce che quella dei russi è una gloriuzza da Ragazzi della via Paal. Non è forse meglio ammettere che, pur essendosi rivelato invincibile, l’esercito russo ebbe dei degni avversari? Italiani e tedeschi che, pur nella diffusa poca convinzione di vittoria, hanno fatto costare ai russi milioni di morti alla memoria dei quali, egregio Signor De Santis, io m’inchino con la stessa pietà che nutro per i nostri Caduti verso i quali sento, come differenziazione, un fraterno sconfinato e dolente affetto.
Prima di chiudere voglie dire ai lettori come ho terminato la mia giornata del 4 Novembre. Ho acceso il televisore al programma musicale «Napoli contro tutti» che sul finire prevedeva un accordo tra «nordisti» e «sudisti» della canzone italiana; poiché all’orizzonte della canzone appariva il quartetto inglese dei Beatles, giunse a cavallo Domenico Modugno (mi scuso: il Commendatore al Merito della Repubblica Italiana Sig. Domenico Modugno) il quale proclamò dall’alto del suo destriero: NON CANTI LO STRANIERO! E poiché mi sembrava che, su imitazione del bollettino della vittoria del 4 Novembre, egli declamasse che i Beatles sarebbero stati rigettati oltre la Manica ecc., mi buttai sul televisore spegnendolo, e me n’andai a letto".
Negli anni mi sono sempre chiesto come questo film potesse riscuotere tanto interesse, ma soprattutto mi sono sempre chiesto se fossi l'unico a giudicarlo come sopra indicato; fino a quando ho scoperto una recensione presente in Internet; e non è una recensione di una persona qualsiasi. E' la recensione del Professore Mario Altarui. E non posso che fare mie le parole di Mario Altarui.
Per chi non lo dovesse conoscere Mario Altarui fu un personaggio di un certo rilievo all'interno dell'A.N.A.; fondatore e direttore responsabile del periodico "Fiamme Verdi", periodico appunto della sezione di Conegliano dell'A.N.A.; il suo nome si collega alla realizzazione del Bosco delle "Penne Mozze", del quale fu il promotore ed il responsabile geloso (link https://it.wikipedia.org/wiki/Bosco_delle_Penne_Mozze).
La recensione che qui riporto per intero è verificabile al link http://www.anaconegliano.it/fiammeverdi/ nella data Dicembre 1964.
"Nella mia città - decorate di medaglia, d’oro al valore militare - era in programma (in un cinema di proprietà del Comune e a gestione privata) il film ITALIANI BRAVA GENTE; era proprio il 4 Novembre (nei giorni precedenti era apparsa Sui giornali la preghiera che la pellicola non venisse proiettata almeno per quel giorno) e, in vena di peccato pure io, vi andai. Sono state le mie quattrocento lire peggio spese dell’anno. Ho detto all’inizio che come film sovietico il lavoro di De Santis può andare, ma è doveroso precisare che ciò è ammissibile per quanto concerne la finalità e il contenuto poiché sarebbe un’offesa pensare che i russi producano film di un livello artistico così scadente; ma, anche per quanto concerne l’essenza del film è da porre dubbi che i russi sarebbero da soli caduti in una retorica tanto bolsa e puerile.
Ad ogni modo la pellicola ha avuto la sua presentazione con la serie dei nomi dei... realizzatori (stavo per dire «responsabili») quasi tutti evidenziati in coppia come innamorati: uno italiano e uno russo, uno russo e l’altro italiano e così via. I fatti descritti - che il produttore Giuseppe De Santis afferma come «incontestabili» anche per quanto concerne i luoghi descritti - sono stati contestati proprio dal Gen. Chiaramonti che al tempo degli avvenimenti era colonnello e che, comandando il reparto operante nella precisata zona del Bug, si è sentito identificato nella figura del comandante peraltro interpretata in modo encomiabile da Andrea Checchi. Ritenendo che il produttore non sia esattamente informato, io propendo a credere più al Generale Chiaramonti che a Giuseppe De Santis.
Il film meriterebbe un’ampia descrizione ma devo tralasciare molti dettagli anche perché non afferravo spesso il dialogo quasi sempre dialettale dei soldati italiani mentre risultava che i russi capivano benissimo il romanesco, il bergamasco e il napoletano. Il film si basa sulla seguente classificazione ormai giunta alla noia: - i russi tutti eroici e generosi; la popolazione russa paziente, sprezzante e perseguitata; - i tedeschi tutti carogne con l’attenuante dei disertori; e ci hanno messo anche qui i cani perché, essendoci una razza di «pastori tedeschi» sembra necessario dimostrare che anche i cani erano sanguinose SS che abbaiavano «Heil Hitler»; - i fascisti altrettante carogne: ladri, stupratori, sbruffoni, vili, ecc.; - gli italiani (cioè i soldati dell’esercito), di volta in volta ingenui, scadenti nelle azioni, disertori, con gli ufficiali rassegnati e il sergente fetente e vile: in sostanza, dei bravi imbecilli anziché della brava gente.
Parte degli spettatori rideva alle battute di Raffaele che impersonava il soldato Libero Gabrielli; una delle più belle (e commoventi) era appunto quella del soldato Gabrielli che riferì quanto li padre gli disse alla partenza: «Vieni a caso se no t’ammazzo!» E la gente rideva, come quando i soldati dicevano che i morti fertilizzavano la terra meglio del concime ed infine quando Gabrielli disse: «Non potevano lasciarmi a casa? Soldato più, soldato meno; qui (ridendo) siamo tutti dei militi ignoti; eh! (con evidente riferimento) io il monumento ce l’ho già! ».
Un soldato riceve una lettera da casa dopo un anno (ed è una balla) con la notizia che gli è morto il nonno; e allora il soggettista gli fa dire, quasi che fosse una cosa spiritosa: «Ma come faccio a piangere la morte del nonno dopo un anno?!». A questa scenata gli spettatori ridono. Penosa era la scena della retata di popolazione russa che canta impavida l’Internazionale malgrado le botte dei tedeschi. Vero ma avvenuto in Grecia l’episodio del soldato Sanna (sardo e non pugliese di Cerignola) che rompe la faccia a testate a un tedesco che gl’impediva di dare un pezzo di pane a colui che aveva iniziato a cantare; il fatto riguarda invece l’offerta del pane a un bambino greco affamato, e se a qualcuno interessa descriverò la circostanza in altra occasione.
Quella dei soldati che rubano gli orologi è una pagliacciata anche perché si vedevano (nel film) contadinelle prive persino di sottoveste e di scarpe ma con un orologio al polso di fabbricazione almeno svizzera, di foggia modernissima ed elegante cinturino, che si sentiva lontano un miglio ch’era appena uscito di negozio. La popolazione dava dei fascista a tutti i nostri soldati con un coraggioso disprezzo degno di miglior causa. I fascisti hanno nel film una intensa citazione. Razziatori e saccheggiatori, inseguitori di ragazze con tentativo di violenza in cinque o sei per una (evidente ingenerosa copiatura, anche nei particolari fotografici, dell’analoga sequenza del film «La ciociara» il cui fondamento storico è chiaramente provato grazie alla «civiltà» del Comando Alleato in Italia!) e provvidenziale intervento del soldato Gabrielli che fa però dedurre che non in tutti i casi può esserci stato un nostro soldato ad intervenire con bombe a mano. Tant’è vero che, per punizione provocata dal comandante delle camicie nere, il reparto del nostro esercito viene rinviato in prima linea.
Sul maggiore (mi sembra che si dicesse «seniore») delle camicie nere c’è tutta una storia e quando arriva a bordo di un’autoblinda (in uno stadio con l’enorme scritta «vincere» e quadri di Mussolini, scritte fasciste, ecc.) si prende una palla di neve in testa mentre esce dal portello. Questo ipotetico comandante dei «superarditi» fascisti si dimostra violento (schiaffeggia un cuciniere), accusa di disfattismo gli altri (e tira fuori il «tutti eroi o tutti accoppati»), insubordinato nei confronti del colonnello, vile fingendo di essere mutilato di una mano che poi risulta essere ben sana per guidare un camion nella ritirata e per sparare a due nostri militari finendo poi male (linciato forse come parrebbe significare quel guanto nero abbandonato sulla neve) per la reazione dei soldati.
Tanto per non mettere dubbi che anche tra i soldati dell’esercito c’erano dei sanguinari fascisti, l’estensore del film inventa un sergente feroce (gli americani creano per i loro film i sergenti che da soli vincono la guerra: e fa altrettanto schifo) che dà dei traditori ai propri subordinati e che ammazza vilmente un soldato russo che allegramente si contende, con un nostro soldato, il possesso di una candida lepre uccisa tra le due opposte trincee. Anche per questa scena il regista ha usato i due prototipi di soldati: il russo gigantesco, dall’infantile espressione di vigorosa bontà e che muore con una smorfia d’incredulità e di rassegnato disprezzo; il nostro soldato esile e con un’espressione quasi ebete che, colpito, cade col viso contratto in una grinta rabbiosa e maledicente.
Altra figura ridicola il film riserva al tenente medico: napoletano, lavativo, raccomandato, con addosso un impermeabilino borghese bianco che usano i signorini di oggi e non di vent’anni fa. Avviene che il capo partigiano (quello che in precedenza aveva solennemente iniziato a cantare l’Internazionale) si reca a chiedere l’aiuto del medico italiano per curare un ferito russo ed offrendo se stesso quale ostaggio. Finalmente, dopo un dialogo in cui la titubanza dei nostri è contrapposta alla fermezza del partigiano, il tenente medico parte con i russi e durante il viaggio parla in napoletano e i russi lo capiscono ed ascoltano con facciotte bonarie; perché non si sporchi i lucidi stivali lo portano persino in braccio, e lui - pazzerello - che parla un po’ di tutto chiedendo tra l’altro: «Ma se siete atei come fate a bestemmiare?!». Intanto se la prende comoda, non si lascia bendare che da una sfolgorante partigiana e cura il ferito (la dottoressa russa è ferita ad una mano!) e viene alla fine anche festeggiato. Al ritorno una pattuglia tedesca ammazza medico ed accompagnatori (questi, tanto per cambiare, avevano reagito con immediatezza) e gli italiani, non vedendo tornare il proprio medico, impiccano il partigiano.
Questa circostanza (e la data 12-4-1942) è stata confrontata dal Generale Chiaromonti prima citato, come pure la fucilazione di alcuni borghesi russi come vendetta per aver fatto saltare una fabbrica che poi in realtà non è mai esistita. Naturalmente, in tutti i combattimenti, si vede che pochi russi fanno fuori centinaia di nostri soldati (scene la film western americani!); persino un carrista, avuto il mezzo immobilizzato (per un guasto, eh!) esce decisamente dal portello col mitra e fa fuori almeno un plotone italiano.
Quando poi i russi sfondano il fronte le sequenze del film diventane caotiche; alla fine il colonnello italiano è costretto ad arrendersi e, mentre raccoglie lentamente le piastrine di riconoscimento dei morti ai quali rivolge il saluto col rituale «Onore ai Caduti», i russi tutti attorno se ne stanno buoni e comprensivi ad osservare! Beh! Adesso sono anche stufo di raccontarvele tutte, ma avrete capito ugualmente che, salvo qualche limitatissimo pregio, il film fa veramente disgusto soprattutto pensando che esso è stato realizzato pestando anche materialmente quel terreno e quella neve che ancora ricoprono i resti dei nostri soldati.
I realizzatori del film hanno reso un pessimo servizio proprio ai russi. Anzitutto perché vogliono mettere in ridicolo il nazionalismo (che non piace nemmeno a noi essendo una degenerazione del vero patriottismo) che è stata la più potente leva con la quale il comando russo ha agito sui sentimenti del popolo e dell’esercito, e soprattutto perché, con «Italiani brava gente», hanno sminuito la vittoria dell’esercito sovietico sull’eroismo del quale noi non vagliamo porre dubbi.
Infatti, se due soli russi eliminavano mezzo reggimento italiano e pochi cosacchi sfasciavano con tanta facilità le divisioni tedesche, si deduce che quella dei russi è una gloriuzza da Ragazzi della via Paal. Non è forse meglio ammettere che, pur essendosi rivelato invincibile, l’esercito russo ebbe dei degni avversari? Italiani e tedeschi che, pur nella diffusa poca convinzione di vittoria, hanno fatto costare ai russi milioni di morti alla memoria dei quali, egregio Signor De Santis, io m’inchino con la stessa pietà che nutro per i nostri Caduti verso i quali sento, come differenziazione, un fraterno sconfinato e dolente affetto.
Prima di chiudere voglie dire ai lettori come ho terminato la mia giornata del 4 Novembre. Ho acceso il televisore al programma musicale «Napoli contro tutti» che sul finire prevedeva un accordo tra «nordisti» e «sudisti» della canzone italiana; poiché all’orizzonte della canzone appariva il quartetto inglese dei Beatles, giunse a cavallo Domenico Modugno (mi scuso: il Commendatore al Merito della Repubblica Italiana Sig. Domenico Modugno) il quale proclamò dall’alto del suo destriero: NON CANTI LO STRANIERO! E poiché mi sembrava che, su imitazione del bollettino della vittoria del 4 Novembre, egli declamasse che i Beatles sarebbero stati rigettati oltre la Manica ecc., mi buttai sul televisore spegnendolo, e me n’andai a letto".
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