domenica 3 gennaio 2021

Ordine del giorno di Messe

Ricevo e pubblico dal gentilissimo Signor Fabio Testori una copia originale del famoso "ordine del giorno" del Maresciallo Messe datato 9 maggio 1942.





sabato 2 gennaio 2021

Italia in guerra, tragedia sul Don

Il documentario della meravigliosa serie "Italia in guerra" del 1983, realizzata da Massimo Sani, dedicato alla Campagna di Russia.

Campi di prigionia e fosse comuni, parte 7

Grazie al permesso ottenuto dai vertici di U.N.I.R.R. Unione Nazionale Italiana Reduci di Russia, di cui faccio orgogliosamente parte, pubblico la settima parte di questo interessantissimo documento relativo ai "campi di prigionia e fosse comuni dello CSIR e dell'ARMIR": la scheda dei campi di Ciernzi, Ciuamà, Glazov, Gubakha e Kalac.

















venerdì 1 gennaio 2021

L'ARMIR nella II battaglia del Don, parte 2

L'8 Armata italiana nella seconda battaglia difensiva del Don (11 dicembre 1942 - 31 gennaio 1943), seconda parte.

L'OFFENSIVA RUSSA NELL'INVERNO 1942-1943. SITUAZIONE PARTICOLARE DELL'8A ARMATA ITALIANA (ARMIR).

Il 22 giugno 1941, nel momento in cui le Armate germaniche oltrepassavano il confine orientale stabilito con la Russia dopo la recente spartizione della Polonia, il governo italiano dichiarava la guerra all'U.R.S.S. Approntava quindi sollecitamente le unità che dovevano scendere in campo a fianco dei tedeschi. Il Corpo di Spedizione (C.S.I.R.), della forza di circa 50.000 uomini, risultava composto di due divisioni autotrasportabili, e cioè la « Pasubio » e la « Torino », e della divisione celere « Principe Amedeo Duca d'Aosta ». Truppe di corpo di armata e reparti aerei da caccia e da ricognizione completavano la grande unità, che già alla metà di luglio, veniva avviata al fronte orientale. Nello scorcio della primavera dell'anno successivo, mentre le assottigliate file del Corpo di Spedizione si rinsanguavano con l'afflusso di complementi e di nuovi reparti, la cooperazione italiana nella lotta antirussa assumeva più vaste proporzioni con l'invio al fronte orientale di una intera armata al comando del gen. Italo Gariboldi, già comandante delle truppe dell'Africa settentrionale.

Le prime divisioni arrivarono in giugno nelle zone di radunata di Kharkov e di Stalino e i movimenti si completarono con la fine di agosto. L'8a Armata (ARMIR) riuniva: - il vecchio Corpo di Spedizione (C.S.I.R.) sotto la nuova denominazione di XXXV C.A.; - il II C. A. con le divisioni di fanteria « Sforzesca », « Ravenna » e « Cosseria »; - il C.A. alpino con le divisioni « Tridentina », « Julia » e « Cuneense »; - la divisione di fanteria « Vicenza » (destinata alla protezione delle retrovie e pertanto senza il reggimento di artiglieria); - truppe e servizi di armata; - unità di aviazione. Complesso di forze sommante ad oltre 220.000 uomini e 7.000 ufficiali. Nella prima decade di novembre l'8a Armata, dopo la prima battaglia difensiva sul Don, dopo l'attestamento al Don delle divisioni alpine (che in un primo tempo erano state destinate al Caucaso) e dopo varie modifiche sia nel settore assegnato sia nel raggruppamento organico delle unità, teneva, lungo il sinuoso corso del fiume, alle dipendenze dcl com. Gruppo Armate B, un fronte di oltre 270 km. da Kamilschowa a Weschcnskaja, avendo: a sinistra, la 2a Armata ungherese e, a destra, la 3a Armata romena.

Nel settore di quest'ultima, e cioè in corrispondenza del vertice dell'ansa del Don, si profila, nella seconda decade di novembre, la minaccia di un poderoso attacco sovietico che si concreterà, dopo pochi giorni, costituendo il primo atto di quella grande offensiva destinata ad estendersi gradualmente a quasi tutto il vastissimo teatro di guerra e che travolgerà anche l'ARMIR. Le operazioni dell'8a Armata sul Don nell'inverno 1942-43 non devono pertanto essere considerate a sé, ma bensì nel quadro assai più vasto nel quale i russi, con uno sforzo poderoso e con l'applicazione di nuovi principi operativi, rispetto a quelli precedentemente usati, rompono successivamente e costringono in sacca, tra il 20 nov. 1942 e i primi di febbr. 1943, sei armate alleate schierate, da sud-est verso nord-ovest, nella seguente successione: 4a cr. germanica - 6a germanica - 3a romena - 8a italiana - 2a ungherese - 2a germanica.

In particolare, la manovra generale nemica nella terza decade di novembre rompe contemporaneamente la 4a Armata corazzata germanica e l'estrema destra della Armata romena ed accerchia (oltre numerose aliquote delle due armate attaccate) anche l'intera 6a Armata germanica (schierata nel settore di Stalingrado); nella seconda decade di dicembre, rompe l'ala sinistra della 3a Armata romena ed il centro dell'8a Armata italiana (II C.A.) mettendo in sacca, oltre ad aliquote della 3a Armata romena, l'ala destra dell'8a Armata (XXXV e XXIX C.A.); nella seconda decade di gennaio, rompe nuovamente il fronte dell'8a Armata (XXIV C.A. tedesco) e contemporaneamente quello della 2a Armata ungherese ed accerchia unità ungheresi, i resti del XXIV C.A. germanico ed il C.A. alpino; ai primi di febbraio, con azione a tenaglia analoga alle precedenti rompe ed accerchia la 2a Armata germanica (settore di Voronesh).

Durante quattro mesi le masse russe saranno in continuo progredire e soltanto nella seconda decade di marzo i tedeschi potranno adottare contromisure capaci di arrestare l'avversario che nella sua avanzata dal Don verso ovest, oltrepassato Kursk-Belgorod-Kharkov, è giunto con le punte avanzate poco ad est del meridiano di Poltava. Nel novembre, quando cioè si profila e si sviluppa l'offensiva nemica sulla nostra destra il comando Gruppo Armate, in relazione alle necessità operative che a mano a mano si presentano, sottrae dal settore dell'8a Armata italiana un complesso di forze riducendone gravemente le possibilità difensive e di manovra. E' tolta prima la 22a D. Cr. germ., forte di circa 200 carri armati, poi la 294a D. germ. che era destinata in riserva sull'ala sinistra dell'Armata; infine la 62a D. germ. dislocata in Ia schiera. Quest'ultima divisione, su tre reggimenti, ha dovuto essere sostituita dall'ormai unica divisione disponibile dell'Armata, la nostra « Celere », su due reggimenti, molto provata, in fase di ricostituzione con nuovi complementi in arrivo e quindi in crisi per condizioni materiali, morali e numeriche. L'Armata finisce per essere così gradatamente, per le necessità di altri settori, indebolita nelle sue possibilità operative per la sottrazione di tutte le unità di 2a schiera che le sole riserve. In tale situazione quando nella 3a decade di novembre comincia a profilarsi la minaccia anche sul fronte dell'ARMIR con l'addensamento di forze nemiche sulle direttrici Pawlowsk e Bogutschar, il com. Armata rappresenta al com. Gruppo Armate il pericolo imminente (data la forza disponibile in confronto alla fronte assegnata e la necessità di provvedimenti adeguati.

Infatti la forza dell'Armata (220.000 uomini) in relazione all'ampiezza settore (270 km.) corrisponde alla densità di un uomo ogni 1,18 metri di sviluppo del fronte considerando tutti in linea, servizi ed intendenza compresi. Ma in effetto la densità in linea è soltanto di un uomo ogni 7 metri (4 btg. per divisione, ognuna delle quali ha in media 27 km. di fronte), forza del tutto insufficiente per una valida difesa anche contro attacchi di entità non rilevante. Il comando germanico non crede molto ad un attacco in forze ed ordina l'affluenza delle unità di cui può al momento disporre orientandone inizialmente i movimenti su entrambe le zone; solo quando la minaccia nemica, pochi giorni prima dell'attacco, si delineerà, in modo inequivocabile in corrispondenza del settore del II C.A., la maggior parte delle unità verrà orientata su quel settore fra queste la 385a, la 387a, la 27a D. Cr. germaniche. Queste unità, modeste in raffronto a quelle perdute (e pur riconosciute necessarie) avrebbero, forse, potuto dare ausilio alla difesa, a condizione di giungere in zona con la completa disponibilità delle forze organiche e con un anticipo di tempo sull'inizio della battaglia tale da consentirne l'orientamento sui rispettivi compiti operativi. Tali condizioni vennero per contro a mancare.



giovedì 31 dicembre 2020

Il generale Messe

La figura del generale Messe è certamente una delle più apprezzate, se non la più apprezzata, fra i comandanti italiani delle Seconda guerra mondiale, in particolare per la sua ottima attività sul fronte russo. Messe era un soldato che la guerra l'aveva davvero fatta: durante la Grande Guerra combatté nel 57° Battaglione "Abruzzi" e con diversi reparti di arditi, fra cui il IX Reparto d'assalto, che comandò sul Monte Grappa, distinguendosi nella conquista del Col Moschin e rimanendo ferito due volte. In Russia è spessissimo ricordata la sua tenace opposizione, forse l'unica, alla PESSIMA (per non dir di peggio) idea di Mussolini di aumentare le forze italiane presenti, trasformando lo CSIR nell'ARMIR e passando così da circa 62.000 a circa 230.000 uomini. Ma è spesso ricordato ERRONEAMENTE un altro aspetto: sento ancora oggi affermare per iscritto e a voce che Messe fu sollevato dal suo incarico da Mussolini, proprio per la sua opposizione alla creazione dell'ARMIR. Nulla di più FALSO, ed è proprio il generale Messe a scriverlo nel suo bel libro "La guerra al fronte russo" che qui riproduco nei passaggi fondamentali.

Ho già avuto occasione di parlare della mia irriducibile opposizione all'idea di aumentare l'entità della nostra partecipazione alla guerra sul fronte orientale. Opposizione che si manifestò una prima volta già nel luglio del 1941, quando era balenata l'idea di inviare un secondo corpo d'armata, e si rinnovò lungo tutto l'inverno, attraverso le molte relazioni e proposte al comando supremo, tutte intonate al concerto di potenziare adeguatamente quanto era già in Russia e di escludere ogni allargamento del nostro contributo. Tale atteggiamento non era dovuto a prevenzioni, e tanto meno a piccole considerazioni di ordine personale. Esso scaturiva, come conseguenza logica, da quella somma di esperienze e di convinzioni che io intendevo far prevalere nell'esclusivo interesse del mio Paese (pag.210).

Ho già accennato sinteticamente alla genesi dell'invio di un'armata in Russia. È bene sottolineare che esso fu voluto esclusivamente da Mussolini, che le trattative con i tedeschi furono condotte da Ciano, e che l'idea fu perseguita fino alla sua realizzazione nonostante il parere contrario del nostro comando supremo, parere documentato in modo chiaro in un appunto del 23 ottobre 1941 che riporto integralmente. «Avendo il Duce espresso l'orientamento di inviare nuove unità sul fronte russo per la primavera 1942, il Capo di S. M. G. ha esaminato la questione e, al rapporto del 22 ottobre, ha espresso al Duce le seguenti considerazioni proposte: l'invio di unità è subordinato: - al completamento del programma di potenziamento dell'esercito previsto per la primavera 1942; - ad una situazione di tranquillità sia nei Balcani, sia alla frontiera occidentale; ammessa quest'ultima ipotesi, noi potremmo rendere disponibili 6 divisioni al massimo, sottraendole alle unità della frontiera occidentale ed a quelle della riserva centrale; queste unità potrebbero essere fornite con organici al completo di uomini e di mezzi. Esse però: - non riceverebbero l'aliquota aggiuntiva di armi controcarro e contraerei fornite alle unità già inviate sul fronte russo; - non riceverebbero automezzi per il loro autotrasporto: a tali automezzi dovrebbero pensare le autorità germaniche» (pag.212).

Deciso a non tralasciare alcun tentativo per evitare, o quanto meno limitare, quella che io ritenevo una vera iattura, il 20 maggio, approfittando di un periodo di calma assoluta nel settore italiano e sapendo che la nuova grande offensiva, con la nostra partecipazione, avrebbe avuto inizio soltanto in luglio, chiesi e ottenni di venire in Italia per alcuni giorni. Il comando supremo mi convocò a Roma per il giorno 30, e al mio arrivo il generale Magli, addetto al comando supremo stesso, mi comunicò che mi avrebbe accompagnato a Palazzo Venezia perché il capo del governo voleva vedermi ed era in attesa di conoscere il giorno e l'ora del colloquio (pag.213).

Con maggiore slancio che al mattino, Mussolini mi ripeté l'elogio del CSIR aggiungendo: «Voi, poi, vi siete fatto rispettare dai tedeschi ed essi vi stimano. Anche per questo si era pensato di lasciarvi al comando dell'8a armata. Mi sembrava la soluzione più logica, dopo le prove che avete già dato. Ma poi non si è potuto». Mi spiegò che si era «dovuto» impiegare il generale Gariboldi, da tempo disponibile per un comando d'armata. Non ritenni opportuno entrare in tale argomento personale accennando invece alla mia sorpresa per essere stato tenuto all'oscuro sull'approntamento della nuova unità per la Russia. Colsi un suo gesto di meraviglia per questo particolare, ma completai il mio pensiero: «Mi permetto di ripetere a Voi quello che ho già detto al Capo di S. M. Generale: "È un grave errore mandare un'intera armata al fronte russo. Se fossi stato interpellato lo avrei sconsigliato, come già lo scorso anno sconsigliai l'invio di un secondo corpo d'armata"» (pag.215).

E, dopo una breve pausa, ritenendo evidentemente esaurito l'argomento chiese: «Ditemi piuttosto: che cosa farete ora? Tornerà in Russia?». «Perché non dovrei tornarvi? Un Vostro ordine mi ha destinato laggiù, un Vostro ordine mi potrà richiamare. D'altra parte, non mi sentirei di lasciare cosi improvvisamente i miei soldati. Inoltre conosco Gariboldi fin dall'altra guerra e sono certo che andremo perfettamente d'accordo.» «Sono molto contento di questa vostra decisione. La vostra collaborazione, per l'esperienza fatta al fronte russo, riuscirà preziosa per il nuovo comandante, che sono sicuro si servirà molto dell'opera vostra.» Mussolini era evidentemente compiaciuto. Egli riteneva forse, come del resto altri, che io, contrariato, potessi richiedere il rimpatrio «sbattendo la porta», come suol dirsi (pag.217).

Mentre stavano per completarsi tutti questi movimenti, giunse da Roma l'ordine del mio rimpatrio, e quasi contemporaneamente arrivava sul posto il generale Zingales, destinato a sostituirmi. D'accordo con il comando d'armata fu stabilito che il cambio fra i due comandanti sarebbe avvenuto il giorno in cui il XXXV corpo avesse assunto la responsabilità del nuovo settore. Ciò ebbe luogo il 10 novembre. [...] Il mio rimpatrio avvenne in seguito a mia domanda, presentata dopo lungo travaglio interno, a conclusione di uno stato di disaccordo spirituale, gradualmente sempre più profondo, intervenuto tra me ed il comandante dell'8a armata. Questo disaccordo, manifestatosi in forma acuta in occasione della prima battaglia del Don, era affiorato fin dal primo giungere dell'armata in Russia. Ero andato incontro al mio nuovo comandante, completamente ignaro del fronte orientale, con il fermo proposito di mettere a sua disposizione la mia non breve e non ristretta esperienza perché più agevole gli risultasse fin dall'inizio l'azione di comando, più proficuo l'impiego delle truppe, minore il sacrificio degli uomini, ma mi ero trovato subito di fronte a un'inaspettata freddezza e a una strana diffidenza che mi sorpresero (pag.277).

Fu questo insanabile contrasto sui più importanti e delicati problemi della guerra al fronte orientale e la constatata impossibilità di continuare a fornire al comandante d'armata quella convinta collaborazione, spirituale oltre che di opere, che è indispensabile al fine di ottenere nell'azione il massimo risultato, che m'indussero, dopo maturo esame e con sincero rammarico, ad inviare, il 23 settembre, al comandante dell'8a armata la seguente lettera: «Parecchi giorni or sono ebbi a pregarVi di prendere in esame la mia sostituzione nel comando del XXXV corpo d'armata e il mio rimpatrio. E Ve ne dissi anche le ragioni. Tale preghiera io debbo oggi rinnovarVi, tanto più che gli ultimi avvenimenti mi hanno maggiormente convinto come non sia possibile una collaborazione efficace tra gerarchie molto elevate, quando nelle relazioni reciproche non si realizza spontaneamente un'atmosfera di perfetta intesa su tutti i problemi essenziali e, quindi, di reciproca fiduciosa cordialità. Le mie convinzioni su tali problemi, basate su oltre un anno di fortunata esperienza in questo scacchiere, sono in me troppo radicate perché io possa rinunciarvi senza un grave intimo disagio, pur nello spirito di una leale disciplina delle intelligenze. D'altronde nulla è più lontano dal mio pensiero che il creare difficoltà e imbarazzi a Voi, Eccellenza, che di fronte al paese e di fronte agli alleati siete il solo responsabile della vita e dell'operato dell'8a armata». La mia domanda seguì il suo corso e, come si è visto, il 1 novembre lasciavo il mio corpo d'armata (pag.286).

mercoledì 30 dicembre 2020

L'ARMIR nella II battaglia del Don, parte 1

L'8 Armata italiana nella seconda battaglia difensiva del Don (11 dicembre 1942 - 31 gennaio 1943), prima parte.

PREMESSA.

Con la compilazione di questo lavoro l'Ufficio Storico ha inteso dare una sintetica visione panoramica delle tormentose vicende dell'8a Armala italiana nella seconda battaglia difensiva del Don e del ripiegamento che ne seguì. La documentazione alla quale ha potuto attingere non è completa e mancano integralmente le fonti straniere: russa, tedesca, romena, ungherese. L'Ufficio ha dato forma ordinata alle notizie che ha potuto raccogliere e vagliare a tutt'oggi in relazioni e rapporti vari di autorità e di singoli ufficiali che hanno vissuto il secondo inverno in Russia; notizie che nel loro complesso hanno per il momento consentito - limitatamente alla battaglia del Don - la messa a punto di una narrazione organica degli avvenimenti che costituisce apporto di precisazione e di chiarificazione. E' da rilevare inoltre che le fonti consultate essendo in data anteriore al 25 luglio sono da considerarsi piuttosto attenuate nella esposizione dei fatti rispetto cruda realtà. Nel quadro generale della battaglia che è stato tracciato trovano il loro posto tutti gli amari racconti ed i diari accorati dei reduci del Don: vi trovan posto, a volte, integralmente, più spesso, corretti da inevitabili deformazioni conseguenti dalla visione vicina e dall'amarezza per le vicissitudini subite.

L'Ufficio si è particolarmente soffermato sul comportamento dei tedeschi nel campo strettamente operativo durante la battaglia di rottura e sul mancato cameratismo, pur tanto doveroso, durante la crisi del ripiegamento. Nelle operazioni del dicembre 1942 - gennaio 1943, nella desolata, sterminata steppa, i germanici hanno anticipato quella linea di condotta che dovevano poi su più vasta scala tenere nel nostro territorio nazionale durante l'occupazione esasperandola, in funzione delle proprie esclusive esigenze operative e logistiche, con quelle ripercussioni, anche nel campo delle nostre perdite, che si possono agevolmente immaginare.

Sull'entità delle perdite stesse vengono forniti tutti i dati relativi alle singole unità che è stato possibile raccogliere. Esse assommano, nel periodo dicembre 1942 - 20 marzo 1943, tra caduti, dispersi e prigionieri, a ben 84.830, e tra feriti e congelati a 29.690. Ammontare questo pari, complessivamente, al 60% della consistenza organica dell'Armata all'inizio della battaglia in ufficiali, ed al 49,7% in uomini di truppa.



L'ARMIR nella II battaglia del Don, premessa

Come promesso inizio a pubblicare il contenuto del documento storico "L'8 Armata italiana nella seconda battaglia difensiva del Don (11 dicembre 1942 - 31 gennaio 1943)" con una mia premessa.

E come immaginavo il documento non può e non poteva contenere che informazioni già note ai più, in quanto emesso proprio a distanza di pochi anni dai fatti; lo pubblico perché a prescindere lo trovo di alto interesse storico, ma nel contempo consiglio a chiunque volesse davvero approfondire questi temi dal punto di vista strettamente militare ed operativo, di acquistare il secondo volume indicato, sempre emesso dallo Stato Maggiore dell'Esercito - Ufficio Storico dal titolo "Le operazioni delle unità italiane al fronte russo (1941-1943) che è la logica continuazione del primo volume.



martedì 29 dicembre 2020

Relazione del Tenente Boldoni, parte 4

Relazione sui Carabinieri della Divisione Torino del Generale Attilio Boldoni nel 1942 Sottotenente Comandante della 66a Sezione Carabinieri sul fronte russo, quarta ed ultima parte.

L'ASSEDIO DI TSCHERKOWO.

Alle ore 24 del giorno di Natale finalmente Tscherkowo. I superstiti vi arrivano sgranati durante 24, 30 ore. Si sentono quasi a casa. Illusione di riposare e di quietare la sete e la fame!! Si cerca affannosamente un tetto per dormire e si cade in un sonno profondo. Passano le ore, passa quasi un giorno. Ci si risveglia credendo di essere ormai in salvo. Invece il cannone tuona. Sono ancora una volta circondati. Ma una delle tante Marie amorosamente li aiuta a lavarsi, offre quello che ha: una misera patata, la sua compassione e tutta la sua sopportazione. Forse ha un figlio o il marito lontano... Il nemico ha nuovamente circondato la Torino e con essa tedeschi e italiani. Si riordinano i reparti: il comandante della divisione, generale Lerici, assume il comando del caposaldo. Il Ten. Col. Manari con i suoi bersaglieri, reparti della milizia, reparti della Ravenna, con il generale Capizzi, della Pasubio e della Celere sono già in loco.

I carabinieri fanno l'appello e si riordinano. Sono presenti: 13 della 56a sezione; 12 della 66a sezione. Con i militari di altre due sezioni viene costituita la 66a sezione di formazione. Il comandante della 66a ne assume il comando anche se ferito, malato e congelato. Il comandante della 56a, sottotenente Mantineo, è già prigioniero, malato e prostrato dalle fatiche. Vice comandante il maresciallo maggiore Carlo Grossi e addetto il brigadiere Ugo Canevari. Il comandante dei carabinieri, capitano Enrico Pazzi, viene colpito da febbre dissenterica. Il suo stato è grave... I superstiti si sistemano al secondo piano di un grosso caseggiato di mattoni. Al piano terra il generale Capizzi della Ravenna con il suo stato maggiore. Di fronte un deposito di acqua, alto e dominante la zona. I russi ritengono che sia un osservatorio e sparano incessantemente su di esso. I colpi non arrivano a segno e cadono sul tetto dove sono i carabinieri. Il tetto resisterà meravigliosamente. I mattoni si dimostrano efficacissimi, ci si sente in una fortezza! Per terra paglia...

Il vitto: una galletta e mezza scatoletta. Quando c'è molto, talvolta anche carne fresca; quella dei muli e dei cavalli colpiti dai mortai. Si scambiano i viveri: un pezzo di mulo con del riso. Si fanno bollire le maglie, e le camicie per salvarsi dai pidocchi, inutile! Il giorno dopo lo stesso tormento... Si spara di notte per le strade. I russi si infiltrano. I carabinieri vigilano. Sparano e reagiscono come possono. Sono un po' dovunque. Funzionano da portaordini, di notte e di giorno, nel freddo e nel gelo. Spicca fra tutti il portaordini del comandante della divisione, carabiniere Vittorio Gemignani. Digiuno, congelato, non chiede nulla, si impegna, esegue gli ordini: è sempre al suo posto. Ha gli avampiedi amputati ed una medaglia di argento sul petto...

Il 27 dicembre muore per le ferite riportate il carabiniere Arturo Aquino. E ancora, il 2 gennaio, passa uno slittino tirato da un cavallo. Sono sopra il comandante della 66a e due sottufficiali. Il generale Lerici trema, forse per la prima volta. Attaccano i magazzini viveri, unica speranza per sopravvivere. Sono russi? No! Sono italiani affamati! Lo slittino sguscia veloce per le strade ghiacciate, colpi sferzanti di mortaio tagliano, uccidono, seminano morte. Un cranio scoperchiato di netto senza una goccia di sangue. Penoso servizio. Si cerca di continuare a resistere, si reagisce. Si spara da una parte e dall'altra. I russi bombardano. Si sono accorti che qualche cosa non va. Ma poi la ragione ha il sopravvento. Si può continuare a resistere. Il generale Lerici è contento...

Passano i giorni, sempre lo stesso ritmo di bombardamenti e di speranza. Un aereo arriva, riparte con i feriti, tra i quali il capitano Blundo dei carabinieri, ritorna e poi sparisce nel nulla. I corazzati tedeschi sono vicini, avanzano, domani arrivano e poi... Più nessuna speranza, occorre uscire di forza da soli. Il generale Lerici tiene rapporto agli ufficiali per annunciare che i panzer non arrivano. Tutti gli ufficiali sono attenti alle sue parole sempre pronunciate con garbo, con arguzia, con quella sua innata signorilità, con quel fascino di comandante di altri tempi. Poi, all'improvviso, uno schianto, un sibilo e un crollo. Un colpo anticarro ha attraversato la stanza sulle teste di tutti ed è scoppiato all'esterno senza danni.

Quintilio Bargagni, carabiniere, - ordinanza del comandante della 66a sezione - che in quei giorni aveva perso un fratello pure carabiniere, promosso sul campo appuntato per il suo valore, ha rinunciato a vivere. Vuole riposare nel cosiddetto «ospedale» di Tscherkowo. L'ufficiale lo sollecita, lo scuote, lo prega di seguirlo. Non vuole più soffrire e si avvia lentamente con gli altri feriti. Guarda con commozione il suo comandante che ha seguito con devozione ed affetto; la sua bocca si apre, vuole parlare, si scusa, prega e grida ancora qualcosa. Le sue parole si perdono tra il sibilo del vento: «Mia madre, i miei fratelli, la patria, la pace e Iddio...».

SORTITA DA TSCHERKOWO. MARCIA VERSO LA SALVEZZA.

Si radunano quelli che possono camminare. I superstiti dovranno tutti giungere nelle linee italiane, questo è l'impegno del comandante. È notte, sono le 20 del 15 gennaio. Un gruppo di uomini silenziosi è riunito. Si porta quello che si può: armi individuali, qualche mitra russo, bombe a mano, qualche galletta, il proprio onore... Dietro, la piccola slitta. Su di essa: il capitano Fazzi gravemente malato; l'appuntato Nazzareno Palmieri, ferito da schegge e congelato; un altro ferito. A piedi, guida la slitta il comandante della 66a sezione, con una mano il quadrupede e con l'altra alla pistola per imporre la sua volontà ai superstiti: tutti devono camminare e sperare nella salvezza! Sono pronti ad uscire: 1.600 della Torino; 2.000 della Pasubio; 400 della Ravenna e della Celere; 500 della difesa di Tscherkowo.

Il silenzio viene rotto improvvisamente dal fuoco concentrato e simultaneo degli ultimi 4 semoventi tedeschi, dei pochi pezzi di artiglieria e delle armi automatiche. E diventato giorno, tutto è assordante e nello stesso tempo celestiale. È il fuoco imposto dai disperati difensori ai russi che, sbigottiti e sorpresi dall'azione cedono di schianto. È una fiumana di uomini che corre; sembra che essi abbiano ritrovato le loro forze; poi il silenzio e solo scalpitio dei passi e qualche grido di gioia o di disperazione. Dopo circa 40 chilometri, alle 11, i russi attaccano con violentissimi tiri di mortaio, di katiuscie e d'artiglieria. Con i carri tagliano la coda, il centro e la testa della colonna. Le narici del mulo dei carabinieri vengono trapassate da un colpo mitra. Il nobile animale, però, resiste per morire più tardi, sulla neve bianca, dopo aver compiuto il suo dovere. Si transita per Yeshatschyn, paese in fiamme.

Gli scoppi delle granate, delle katiuscie e delle artiglierie creano uno spettacolo apocalittico. Si giunge a Losowaja all'alba del 16 e si prosegue per Beresowo dove c'è un primo scontro diretto con i carri. Si devia per Petrovskj dove le forze corazzate avversarie sono più numerose e si fanno più baldanzose, avvicinandosi sensibilmente alle colonne e provocando sensibili perdite. I controcarri tedeschi fanno quello che possono. Poi, finalmente, il ricamo degli stukas. A quota 114 di Strezolwka si ha un tempo di arresto: quindi di nuovo in marcia. I superstiti salutano due aerei che passano: sono stukas? No, è di nuovo morte e dolore. Chi può si butta tra le fiamme delle isbe e si rialza dopo aver udito l'ultimo interminabile sgranare delle mitragliere dei due super Rata. La neve ha una striscia, rossa di sangue, per 2, 3 chilometri. È uno spettacolo orrendo.

Ancora di nuovo mortai e colpi di artiglieria. Da lontano, infine, le linee amiche. Si sta per giungere. Arriva invece un colpo di katiuscia che prende in pieno la colonna. Un puzzo dolciastro: è carne umana che brucia... Braccia tese verso la vita. La salvezza ed invece di nuovo la morte. I russi hanno cosi salutato gli italiani! Il comandante della 66a, con la pistola in pugno, grida, incita e minaccia e i sopravvissuti di Tscherkowo sono finalmente al sicuro, il merito è in gran parte suo. Sulla slitta c'è ancora segno di vita. Arrivano a Belowodsk i carabinieri superstiti. L'ufficiale è lieto di aver adempiuto il suo dovere. Il mulo crolla e muore e anche lui merita di essere ricordato. Si prosegue sino a Starobelsk e qui si dividono i feriti per i vari ospedali.

La Torino si scioglie e con essa la 66a sezione di formazione. Pochi i superstiti, tutti feriti, congelati o malati. Un saluto, un abbraccio e un addio. Il comandante della 66a è solo! Prosegue a piedi verso Karkov in cerca di quello che non trova: un ordine, un letto, un pezzo di pane. E con questi pensieri cammina anch'egli meditando su quello che sembra storia e leggenda, certo di aver vissuto un'epopea nella quale i carabinieri hanno scritto con il loro sangue uno dei capitoli più belli.

VERSO KARKOV.

Solo, con i suoi ricordi e con il suo dolore, dopo giorni e giorni di duri combattimenti, senza cibo e senza acqua ancora una volta non vuole arrendersi al destino avverso. Decide di proseguire verso nord-ovest in direzione di Karkov ove spera di ricongiungersi al comando dell'8a Armata per essere utile ancora e riorganizzare un altro reparto. Sono sentimenti che animano la giovinezza di quel tempo passato. I dolori alla gamba ormai rigida, il gonfiore opprimente dei piedi e le fitte non contano. Si può continuare a camminare ai bordi della strada tra il fango e la neve. Passano veloci gli autocarri stracarichi di soldati tedeschi e di feriti italiani. Nessuno si accorge di lui che si trascina nel freddo intenso, nel vento tagliente coi suoi baffi di ghiaccio. Sembra quasi un «tricheco» e puzza anch'egli d pesce ormai per le aringhe mangiate che rappresentavano l'unico raro pasto.

Poi incontra due ufficiali della Torino: il capitano Cesare Pavoni ed il capitano Federico Punzo entrambi del comando della divisione esistente ormai solo nel ricordo. E con essi procede a fatica, a sbalzi, lentamente o a bordo degli autocarri stracarichi per tratti. Poi finalmente si mangia. Un pollo intero, solo spennato, e del burro, una tazza di verde tè preparati da una delle tante buone contadine. Sulla lunga ed interminabile arteria che porta al centro di Karkov appare una città tetra, grandi palazzi di marmo scuro o cemento, vuoto e distruzione... Ancora 12 chilometri per arrivare al centro. In lontananza si accentuano i colpi in arrivo. Sono i russi che premono sulle truppe tedesche e sui valorosi alpini che svolgono in modo mirabile la loro manovra ritardatrice.

Si cerca di mangiare: solo qualche pasta dolce a caro prezzo. Si spendono gli ultimi rubli. E poi un pasto ad una mensa che sta per sgomberare e la ricerca di un posto in treno verso Gomel per raggiungere le retrovie. Si dorme vestiti in un grande palazzo vicino alla stazione. Trascorrono tre giorni e poi nell'aprire gli occhi, mentre è ancora seduto sul giaciglio rappresentato da una poltrona, con la mano sulla pistola si accorge che 4, 5 persone sono curve su di lui. È un attimo: comprende che stanno decidendo la sua fine. Oramai i russi sono in arrivo già verso il centro della città. Si odono cannonate e lo sgranare delle armi automatiche. Nella casa nessuna traccia dei due compagni di ritirata. Non li rivedrà più.

In un attimo decide la sua sorte. Si alza, non ha esitazione, muove prima lentamente le gambe, non batte ciglio, imbocca l'uscita mentre tutti lo guardano quasi impauriti dal fantasma che si erge. Prende le scale ed a razzo discende. Ancora una volta è salvo, ma con il cuore in gola. Cammina ancora in cerca di altri reparti e poi finalmente incontra alcuni autocarri di commilitoni. Sente la vita tornare. Li saluta e raggiunge finalmente l'ospedale che in quel momento stava sgomberando: è il 23 gennaio 1943. Accolto affettuosamente viene subito trasportato con centinaia di feriti sull'ultimo treno ospedale in partenza per la Polonia.

In effetti erano circa 20 carri piatti con un po' di paglia pieni di morti, che venivano scaricati ogni volta che si effettuava una sosta; è un tragico carico di uomini che continuava a soffrire per il freddo intensissimo, senza cure e senza mangiare. Ogni tanto una sosta, qualche piatto di miglio, grida di dolore. Si scaricano i morti; poi finalmente la Polonia ed un ospedale accogliente.

RIENTRO IN ITALIA.

Lentamente, a fatica, arriva a Leopoli il lungo treno carico di dolore, di speranze e di ricordi. Una rapida visita, una doccia calda ristoratrice sulla pelle martoriata dai pidocchi e finalmente in un letto tra le lenzuola. Dorme di schianto ed al mattino stenta a ritrovarsi, crede di essere chissà dove, sente ancora giungere al suo orecchio i colpi di Arbusow e Tscherkowo. Sta per arrivare il treno dell'Ordine di Malta. ln serata si parte per l'Italia. Si alza, scende nella neve per riprendere la divisa uscita dall'autoclave e non la trova. Per tanti e tanti giorni indossata cara e onorata divisa, con i suoi alamari e con i suoi gradi anch'essa nel nulla! Arrivare in Italia in camicia non era possibile. Prende la prima uniforme e poi gli adattamenti per gli alamari ed i gradi. Al fianco la vecchia e gloriosa pistola, quella che gli era servita anche per il giuramento alla Scuola Centrale di Firenze. Ai piedi ancora i valenchi con il buco provocato dalla scheggia di mortaio.

Il 5 febbraio finalmente in Italia ed al mattino a Trento. Salgono sorelle della CRI. Chiede di avvertire la famiglia che da oltre tre mesi attende qualche notizia. E a Chiavari, nel tepore primaverile, termina questa terribile esperienza di guerra. Potremmo fare qualche commento su quello che era accaduto, su ciò che si poteva fare per evitare tanta tragedia. Ce ne asteniamo e preferiamo lasciarlo al lettore. Quasi tutte le bandiere dei reparti che avevano combattuto sul fronte russo furono decorate. A quella dell'Arma mancò il riconoscimento per il valore dei suoi eroici carabinieri. Solo e per tanti anni il silenzio, quasi assoluto, quello di Russia, rotto dallo scricchiolare del ghiaccio pestato da fantasmi che si addormentarono dolcemente sulla neve. Fischia il vento gelido ed il sibilo si alterna, quasi metallico, con i passi sul terreno ormai marmo. Suona lenta una campana, piccola, argentea, ripete i suoi rintocchi, richiama gli spiriti dei carabinieri caduti rimasti per tanti anni lontani dalla Patria, attraversa con i suoi rintocchi monti, valli, pianure, fiumi, quei «placidi fiumi», ed innalza verso il cielo una canzone di amore e di pace.

Resta solo sulla parete della cappella della Legione di Bolzano una campana ed una lapide che ricorda l'eroismo di mille Carabinieri: «NEL QUARANTENNALE DEI FATTI D'ARME I CARABINIERI AFFIDANO A QUESTO MARMO IMPERITURO IL RICORDO DEI COMMILITONI Dl OGNI GRADO CHE, SUL LONTANO FRONTE RUSSO, COMPIRONO IL LORO DOVERE FINO AL SACRIFICIO SUPREMO» 1942 -1982.

Sottotenente Attilio Boldoni, Comandante della 66a Sezione Carabinieri.

lunedì 28 dicembre 2020

Ancora una volta sugli scarponi

Ritorno ancora una volta su un argomento a me caro, quale i famosissimi "scarponi di cartone", e ci ritorno grazie ad un bel post presente su Facebook nella pagina di "Italica Virtus - Rievocazione Storica Regio Esercito Italiano", post che mi è stato permesso condividere. Potete trovare l'originale al seguente link https://www.facebook.com/481641728528766/posts/5577752915584263/; post al quale direi non c'è niente altro da aggiungere, se non ringraziare gli estensori per la chiarezza sul tema.

Oggi vi ri-parliamo di un argomento che dibattiamo da oltre dieci anni. Troppe volte si leggono post, considerazioni, elucubrazioni molto fantasiose su questo argomento ed il fatto che sia una moda tutta italiana quella di denigrare il nostro Esercito lo sappiamo ma, certe bufale che vanno avanti da anni proprio non le sopportiamo più.

Unendo il materiale del nostro archivio con quello di Stefano Spazzini e di Mattia Uboldi (i quali ringraziamo per avercene concesso l’utilizzo) nonché citando le fonti dell’Ufficio Storico dello Stato Maggiore speriamo, una volta per tutte, di aprire certe menti ancora ottenebrate sull’argomento scarponi. Vorremmo inoltre invitare voi che ci seguite, a distinguere le varie fasi della campagna di Russia. Poiché la maggior parte dei problemi si riscontrarono quasi esclusivamente durante la ritirata, quando il fronte cedette e tutta l'organizzazione logistica collassò; non prima.

NASCITA DELLA FAVOLA.

La favola delle scarpe di cartone nasce “ufficialmente” nel secondo dopoguerra, per dipingere il soldato italiano come quello che venne mandato a fare la guerra con materiale scadente quando, in realtà, il suo equipaggiamento era uguale se non superiore a quello degli altri eserciti coinvolti all'inizio del conflitto. Prendendo spunto dalla triste ritirata di Russia, evento raccontato da alcuni romanzetti e qualche film che nulla hanno di storico, la favola venne portata avanti con decisione da una ben nota parte politica italiana (è ora di dire certe cose), all’epoca molto in imbarazzo per i prigionieri italiani ancora trattenuti in Unione Sovietica. Stessa parte politica che era molto preoccupata delle elezioni e dell’opinione pubblica e che trovò dunque molto comodo attaccare l’Esercito e quella sciagurata campagna di guerra per soli scopi politici.

La favola del “cartone” inizia durante la tragica ritirata di Russia, dopo lo sfondamento del fronte, quando il pericolo di congelamento si ripresentò prepotentemente. Essendo costretti a marce forzate lunghe fino a 40 chilometri al giorno in condizioni proibitive e senza possibilità di fruire di logistica adeguata, i soldati cominciarono a subire il deperimento legato alla scarsità di viveri e al gelo. Le stesse dotazioni personali cominciarono a non offrire più una protezione sufficiente (da non fraintendere poiché qui si parla di situazione straordinaria data dal cedimento del fronte).

Caso emblematico fu quello degli scarponi: non potendo essere ingrassati adeguatamente o mandati nelle retrovie per poter essere riparati, in molti casi si indurirono e, quando dopo aver percorso molti chilometri, il proprietario entrava in un’isba e li toglieva per trovare sollievo vicino alla stufa, al momento di rimettersi in marcia non era più in grado di calzarli perché i piedi si erano gonfiati per lo sforzo e perché le calzature non nutrite spesso diventavano tanto rigide da rompersi, come fossero fatte di cartone, sotto lo sforzo esercitato nel tentativo di calzarle nuovamente.

Ecco perché molti, nell’avvicinare i piedi, decisero di non togliersi lo scarpone poiché avrebbe altrimenti significato sofferenza aggiuntiva e la probabile non riuscita del re-inserimento dello stesso. Questo procedimento continuo non giovava sicuramente alla calzatura, perché in quei frangenti, l’ultima cosa che si pensa è ingrassare e aver cura dello scarpone.

La chiodatura, altro elemento di discordia, si rivelò indubbiamente inadatta alle condizioni climatiche invernali russe ma, quello era il sistema adoperato all’epoca da tutti gli eserciti coinvolti nel conflitto. Strabiliante il fatto di come le critiche vengano mosse riferendosi esclusivamente al secondo periodo invernale, 42/43, dimenticandosi del resto dell’anno e dell’inverno precedente (nonché degli altri fronti),dove la chiodatura non diede nessun tipo di problema poiché in condizioni di uso “normale” e quotidiano, dal chiodo non filtrava nessun tipo di umidità all’interno dello scarpone.

Citiamo, per dovere di cronaca, la relazione dei fatti d’arme relativi al Corpo d’Armata Alpino, dal 14 al 31 gennaio 1943 - XXI, redatta dal suo comandante Gen. Gabriele NASCI e pubblicata per intero sul libro “Trans Limes”, pagina 161, di Mattia UBOLDI. Pagina 12; punto 3)

"L’equipaggiamento della truppa non era adatto a lunghi trasferimenti nella stagione invernale, poiché le scarpe bagnate facilitano enormemente i congelamenti ed i soldati, che si portavano parecchi giorni di viveri, molte munizioni, non potevano portare anche le coperte loro necessarie per ripararsi durante la notte". Come si evince dalla stessa relazione di Nasci, non ci sono critiche alla calzatura di per se, ma all’inadeguatezza dell’uso a quelle latitudini, cosa peraltro comune a tutti gli scarponi usati dagli altri Eserciti.

Non va dimenticato che in Italia le medesime non procurarono mai problemi durante le esercitazioni invernali in quota, a parecchie e decine di gradi sotto lo zero e con umidità superiore a quella presente nelle lande sovietiche. L’unico “inconveniente” era costituito proprio dal fatto che richiedevano una certa manutenzione. Gli scarponi chiodati infatti, non solo dovevano essere periodicamente ingrassati - suola compresa - per ammorbidirli/nutrirli e cerarli per l’impermeabilizzazione, ma avevano bisogno anche di saltuarie riparazione e/o sostituzioni, che venivano effettuate di norma dai servizi preposti nelle retrovie. Per questo ogni soldato aveva almeno due paia di scarponi.

Inoltre, in assenza della debita cura, la differenza termica tra le piste calcate e la temperatura corporea portava gli scarponi a inumidirsi tre le cuciture e le giunte della suola logore, ivi compresi i fori della chiodatura, fino ad arrivare alla tomaia. Con temperature che arrivavano anche ai 45 gradi sotto lo zero, quell’umidità, unitamente al sudore, formavano sotto i piedi una vera e propria lastra di ghiaccio. In questo caso non restava che avvolgere gli arti inferiori in pezze di pano rimediate con ogni espediente, una soluzione che certo non garantiva una protezione pari a quella di scarponi ancora perfettamente efficienti.

domenica 27 dicembre 2020

La Campagna di Russia, parte 4

La quarta ed ultima parte del documentario trasmesso su Rai Tre per la serie "La storia siamo noi" dedicato alla Campagna di Russia.