mercoledì 3 marzo 2021

Il processo D'Onofrio, parte 1

Il processo D'Onofrio, prima parte. Premetto un aspetto molto importante che ha sempre contraddistinto questa pagina: a volte si toccano argomenti scottanti ed ancora oggi delicati; quello che qui tratterò è forse uno dei più significativi da questo punto di vista. Ma detto questo sottolineo che quanto andrò a riportare NON ha alcun fine politico, ma esclusivamente storico. Sono fatti relativi alla Campagna di Russia ed alle sue conseguenze e come tali vengono narrati. Qualsiasi commento inopportuno verrà immediatamente cancellato; chiedo a chi segue la pagina di esporre la propria idea con educazione e rispetto verso chi magari espone pensieri opposti: la storia e non solo la storia ha già condannato chi mandò quei sfortunati ragazzi in Russia e chi contribuì a tenerli più del dovuto.

Il "processo D'Onofrio" fu intentato proprio dal D'Onofrio, uno dei maggiori dirigenti del partito comunista italiano, nei confronti di alcuni reduci dell'ARM.I.R. - Armata Italiana in Russia, per il numero unico 'Russia', pubblicato dagli stessi, nel quale il D'Onofrio veniva accusato pubblicamente di "aver interrogato, maltrattato, minacciato i nostri soldati prigionieri in Unione Sovietica, oltre ogni legittimo ed umano comportamento".

CHI ERA EDOARDO D'ONOFRIO.

Edoardo D'Onofrio nacque a Roma il 10 febbraio 1901 da Pietro e da Giulia Di Manno. All'età di dodici anni il D'Onofrio si iscrisse alla federazione giovanile socialista militando in vari circoli della capitale. Nel 1917 venne arrestato per la prima volta nel corso di una manifestazione per la pace e alla fine dell'anno entrò a far parte del comitato centrale della federazione giovanile socialista, schierandosi con la corrente di sinistra che si ispirava alla rivoluzione russa. L'anno successivo entrò nel partito socialista e venne arrestato per la seconda volta per aver distribuito volantini antimilitaristi.

Nel 1921 fu al congresso di Livorno e partecipò alla fondazione del partito comunista d'Italia e assunse compiti di direzione della Federazione giovanile comunista. Nel 1922 si recò a Mosca al IV congresso dell'Internazionale. Al rientro in Italia venne subito arrestato e trascorse sei mesi in carcere. Una volta liberato partì clandestinamente per Mosca, ma fu richiamato in Italia nel 1925 per organizzare la federazione giovanile comunista. Arrestato nel 1928, venne condannato dal Tribunale speciale per la difesa dello Stato a 12 anni e 6 mesi di reclusione e a tre anni di libertà vigilata.

Liberato in seguito all'amnistia del 1934, riuscì ad espatriare illegalmente nel giugno 1935 e si rifugiò in Francia. Dopo aver partecipato alla guerra civile spagnola, raggiunge l'Unione Sovietica nel 1939. Qui, nel 1943, venne incaricato della direzione del lavoro politico tra i prigionieri italiani, assunse la direzione de "L'Alba" periodico diffuso nei campi di prigionia e s'impegnò personalmente nelle "attività" che gli verranno addebitate da quei pochissimi nostri prigionieri rientrati in Italia, dopo anni di durissima prigionia. Nel 1945 si trasferì a Roma dove venne eletto segretario delle federazione provinciale romana e successivamente anche segretario regionale per il Lazio e per l'Abruzzo. Ricoprì diversi incarichi di partito e morì a Roma il 14 agosto 1973.

I REDUCI ED IL NUMERO UNICO "RUSSIA".

D'Onofrio durante la sua permanenza nei campi di concentramento di Oranki e di Skit:

1) assistito dal Fiammenghi e alla presenza di un Ufficiale dell'N.K.V.D. ha sottoposto ad estenuanti interrogatori dei prigionieri italiani detenuti in quei campi;

2) non si trattava di semplici conversazioni politiche, come ipocritamente il D'Onofrio vorrebbe far credere, ma di veri e propri interrogatori di carattere politico che spesso duravano delle ore e durante i quali veniva messo a verbale quanto il prigioniero rispondeva;

3) immediatamente dopo la visita di D'Onofrio in quei campi alcuni dei prigionieri italiani che in quei giorni erano stati sottoposti ad interrogatorio furono allontanati e rinchiusi in campi di punizione e ancora oggi alcuni sono trattenuti nei campi di concentramento di Kiev;

4) simili procedimenti avevano il duplice scopo di far crollare prima con lusinghe e poi con esplicite minacce (non ritornerete a casa; lei non conosce la Siberia? allusioni alla famiglia, carcere e simili) la resistenza fisica e morale di questi uomini ridotti dalla fame, dalle malattie, dai maltrattamenti a cadaveri viventi e guadagnare l’adesione degli altri prigionieri intimoriti dall’esempio della sorte toccata a questi.

Una tragedia annunciata, parte 5

Riporto la quinta ed ultima parte di un interessantissimo articolo, tutto da leggere, di Nicola Pignato apparso su "Storia Militare" numero 117 del giugno 2003; è un articolo dall'altissima valenza storica che ci permette di conoscere alcuni aspetti della Campagna di Russia, evidentemente fino ad oggi poco evidenziati.

Ci sembra infine il caso di sottolineare alcune inesattezze ancora presenti in lavori recentemente pubblicati e basati più sull'aneddotica che sui documenti. Anzitutto, la "leggenda" secondo la quale in un bollettino Armata rossa il N. 630 - sarebbe comparsa la frase "solo il corpo alpino italiano deve ritenersi imbattuto in terra di Russia". Si sarebbe riferito al fatto che i superstiti della Tridentina, guidati dal generale Reverberi, erano riusciti a spezzare l'accerchiamento dopo un'epica marcia, superando ripetuti sbarramenti nemici (e nonostante le condizioni meteorologiche proibitive), in località Nikolajewka, salvando cosi dalla prigionia (e con tutta probabilità dalla morte) non solo loro stessi, ma una moltitudine di sbandati che si era loro accodata.

Ebbene, in questi ultimi anni un'accurata indagine, recepita anche dall'Associazione Nazionale Alpini, ha dimostrato che mai il Comando sovietico aveva affermato alcunché di simile. Anzi, aveva trionfalmente proclamato la totale distruzione di tutte e tre le divisioni. E gli scampati sarebbero stati molti di più se si fosse stati più accorti: il 20 gennaio a Opit (relazione del gen. Nasci sui fatti d'arme del C.A. Alpino dal 14 gennaio al 21 gennaio 1943, A.C.S., Ministero della Real Casa, UPAC, Serie Speciale, p.9), dove erano concentrati nella sede del comando del C.A. alpino, senza averla apprestata a difesa, i pochi e preziosi mezzi di collegamento radio, questi rimasero distrutti durante un attacco russo; le divisioni alpine Julia e Cuneense restarono cosi senza direttive e i loro comandanti dopo pochi giorni finirono per arrendersi con i superstiti ormai demotivati (la pietà nei confronti dei prigionieri, dei quali solo una piccola percentuale sopravvisse ai maltrattamenti, non può esimerci dal ricordare che taluni di essi si trasformarono in aguzzini dei loro commilitoni e che uno dei tre generali, quando lo incarcerarono - tornò infatti quattro anni dopo i suoi gregari - dichiarò di essere stato deluso dall'accoglienza riservatagli - lui, che con i suoi due parigrado, aveva ricevuto un trattamento di favore - e che non si sarebbe arreso se avesse saputo ciò che l'aspettava. Non tutti avevano la tempra del maggiore - poi, da generale, comandante della brigata alpina Taurinense - Franco Magnani il quale seppe resistere alle minacce ed alle lusinghe anche a costo di scontare una lunga detenzione in campi di punizione e lavori forzati addirittura fino al 1951).

Anche questo episodio ha dello sconcertante: il genio del Corpo d'Armata Alpino era largamente provvisto di moderni apparati radio, tra i quali 4 stazioni autocarreggiate A 350 e 6 A 310. Non è chiaro perché queste fossero state abbandonate a Rossoch (precedente sede del comando) e siano andate distrutte quando quella località fu investita, il 15 gennaio, da un attacco sovietico, restando, una volta che l'altro centro radio di Postojali (con altre 2 RF3C ed 1 R4) era andato perduto il 14, con le sole tre RF3C di Opit. Sia ben chiaro che con queste precisazioni non si vuole sminuire il valore e il coraggio di tanti che si batterono senza risparmio, ma soltanto mettere in evidenza la disorganizzazione dei comandi italo-tedeschi: le eccezionali doti di saldezza delle nostre truppe da montagna, se bene inquadrate e comandate, si sono evidenziate in tante occasioni da non avere bisogno di ulteriori apprezzamenti, specie se di dubbia origine come quelli inventati dai fuorusciti (si veda N. Pignato, Lo sfortunato epilogo della campagna di Russia in "Panorama Difesa", novembre 1998).

La storia del "bollettino" faceva il paio con l'altrettanto assurda menzogna, questa di provata origine sovietica: il cosiddetto "eccidio di Leopoli", dove i tedeschi avrebbero eliminato i superstiti dell'ARM.I.R. Come i lettori sapranno, fu soltanto dopo costose inchieste sollecitate, per non meglio identificati bassi interessi filosovietici, da qualche sprovveduto politico (quando già nel 1964 il Maresciallo Messe, nella 4a edizione delle sue memorie, aveva chiarito che la strage era esistita solo nella fantasia di una povera mitomane) che anch'essa venne clamorosamente smentita. Eppure nel 1988, e poco prima che emergesse la verità, chi scrive, in possesso di numerosi documenti inediti che ne confermavano la falsità, si offri di consegnarli a un quotidiano "d'informazione" perché venissero pubblicati. Ma il giornalista all'uopo contattato si penti di aver accettato la collaborazione e si defilò quasi subito, probabilmente perché una presa di posizione del genere non sarebbe Stata in sintonia con la linea politica della sua redazione.

Accenniamo solamente, poi, alle inesattezze che, insieme con la "favola" del bollettino ancora si riscontrano in un volume apparso ed ampiamente pubblicizzato nel 1998 (A. Petacco, L'armata scomparsa, Milano, Mondatori). Qui, addirittura, il numero degli effettivi dell'8a Armata viene elevato - in quarta di copertina - a ben 250.000 (appena un corpo d'armata in più!); i carri T-34 (pag. 118) raggiungono le 50 tonnellate (come se le 26,5 tonnellate del modello 76 B allora in uso non fossero già abbastanza per assalire fanterie sprovviste di mezzi di contrasto). Si aggiunga che il lettore era Stato già "informato" (p. 16) che il nostro carro L aveva preso questa sigla dalla parola "Littorio" (anziché, essere, come sanno anche i sassi, l'abbreviazione di "leggero") e che pesava, invece delle sue 3,5 tonnellate, quasi un terzo di meno - 2,6 - al fine, forse, di rendere più impressionante la sproporzione! (ovviamente, mai i due modelli di carro ebbero occasione di confrontarsi. In realtà, quasi tutti i carri L3 inviati inviati in Russia nel 1941, all'epoca degli avvenimenti di cui ci occupiamo erano stati eliminati, ed era stato rimpatriato il III Gruppo di cavalleria carrista San Giorgio che li aveva in dotazione; in seguito erano stati inviati alla III Divisione Celere un battaglione di carri L 6/40 - 6,8 t, con mitragliera da 20 - e 24 semoventi da 47 sul medesimo scafo. I primi non dettero buona prova, degli altri non si sa nemmeno se mai trovarono impiego in combattimenti veri e propri).

Sarebbe ora il caso, dopo sessant'anni, di rivedere attentamente queste vicende, per trarne anche gli opportuni ammaestramenti (benché simili fatti non potranno mai ripetersi, almeno in quelle situazioni). Magari, riesaminando lo svolgersi degli avvenimenti avvalendosi di tutti i documenti finalmente disponibili, nonché di quelle testimonianze rese "a caldo" e non mediate o peggio influenzate dall'età e dalle periodiche successive letture. Andrà soprattutto messo in rilievo come, indipendentemente dal tardivo intervento di Roma e dallo scadente armamento di alcune delle nostre divisioni, il comando germanico avesse disatteso in quella occasione i più noti principi dell'arte della guerra. Senza scomodare Jomini, Clausewitz, Foch, Fall e Fuller, vorremmo anticiparne brevemente le motivazioni. Riteniamo possa essere escluso quello della massa (che purtroppo, dato la conformazione dello spiegamento, lineare e sottile per tutti i 270 km tenuti dall'8a Armata, poteva essere messo in atto solo dal nemico a nostro danno), ricordiamo, in primis, quelli dell'iniziativa/offensiva e della manovra (si privilegiò invece una difesa rigida e statica, e il dispositivo era stato previsto in funzione appunto di questa scelta). Fu un grave errore non aver lasciato l'unica divisione motorizzata in riserva e non aver predisposto una riserva d'armata: rinuncia, quindi, ad ogni moltiplicatore di risorse. E anche il non aver previsto la rottura del contatto per un ordinato ripiegamento, visto che non esisteva schieramento in profondità.

Si tenga presente che fino ad allora sembrava che le forze contrapposte fossero equivalenti e che la superiorità numerica dei sovietici potesse essere bilanciata con la qualità e la fiducia in sé stessi propria delle armate germaniche. Altrettanto nefasta si dimostrò l'unitarietà di comando (sia perché questo veniva esercitato da chi non era in grado di valutare sul posto l'evolversi della situazione e quindi non poteva emanare ordini tempestivi, sia per la complessità della catena di comando determinata dalle unità multinazionali presenti nello schieramento). Fu inoltre trascurato il principio dell'economia delle forze: ovvero impiegare solo ciò che è indispensabile al raggiungimento dello scopo (in sostanza, presidiare la riva del Don) e, nella fattispecie, il mancato accorciamento della linea, mediante il quale, invece, si poteva creare una piccola riserva. La mancanza dell'elemento sorpresa era un punto a nostro favore: il 21 settembre 1942, alle 20, il generale Gariboldi aveva avvertito tutti comandanti dei corpi d'armata in sottordine: "L'apparente calma del nemico non illuda nessuno. Alt. est probabile prossima ripresa grossa puntata a largo obiettivo. Alt. Tutti siano preparati con le predisposizioni più opportune dei mezzi a disposizione e di quelli eventualmente e progressivamente assegnati. Alt. Sia data comunicazione di quanto sopra ai comandanti delle dipendenti divisioni. Alt.".

Questo dimostra che c'era tempo per prendere tutti i provvedimenti necessari. Perfino dopo l'inizio dell'offensiva, vi sarebbe stata possibilità, da parte del C.A. alpino, che era fronteggiato da una sola divisione sovietica, di sferrare un attacco diversivo che avrebbe almeno avuto l'effetto di disorientare il nemico. Per ciò che attiene alla sicurezza o alla protezione, mancò infine un'efficace cooperazione aerea (ricognizione e appoggio tattico), specialmente durante la ritirata. Si ricordi la teoria di Clausewitz sulla forza decrescente dell'offensiva, di cui non si tenne alcun conto. Del morale dei nostri, fattore anch'esso tanto caro a Clausewitz, si è già detto: resterebbe da soffermarsi sul problema della disciplina, fattore che - allora come oggi - è il presupposto dell'efficienza di qualsiasi forza armata. Ma a questo riguardo, lasciamo la parola al generale Antonio Ricchezza il quale, nelle considerazioni conclusive stilate al termine di una sua opera (Storia illustrata di tutta la campagna di Russia, Milano, Longanesi, 1972, Vol. III, p.128), si è espresso al riguardo senza mezzi termini: "In Russia occorreva, fin dal primo momento, reagire [allo sfaldamento dei reparti] anche con la fucilazione sul posto degli elementi che abbandonavano le armi".

domenica 28 febbraio 2021

Il viaggio del 2011, le isbe di Nowo Postojalowka

Immagini del mio primo viaggio "esplorativo" effettuato nel 2011... vecchie isbe a Nowo Postojalowka; tra il 19 ed il20 gennaio 1943 qui si svolse il più rilevante scontro armato, per reparti impegnati e per il numero di caduti, fra le divisioni italiane alpine in ritirata e l'Armata Rossa, dietro le linee del Don.



sabato 27 febbraio 2021

Tambov ricorda

Estate 2016, è il primo viaggio estivo in Russia nella zona tenuta dalla Divisione Pasubio e Torino, dalle Legioni Tagliamento e Montebello. Il programma a suo tempo predisposto prevede anche la visita del lager di Tambov; il pomeriggio del giorno precedente la visita al campo arriviamo in città e abbiamo qualche ora per visitarla.

Lungo un viale principale arriviamo in una grossa piazza che si affaccia ad un parco cittadino recintato; lungo la recinzione sono appesi dei pannelli di notevoli dimensioni che ricordano la "Grande guerra patriotica". Ecco perché ammiro la Russia e i russi: ricordano sempre ed ovunque, anche a distanza di così tanti anni, i loro soldati, sempre e comunque!













































Italiani, brava gente... il film

Ho sempre ritenuto il film "Italiani, brava gente" un film mediocre se non peggio. "Italiani, brava gente" uscì nelle sale italiane il 16 settembre 1964; registi: Giuseppe De Santis e Dmitrij Ivanovič Vasil'ev per una produzione mista Italia e Unione Sovietica. La trama si può così sintetizzare: durante la Seconda Guerra Mondiale un gruppo di soldati italiani si trova in Russia al seguito dell'esercito nazista. Gli uomini però rifiutano la violenza dei tedeschi e finiscono per familiarizzare con alcuni prigionieri sovietici.

Negli anni mi sono sempre chiesto come questo film potesse riscuotere tanto interesse, ma soprattutto mi sono sempre chiesto se fossi l'unico a giudicarlo come sopra indicato; fino a quando ho scoperto una recensione presente in Internet; e non è una recensione di una persona qualsiasi. E' la recensione del Professore Mario Altarui. E non posso che fare mie le parole di Mario Altarui.

Per chi non lo dovesse conoscere Mario Altarui fu un personaggio di un certo rilievo all'interno dell'A.N.A.; fondatore e direttore responsabile del periodico "Fiamme Verdi", periodico appunto della sezione di Conegliano dell'A.N.A.; il suo nome si collega alla realizzazione del Bosco delle "Penne Mozze", del quale fu il promotore ed il responsabile geloso (link https://it.wikipedia.org/wiki/Bosco_delle_Penne_Mozze).

La recensione che qui riporto per intero è verificabile al link http://www.anaconegliano.it/fiammeverdi/ nella data Dicembre 1964.

"Nella mia città - decorate di medaglia, d’oro al valore militare - era in programma (in un cinema di proprietà del Comune e a gestione privata) il film ITALIANI BRAVA GENTE; era proprio il 4 Novembre (nei giorni precedenti era apparsa Sui giornali la preghiera che la pellicola non venisse proiettata almeno per quel giorno) e, in vena di peccato pure io, vi andai. Sono state le mie quattrocento lire peggio spese dell’anno. Ho detto all’inizio che come film sovietico il lavoro di De Santis può andare, ma è doveroso precisare che ciò è ammissibile per quanto concerne la finalità e il contenuto poiché sarebbe un’offesa pensare che i russi producano film di un livello artistico così scadente; ma, anche per quanto concerne l’essenza del film è da porre dubbi che i russi sarebbero da soli caduti in una retorica tanto bolsa e puerile.

Ad ogni modo la pellicola ha avuto la sua presentazione con la serie dei nomi dei... realizzatori (stavo per dire «responsabili») quasi tutti evidenziati in coppia come innamorati: uno italiano e uno russo, uno russo e l’altro italiano e così via. I fatti descritti - che il produttore Giuseppe De Santis afferma come «incontestabili» anche per quanto concerne i luoghi descritti - sono stati contestati proprio dal Gen. Chiaramonti che al tempo degli avvenimenti era colonnello e che, comandando il reparto operante nella precisata zona del Bug, si è sentito identificato nella figura del comandante peraltro interpretata in modo encomiabile da Andrea Checchi. Ritenendo che il produttore non sia esattamente informato, io propendo a credere più al Generale Chiaramonti che a Giuseppe De Santis.

Il film meriterebbe un’ampia descrizione ma devo tralasciare molti dettagli anche perché non afferravo spesso il dialogo quasi sempre dialettale dei soldati italiani mentre risultava che i russi capivano benissimo il romanesco, il bergamasco e il napoletano. Il film si basa sulla seguente classificazione ormai giunta alla noia: - i russi tutti eroici e generosi; la popolazione russa paziente, sprezzante e perseguitata; - i tedeschi tutti carogne con l’attenuante dei disertori; e ci hanno messo anche qui i cani perché, essendoci una razza di «pastori tedeschi» sembra necessario dimostrare che anche i cani erano sanguinose SS che abbaiavano «Heil Hitler»; - i fascisti altrettante carogne: ladri, stupratori, sbruffoni, vili, ecc.; - gli italiani (cioè i soldati dell’esercito), di volta in volta ingenui, scadenti nelle azioni, disertori, con gli ufficiali rassegnati e il sergente fetente e vile: in sostanza, dei bravi imbecilli anziché della brava gente.

Parte degli spettatori rideva alle battute di Raffaele che impersonava il soldato Libero Gabrielli; una delle più belle (e commoventi) era appunto quella del soldato Gabrielli che riferì quanto li padre gli disse alla partenza: «Vieni a caso se no t’ammazzo!» E la gente rideva, come quando i soldati dicevano che i morti fertilizzavano la terra meglio del concime ed infine quando Gabrielli disse: «Non potevano lasciarmi a casa? Soldato più, soldato meno; qui (ridendo) siamo tutti dei militi ignoti; eh! (con evidente riferimento) io il monumento ce l’ho già! ».

Un soldato riceve una lettera da casa dopo un anno (ed è una balla) con la notizia che gli è morto il nonno; e allora il soggettista gli fa dire, quasi che fosse una cosa spiritosa: «Ma come faccio a piangere la morte del nonno dopo un anno?!». A questa scenata gli spettatori ridono. Penosa era la scena della retata di popolazione russa che canta impavida l’Internazionale malgrado le botte dei tedeschi. Vero ma avvenuto in Grecia l’episodio del soldato Sanna (sardo e non pugliese di Cerignola) che rompe la faccia a testate a un tedesco che gl’impediva di dare un pezzo di pane a colui che aveva iniziato a cantare; il fatto riguarda invece l’offerta del pane a un bambino greco affamato, e se a qualcuno interessa descriverò la circostanza in altra occasione.

Quella dei soldati che rubano gli orologi è una pagliacciata anche perché si vedevano (nel film) contadinelle prive persino di sottoveste e di scarpe ma con un orologio al polso di fabbricazione almeno svizzera, di foggia modernissima ed elegante cinturino, che si sentiva lontano un miglio ch’era appena uscito di negozio. La popolazione dava dei fascista a tutti i nostri soldati con un coraggioso disprezzo degno di miglior causa. I fascisti hanno nel film una intensa citazione. Razziatori e saccheggiatori, inseguitori di ragazze con tentativo di violenza in cinque o sei per una (evidente ingenerosa copiatura, anche nei particolari fotografici, dell’analoga sequenza del film «La ciociara» il cui fondamento storico è chiaramente provato grazie alla «civiltà» del Comando Alleato in Italia!) e provvidenziale intervento del soldato Gabrielli che fa però dedurre che non in tutti i casi può esserci stato un nostro soldato ad intervenire con bombe a mano. Tant’è vero che, per punizione provocata dal comandante delle camicie nere, il reparto del nostro esercito viene rinviato in prima linea.

Sul maggiore (mi sembra che si dicesse «seniore») delle camicie nere c’è tutta una storia e quando arriva a bordo di un’autoblinda (in uno stadio con l’enorme scritta «vincere» e quadri di Mussolini, scritte fasciste, ecc.) si prende una palla di neve in testa mentre esce dal portello. Questo ipotetico comandante dei «superarditi» fascisti si dimostra violento (schiaffeggia un cuciniere), accusa di disfattismo gli altri (e tira fuori il «tutti eroi o tutti accoppati»), insubordinato nei confronti del colonnello, vile fingendo di essere mutilato di una mano che poi risulta essere ben sana per guidare un camion nella ritirata e per sparare a due nostri militari finendo poi male (linciato forse come parrebbe significare quel guanto nero abbandonato sulla neve) per la reazione dei soldati.

Tanto per non mettere dubbi che anche tra i soldati dell’esercito c’erano dei sanguinari fascisti, l’estensore del film inventa un sergente feroce (gli americani creano per i loro film i sergenti che da soli vincono la guerra: e fa altrettanto schifo) che dà dei traditori ai propri subordinati e che ammazza vilmente un soldato russo che allegramente si contende, con un nostro soldato, il possesso di una candida lepre uccisa tra le due opposte trincee. Anche per questa scena il regista ha usato i due prototipi di soldati: il russo gigantesco, dall’infantile espressione di vigorosa bontà e che muore con una smorfia d’incredulità e di rassegnato disprezzo; il nostro soldato esile e con un’espressione quasi ebete che, colpito, cade col viso contratto in una grinta rabbiosa e maledicente.

Altra figura ridicola il film riserva al tenente medico: napoletano, lavativo, raccomandato, con addosso un impermeabilino borghese bianco che usano i signorini di oggi e non di vent’anni fa. Avviene che il capo partigiano (quello che in precedenza aveva solennemente iniziato a cantare l’Internazionale) si reca a chiedere l’aiuto del medico italiano per curare un ferito russo ed offrendo se stesso quale ostaggio. Finalmente, dopo un dialogo in cui la titubanza dei nostri è contrapposta alla fermezza del partigiano, il tenente medico parte con i russi e durante il viaggio parla in napoletano e i russi lo capiscono ed ascoltano con facciotte bonarie; perché non si sporchi i lucidi stivali lo portano persino in braccio, e lui - pazzerello - che parla un po’ di tutto chiedendo tra l’altro: «Ma se siete atei come fate a bestemmiare?!». Intanto se la prende comoda, non si lascia bendare che da una sfolgorante partigiana e cura il ferito (la dottoressa russa è ferita ad una mano!) e viene alla fine anche festeggiato. Al ritorno una pattuglia tedesca ammazza medico ed accompagnatori (questi, tanto per cambiare, avevano reagito con immediatezza) e gli italiani, non vedendo tornare il proprio medico, impiccano il partigiano.

Questa circostanza (e la data 12-4-1942) è stata confrontata dal Generale Chiaromonti prima citato, come pure la fucilazione di alcuni borghesi russi come vendetta per aver fatto saltare una fabbrica che poi in realtà non è mai esistita. Naturalmente, in tutti i combattimenti, si vede che pochi russi fanno fuori centinaia di nostri soldati (scene la film western americani!); persino un carrista, avuto il mezzo immobilizzato (per un guasto, eh!) esce decisamente dal portello col mitra e fa fuori almeno un plotone italiano.

Quando poi i russi sfondano il fronte le sequenze del film diventane caotiche; alla fine il colonnello italiano è costretto ad arrendersi e, mentre raccoglie lentamente le piastrine di riconoscimento dei morti ai quali rivolge il saluto col rituale «Onore ai Caduti», i russi tutti attorno se ne stanno buoni e comprensivi ad osservare! Beh! Adesso sono anche stufo di raccontarvele tutte, ma avrete capito ugualmente che, salvo qualche limitatissimo pregio, il film fa veramente disgusto soprattutto pensando che esso è stato realizzato pestando anche materialmente quel terreno e quella neve che ancora ricoprono i resti dei nostri soldati.

I realizzatori del film hanno reso un pessimo servizio proprio ai russi. Anzitutto perché vogliono mettere in ridicolo il nazionalismo (che non piace nemmeno a noi essendo una degenerazione del vero patriottismo) che è stata la più potente leva con la quale il comando russo ha agito sui sentimenti del popolo e dell’esercito, e soprattutto perché, con «Italiani brava gente», hanno sminuito la vittoria dell’esercito sovietico sull’eroismo del quale noi non vagliamo porre dubbi.

Infatti, se due soli russi eliminavano mezzo reggimento italiano e pochi cosacchi sfasciavano con tanta facilità le divisioni tedesche, si deduce che quella dei russi è una gloriuzza da Ragazzi della via Paal. Non è forse meglio ammettere che, pur essendosi rivelato invincibile, l’esercito russo ebbe dei degni avversari? Italiani e tedeschi che, pur nella diffusa poca convinzione di vittoria, hanno fatto costare ai russi milioni di morti alla memoria dei quali, egregio Signor De Santis, io m’inchino con la stessa pietà che nutro per i nostri Caduti verso i quali sento, come differenziazione, un fraterno sconfinato e dolente affetto.

Prima di chiudere voglie dire ai lettori come ho terminato la mia giornata del 4 Novembre. Ho acceso il televisore al programma musicale «Napoli contro tutti» che sul finire prevedeva un accordo tra «nordisti» e «sudisti» della canzone italiana; poiché all’orizzonte della canzone appariva il quartetto inglese dei Beatles, giunse a cavallo Domenico Modugno (mi scuso: il Commendatore al Merito della Repubblica Italiana Sig. Domenico Modugno) il quale proclamò dall’alto del suo destriero: NON CANTI LO STRANIERO! E poiché mi sembrava che, su imitazione del bollettino della vittoria del 4 Novembre, egli declamasse che i Beatles sarebbero stati rigettati oltre la Manica ecc., mi buttai sul televisore spegnendolo, e me n’andai a letto".

martedì 23 febbraio 2021

La Milizia in Russia

Della Milizia in Russia si parla sempre poco, perché associata inevitabilmente al regime; ma se scindiamo la politica dalla storia (unico argomento di cui si tratta e si vuole trattare in questa pagina), non possiamo che riconoscere a quegli uomini dei meriti militari che vanno al di là di quanto viene ancor oggi loro attribuito. So che diversi parenti dei legionari in Russia seguono questa pagina e sono certo che farà loro piacere questo scritto. E come sempre parlano i numeri: dei legionari ed ufficiali partiti per la Russia in più riprese (la Legione Tagliamento con lo CSIR nel 1941; i suoi rimpiazzi, la Legione Montebello, la Legione Leonessa e la Legione Valle Scrivia con l'ARMIR nel 1942) rimanevano sul campo circa il 90% dei comandanti di battaglione, il 70% degli ufficiali e il 55% dei militi.

Ho scelto quale fotografia per descriverne la composizione, quella del Seniore (Maggiore) Giacomo Comincioli, comandante del XV Battaglione "M", Gruppo CC.NN. "Leonessa" insignito di 4 Medaglie d'argento al Valor Militare e di 2 Medaglie di bronzo al Valor Militare. Durante la Grande Guerra fu in forza al Battaglione "Monte Cavento" appartenente al 5º Reggimento alpini; si distinse particolarmente come comandante di un plotone di Arditi durante gli scontri sull'Adamello. In suo ricordo è stata posto un medaglione con inciso il suo nome al centro della grande Croce posta sulla cima dell'Adamello, e la sezione dell'Associazione Volontari di Guerra di Brescia porta il suo nome. Il 25 maggio 1999 è stata posta una lapide in suo ricordo presso la Chiesa degli Alpini di Boario Terme.

Di seguito la composizione delle CC.NN. in Russia al momento dell'offensiva sovietica nell'inverno 1942-1943.

RAGGRUPPAMENTO CAMICIE NERE "3 GENNAIO" (Riserva di Corpo d'Armata)
Comandante: Console Generale Filippo Diamanti; successivamente Console Generale Alessandro Lusana
- Comando

Gruppo Battaglioni Camicie Nere "Tagliamento"
Comandante: Console Nicolò Nicchiarelli; dal 1° ottobre 1942 Console Domenico Mittica; successivamente Primo Seniore Mario Rosmino; successivamente Console Antonio Galardo
Cappellano: Centurione Don Guglielmo Biasutti (rimpatriato per malattia); Centurione Don Giuseppe Cante (caduto)
- Comando
- LXIII (63°) Btg.Camicie Nere da Montagna "Udine" al comando del Primo Seniore Ermacora Zuliani; successivamente Primo Seniore Mario Rosmino; successivamente Seniore Nazzareno Mezzetti (caduto)
- LXXIX (79°) Btg.Camicie Nere d'Assalto "Reggio Emilia" al comando del Primo Seniore Alberto Patroncini; successivamente Primo Seniore Vincenzo Gamboni; successivamente Seniore Giosué Cangemi (ferito); successivamente Seniore Silvio Margini
- LXIII (63°) Btg.Armi d'Accompagnamento "Sassari" del Regio Esercito al comando del Tenente Colonnello Vittorio De Franco (ferito)

Gruppo Battaglioni Camicie Nere "Montebello"
Comandante: Console Italo Vianini
- Comando
- VI (6°) Btg.Camicie Nere d'Assalto "Vigevano" al comando del Seniore Ottorino Goldoni (caduto)
- XXX (30°) Btg.Camicie Nere d'Assalto "Novara" al comando del Seniore Giovanni Pollini
- XII (12°) Btg.Camicie Nere Armi d'Accompagnamento "Aosta" al comando del Seniore Stefano Superti (caduto)

RAGGRUPPAMENTO CAMICIE NERE "23 MARZO" (Riserva di Corpo d'Armata)
Comandante: Console Generale Enrico Francisci; successivamente Console Generale Ergardo Preti; dal 1° dicembre 1942 Console Generale Luigi Martinesi
- Comando

Gruppo Battaglioni Camicie Nere "Valle Scrivia"
Comandante: Console Mario Bertoni
- Comando
- V (5°) Btg.Camicie Nere d'Assalto "Tortona" al comando del Primo Seniore Giuseppe Masper (caduto)
- XXXIV (34°) Btg.Camicie Nere da Montagna "Savona" al comando del Seniore Roberto Gloria (ferito)
- XLI (41°) Btg.Camicie Nere Armi d'Accompagnamento "Trento" (non si conoscono le generalità del comandante)

Gruppo Battaglioni Camicie Nere "Leonessa"
Comandante Console Graziano Sardu (caduto)
- Comando
- XIV (14°) Btg.Camicie Nere d'Assalto "Bergamo" al comando del Seniore Fortunato Albonetti
- XV (15°) Btg.Camicie Nere d'Assalto "Brescia" al comando del Seniore Giacomo Comincioli (caduto)
- XXXVIII (38°) Btg.Camicie Nere Armi d'Accompagnamento "Asti" al comando del Seniore Francesco Vannini

Una tragedia annunciata, parte 4

Riporto la quarta parte di un interessantissimo articolo, tutto da leggere, di Nicola Pignato apparso su "Storia Militare" numero 117 del giugno 2003; è un articolo dall'altissima valenza storica che ci permette di conoscere alcuni aspetti della Campagna di Russia, evidentemente fino ad oggi poco evidenziati.

SUPERFICIALITA' O INETTITUDINE?

Fin qui, l'"appunto". Ci si consenta tuttavia qualche osservazione. Anzitutto. la testimonianza avvalora la tesi che fu un errore sottrarre il comando ad un esperto generale come Giovanni Messe (il quale doveva essere promosso dopo sei mesi Maresciallo d'Italia!). Non v'è dubbio infatti che questi sarebbe Stato per carattere meglio in grado di imporsi alla prepotenza dell'alleato, in quanto già a conoscenza dell'ambiente, del territorio e dell'avversario ed avrebbe difficilmente accettato, tra l'altro, di schierare in pianura una grande unità alpina inviata per operare in montagna (e di conseguenza opportunamente addestrata ed equipaggiata - come sostiene B.H. Liddel Hart (op.cit., vol. I, pp. 368-369), gli ampi spazi della Russia, che in precedenza presentavano all'attaccante sempre ottime occasioni per compiere manovre aggiranti, alla fine del 1942 avevano finito per ritorcersi contro i tedeschi, riducendo sempre più la loro capacità di tenere in modo adeguato un fronte così esteso).

Né ci dà una buona impressione la testimonianza relativa al generale Gariboldi, il quale di fronte ad una imminente catastrofe si limitava a trattare con l'inviato del ministro (e Comandante Supremo) unicamente questioni del tutto marginali. Ma, forse, e sempre a nostro parere, nemmeno la scelta di Messe poteva essere sufficiente ad evitare il disastro. C'è il sospetto che neanche l'ex comandante del C.S.I.R. si fosse reso conto dello scarso morale delle truppe, il quale non poteva abbassarsi cosi repentinamente in qualche mese soltanto a causa della decisione di procedere, improvvisamente e nell'imminenza di una battaglia decisiva, ad avvicendamenti dei veterani con personale inesperto e ad invii in licenza... senza ritorno (Pietro Bonabello, L'8a Armata italiana nella seconda battaglia difensiva del Don in "Rivista Militare" 1/1984). In relazione poi, a quanto poteva accadere agli ufficiali se fatti prigionieri, i sovietici (e purtroppo se ne aveva già la riprova) non erano meno feroci degli abissini e dei repubblicani spagnoli, in casi analoghi e... quando ne facevano. Tuttavia, sia in Africa Orientale, sia in Spagna, i nostri ufficiali non si erano fatti intimidire. Evidentemente il decadimento qualitativo di questa componente e le carenze morali dipendevano dalle inadeguate modalità di reclutamento, dalla scarsa selezione e soprattutto dall'affrettata formazione, com'era del resto ormai abbondantemente noto. Lo stesso discorso va fatto per i sottufficiali, che normalmente sono "la spina dorsale degli eserciti" e che in quello italiano erano invece, pochi, trascurati e scarsamente addestrati.

Quel che lascia perplessi è però, come già anticipato, l'atteggiamento passivo di Mussolini. Questi aveva sottolineato, com'era solito fare con la sua matita rossa, i punti più eclatanti della relazione. Ma, a quanto pare, non vi fu da parte sua alcuna reazione né, quanto meno, una qualche richiesta di approfondimento. Al momento del rientro in Patria dei reparti più provati, egli si limiterà, il 10 marzo 1943, ad indirizzare ai suoi sfortunati soldati un saluto, non privo della consueta scontata retorica; che ne esaltava il sacrificio cosi giustificandolo: "[...] Non meno gravi sono state le perdite che la battaglia contro il bolscevismo vi ha imposto, ma si trattava e si tratta di difendere contro la barbarie la millenaria civiltà europea (anche quest'autografo si trova fra le carte Aliccio").

Per completare queste note, riteniamo opportuno fare riferimento ad un altro documento inedito dello S.M.R.E., Ufficio Operazioni, 1, Sez. 2a del 2 febbraio 1943, dal titolo "Situazione 8a Armata". E' rintracciabile all'Ufficio Storico S.M.E. (riferimento archivistico M7) e riassume in maniera stringata gli avvenimenti di cui ci occupiamo. Ne riportiamo i passi salienti:
I. [...] Il tratto di fronte affidato all'Armata correva sul Don tra Pawlowk e il Choper (Km. 270 circa). Dipendevano dall'Armata i C.A.: II - XXIX germanico - XXXV (in linea) - alpino (in affluenza). In seguito alle azioni svolte dai russi a fine agosto 1942, l'ala destra dell'Armata fu costretta, dopo accaniti combattimenti, a indietreggiare di una trentina di Km dalla linea del Don.
II. L'11 dicembre u.s. venne sferrata dai russi sulla fronte dell'Armata, con azione principale condotta nel settore delle Divisioni Cosseria e Ravenna, l'attesa [corsivo nostro] offensiva che portò il successivo giorno 16 alla rottura della fronte. Il ripiegamento del II e XXXV C.A. ordinato dal Gruppo di Armate Sud, venne reso difficile dal cedimento del gruppo Hollidl (unità romene e tedesche) sulla destra della nostra Armata. In conseguenza di tale azione persi: circa 60.000 uomini, 6.000 automezzi.
III: In seguito al successivo sfondamento avvenuto sulla fronte del VII C.A. ungherese e del XXIV C.A. germanico, schierati sulle ali del C.A. alpino, fu dal comando germanico, dopo precise insistenze del comando 8a Armata, ordinato il ripiegamento delle unità italiane, conclusosi con il rientro avvenuto in questi giorni, a tergo delle nuove linee sullo Oskol di una massa di circa 25.000 uomini. Meno provata di tutte risulta, dalle notizie sinora giunte, la divisione Tridentina.

domenica 21 febbraio 2021

Tschertowo

La dislocazione dei reparti durante l'assedio di Tschertowo (o Čertkovo) avvenuto nel gennaio del 1943.

Il viaggio del 2011, Postojalyi

Immagini del mio primo viaggio "esplorativo" effettuato nel 2011... steppa ed isbe di Postojalyi; qui per primo il battaglione Verona della Tridentina effettuò l'attacco per occupare la località e riprendere poi la lunga ritirata. E' il 19 gennaio 1943.



sabato 20 febbraio 2021

Bruno e Mario Carloni, parte 2

Legate alle vicende belliche ci sono e ci saranno sempre "belle" storie da raccontare; storie di uomini e di eroismi, di paure e di coraggio. Ve n'è una che ho scoperto per intero da poche settimane, ed è quella di un figlio ed un padre, entrambi combattenti in Russia, entrambi combattenti nel 6° Reggimento Bersaglieri della Divisione Celere. Il secondo di cui parlerò è il padre, Mario Carloni.

Mario nasce a Napoli il 27 dicembre 1894; il 31 dicembre 1912 si arruola come soldato volontario nel Regio Esercito, assegnato al 5° Reggimento Bersaglieri. Allievo ufficiale di complemento, fu nominato sottotenente per il servizio di prima nomina presso il 7° Reggimento bersaglieri con Regio Decreto 29 aprile 1915; durante il corso della prima guerra mondiale rimase ferito in combattimento due volte, e fu promosso tenente per merito di guerra il 2 dicembre 1915, poi capitano il 10 aprile 1917. Aiutante di campo presso la 2a Brigata Bersaglieri dal 31 dicembre 1917, passò poi in servizio presso il deposito Cecoslovacco in forza al 33° Reggimento mobilitato il 16 maggio 1918, e prestò servizio al Quartier generale del comando del Corpo Cecoslovacco dal 4 novembre 1918 al 10 giugno 1919. Dopo l'entrata in guerra del Regno d'Italia, avvenuta il 10 giugno 1940, il 19 settembre dello stesso anno si imbarcò per l'Albania, dove a partire dal 28 ottobre prese parte alle operazioni belliche contro la Grecia alla testa del 31° Reggimento fanteria "Siena". Trasferito a Creta, il 4 ottobre 1942 chiese il trasferimento per combattere sul fronte russo al comando del 6° Reggimento bersaglieri di Bologna, rimanendovi fino al 23 marzo 1943.

Il Colonnello Carloni chiese espressamente di poter servire nello stesso Reggimento Bersaglieri nel quale il figlio Bruno era caduto durante la Campagna di Russia; così scrisse Mario nel suo bel libro "La campagna di Russia", edito nel 1971, oggi non di facile reperibilità: "Nei primi giorni di settembre del 1942 mi trovavo a Creta, comandante del 31° fanteria e del settore italo-tedesco di Heraclion (Candia) nella parte centrale dell’isola (Creta), alle dirette dipendenze del comandante superiore tedesco dell’isola. A Neapolis mi giunse dal comando superiore di Rodi un telegramma che annunziava la morte di mio figlio Bruno, sottotenente del 6° bersaglieri, avvenuta il 13 agosto in Russia, sul Don, in combattimento a Baskowskij. [...] Dal principe ereditario, ispettore della fanteria, ottenni la promessa che mi sarebbe stato affidato il comando del 6°. A Creta, infatti, mi raggiunse l’ordine che mi trasferiva al comando del 6° bersaglieri. Potevo così continuare, nel suo stesso reggimento, l’opera del mio caro figliuolo, che guadagnò in un solo mese di guerra tre ricompense al valore, fra cui la medaglia d’oro".

Le vicende del Colonnello Carloni e del 6° Reggimento Bersaglieri della Divisione Celere sono narrate nel libro sopra indicato; restano da ricordare le ben 4 Medaglie d'Argento al Valor Militare guadagnate dallo stesso, una nella Grande Guerra e tre durante la Seconda Guerra Mondiale.

Medaglia d'argento al valor militare: «Lanciava la propria truppa all’assalto, incitandola con nobili parole all’avanzata. Caduto ferito e impossibilitato a tenere il Comando continuava ad animare i dipendenti e al comandante del Battaglione che gli era accorso vicino per confortarlo rivolgeva le seguenti parole: ‘Non pensare a me, pensa al battaglione portalo avanti. Viva l'Italia, Viva l'Italia”. Flondar, 5-giugno-1917.»

Medaglia d'argento al valor militare: «Comandante di Reggimento di rara perizia, in cento giorni di lotta aspra ed accanita, dava luminose prove di ardimento e di valore contro un nemico, di gran lunga superiore di forza e di mezzi ed in condizioni di terreno e di clima oltremodo difficile, sempre primo tra i suoi fanti, si prodigava infaticabilmente oltre ogni limite, creando del suo reggimento un magnifico organismo di lotta e di vittoria. Fulgido esempio di alta virtù militare, di costante sprezzo del pericolo, di profonda dedizione al dovere. Albania, 28 ottobre 1940 - 10 febbraio 1941.»

Medaglia d'argento al valor militare: «Comandante di reggimento di elevate qualità militari, già distintosi in precedenti fatti d’armi sul fronte greco e più volte decorato al valore in successivi giorni di operazioni belliche dava ripetute prove di slancio, capacità, dedizione al dovere. Rimasto con qualche centinaia di bersaglieri del suo reggimento contro preponderanti forze nemiche che Io attaccavano ripetutamente minacciandolo di aggiramento, riusciva a impedire per due giorni ogni progresso. Attaccato violentemente ancora una volta riusciva a contenere sino al sopraggiungere della notte la posizione avversaria, ripiegando solo dietro esplicito ordine superiore. Magnifica figura di comandante valoroso capace e animatore. Valle Tichaja (fronte russo), 17-19 dicembre 1942.»

Medaglia d'argento al valor militare: «Comandante di un reggimento Bersaglieri motorizzato, in una particolare critica situazione, con ammirevole serenità, coraggio, energia, e capacità operativa, dava anima a una tenace resistenza esponendosi ove maggiore era il pericolo. Minacciato d’accerchiamento da elementi corazzati nemici, si apriva arditamente un varco raggiungendo lo schieramento arretrato di truppe amiche. Successivamente proteggeva per più giorni il ripiegamento di unità alleate accerchiate da forze corazzate e da fanterie nemiche riuscendo a rintuzzare sempre vittoriosamente ogni tentativo dell’avversario. Fronte Russo 21 dicembre 1942–3 gennaio 1943.»