giovedì 23 marzo 2023

Una colonna di bersaglieri...

COME UNA COLONNA DI BERSAGLIERI SBARRO’ AI RUSSI LA VIA DEL NIPRO (Dniepr).

di Cesco Tomaselli dal "Corriere della Sera" dell'11 maggio 1943.

La Divisione Celere, veterana del C.S.I.R con la Pasubio e la Torino, non era nuova ai traslochi improvvisi, alle partenze lampo. Non per niente si chiamava Celere. Aveva dei bellissimi reggimenti, il Terzo e il Sesto bersaglieri, Il 120° artiglieria e, ancora, un battaglione di motociclisti, uno di cacciatori dl carri, e la Legione croata. Ma mettersi in marcia aveva questa volta diverso significato. Fra il 17 e il 20 dicembre avvenimenti importanti si erano verificati sul medio Don, e la Divisione, che si trovava quasi all’estremità orientale dello schieramento della VIII Armata, era seriamente esposta sul fianco sinistro, tanto che dovette in fretta e furia costituire da quella parte un caposaldo difensivo. Non era disponibili al momento che due battaglioni del Sesto bersaglieri , uno dei quali anzi fu dovuto richiamare indietro mentre viaggiava in autocarro verso altra direzione. Il gruppo che ne risultò prese provvisoriamente il nome del colonnello cui era stato affidato. Le vicende della battaglia sono spesso generatrici di formazioni nuove, autonome, che talora si sciolgono dopo qualche giorno, o qualche ora, talaltra durano e si fanno una storia. Sul Ticiaja, un affluente del. Don, nacque in quei giorni la colonna Carloni, che farà gloriosamente parlare di sé per alcuni mesi. Nella famiglia dei fanti piumati si sanno molte cose sul conto di questo colonnello, che inganna con una apparenza placida, con un che di mesto e bonario nello sguardo. Lo chiamano il “vendicatore” ed è commovente la ragione di quell’epiteto.

Carloni aveva un figlio sottotenente nel 6°, che nell’estate del 41 tenne fede alla tradizione paterna con si generoso impegno che, ferito una volta e poi una seconda, sanguinando tornò all’assalto finché la morte lo stese ancora furente di lotta come l’eroe che i popoli primitivi onorano dandogli il nome di una fiera. Allora il padre chiese di essere mandato in Russia. Ecco, e venuta l’ora di vendicare il figlio nella carne dallo stesso nemico. Carloni porta al combattimento i suoi bersaglieri con una foga che ha del mistico. E’ in piedi giorno e notte, non si sa quando dorma, neanche la testa abbassa quando rugge un colpo in arrivo, e soldati, che sul campo di battaglia diventano ragazzi, vanno allo sbaraglio con le mascelle serrate. Sono i miracoli dell’esempio. Il 24 dicembre, alle undici di notte, Carloni espugnerà un villaggio lanciandosi di corsa alla testa di un battaglione. Tale è il fascino del gesto che un reparto di tedeschi si unisce ai bersaglieri, e il grido ch’esce dalle loro gole è lo stesso che trascina i nostri: Savoia!

Infine anche la Celere si svincola dalla morsa, e le superstiti forze si radunano e si radunano dietro il solco del Donez. Ultima ad arrivare all’appuntamento perché è sempre stata di retroguardia, la colonna Cartoni non viene sciolta, ma si ritiene anzi che convenga rinforzarla. Al momento del nuovo impiego essa risulta costituita da un battaglione del Sesto col Comando di reggimento, da un altro battaglione misto di carristi e di motociclisti pure del Sesto, da due battaglioni appiedati del 120° artiglieria e dal secondo Gruppo e del 17° artiglieria da campagna, il bellissimo reggimento della Sforzesca che ha il primato dei pezzi portati in salvo. I nuovi compiti della colonna consistono nella protezione delle nostre unità in trasferimento verso occidente.

Siamo già a febbraio 43. In una vasta area compresa fra il Donez e il Nipro si sviluppa il movimento dell’VIII armata che ha necessità di concentrasi e di riordinarsi. E’ uno spostamento considerevole di uomini, di automezzi, di materiali (basti dire che c’è tutta l’intendenza coi suoi cospicui magazzini, con le officine automobilistiche, con gli impianti sanitari, con l’organizzazione delle tappe), e questo spostamento è effettuato da scaglioni procedenti a diversa andatura, con soste che spesso si prolungano oltre il previsto per le condizioni delle strade e delle piste, il ritardato arrivo del carburante, la convenienza a modificare all’ultimo momento l’itinerario. Già lo scacchiere è immenso. Per dare un’idea, fra gli alpini che sono in marcia nella regione a nord dl Poltava e la Divisione Ravenna, che è l’estrema unità di ala destra, corrono non meno di 500 chilometri. Nello stesso verso, cioè da est a ovest, camminano le colonne dell’Armata romena e dell’Armata ungherese, anch’esse avviate in zona di riordinamento; in senso opposto, usufruendo delle medesime vie di comunicazione, avanzano le Divisioni germaniche che vanno a sostituire le Unite alleate e ad arginare l’avanzata sovietica.

No, per quanto si dica e si scriva, non è possibile rappresentare con evidenza questo colossale movimento e le difficoltà di ogni genere che incontrava. La neve ricopriva ancora il suolo, ma non era più quella di gennaio, spessa ed asciutta, era una neve fradicia, su cui le gomme degli automezzi non avevano più presa. Anche lo stato dell’atmosfera variava continuamente. Nei grossi centri, per effetto di queste alternative nel deflusso del reparti in marcia, si verificavano all’ improvviso ammassamenti di migliaia di uomini, che bisognava alloggiare, nutrire e sfollare al più presto possibile. Le linee ferroviarie, poi, erano addirittura congestionate: convogli dietro convogli si inseguivano a tutte le ore: lo spettacolo ai passaggi a livello era impressionante.

Dall’altra parte, il comando sovietico aveva intuito quanto avveniva e il maresciallo Sciaposnikof, che ora è stato esonerato dalla carica di capo dl Stato Maggiore, doveva mordersi le labbra dal dispetto. Evidentemente l’Armata rossa si era sanguinosamente esaurita sul Don e nella fornace dì Stalingrado. Dal Cremlino partivano ordini furenti di far presto, di serrar sotto, di dare addosso, perché perdere una simile occasione era militarmente un delitto; ma i Comandi operanti non avevano più riserve, dovevano limitarsi a portare avanti l’offensiva con unità logore e decimate. Nella seconda metà di febbraio fu fatto dai russi l’estremo sforzo. Questo li portò a quaranta chilometri dal Nipro. Mosca cantava vittoria, Londra faceva coro. Si udivano recitare alla radio bollettini rimbombanti. Non accadde nulla di risolutivo. L’Armata rossa dimostrava un’altra volta di non avere la capacità di sfruttare il successo iniziale, ottenuto facendo massa in un settore ristretto.

Per noi Italiani è motivo di orgoglio ricordare che in quei giorni, che potevano essere fatali, uno scaglione dei nostri combatteva accanitamente per impedire ai russi di passare Il Nipro. E’ l’episodio di Pavlograd che ora mi viene alla penna. Pavlograd a un centinaio chilometri a est di Nipropetrovsk, è una città di ottantamila abitanti, con alcune fabbriche e una stazione da cui passa la ferrovia da Carcov alla Crimea. Di primo acchito sembra un grosso villaggio per essere l’abitato sparso e allungato su un percorso di alcuni chilometri. Mista, cioè per metà operaia e per metà rurale è la popolazione, e noi, che ci stemmo un paio di giorni, riportammo l’impressione di gente operosa e tranquilla di natura ospitale. Rammento che avendo bisogno di un pezzo di fune per legare la cassetta mi vidi offrire, nella casa dove avevo pernottato, la corda per stendere la biancheria, e non ci fu verso che accettassero il compenso.

Anche i bersaglieri giunti in retroguardia ai primi di febbraio, ebbero la stessa impressione. Ma poi subentrò un intiepidimento che di giorno in giorno volgeva in freddezza. A mano a mano che i sovietici venivano avanti la gente diventava ritrosa e scontrosa. Era una zona infestata di partigiani, bisognava stare all’erta. Il colonnello Carloni, quando seppe che doveva difendere Pavlograd, prese le sue misure, e fu avveduto, perché la rivolta scoppiò improvvisamente il 13 mattina in una fabbrica alla periferia. Non servì a nulla, bastarono alcune cannonate con proietto incendiario a soffocarla sul nascere, e il tenente della Ghepeu che l’aveva fomentata si fece saltare le cervella. O lui aveva anticipato le cose, o gli altri, che venivano avanti un po’ lentamente, erano in ritardo sulla data. Come sempre ne andò di mezzo la popolazione.

L’investimento di Pavlograd ebbe inizio il 17 febbraio, con un attacco da tre direzioni, il cui punto d’incrocio era il ponte sul Samara ch’è appena fuori dell’abitato, verso ponente. Dopo qualche ora la città era intenibile per la sparatoria degli abitanti, che i partigiani aizzavano distribuendo qualche esempio sommario: armi a chi voleva usarle e pallottole esemplari a chi nicchiava. Le forze, sovietiche sommavano a 3 reggimenti, appoggiati da carri, artiglieria e mortai. I nostri contrapponevano i 3 battaglioni di cui si componeva la colonna, più il gruppo del 17° artiglieria con cinque pezzi: c’erano inoltre un battaglione di movieri cioè di militi addetti al movimento stradale, mezzo migliaio di avieri tedeschi combattenti come fanteria e sette carri pure germanici. La sproporzione delle forze era evidente. Sgombrata la città, che divampava di vorticosi incendi e spandeva tutto intorno un calore ardente, insopportabile, la difesa s’era ristretta al ponte. Era una difesa rabbiosa, convulsa, perchè improvvisata sul terreno scoperto e concentrata su una breve striscia in corrispondenza di quel passaggio che i russi volevano forzare.

Le perdite non tardarono ad assottigliare le nostre file. I bersaglieri cadevano avvinghiati alla mitragliatrice, artiglieri erano colpiti da pallottole mentre servivano ai pezzi, i portaordini dovevano essere spediti a pattuglie perché almeno uno arrivasse, il cappellano militare, col pastrano mezzo abbruciato da un proietto incendiario, aveva preso il comando di un plotone (in mezzo al ponte una pallottola gli spezzò la canna della pistola che brandiva), il tenente colonnello comandante dei movieri cadeva alle prima raffiche. La posizione del difensori si faceva sempre più precaria, Carloni la rappresenta nella sua crudezza al Comando germanico. Ma che poteva fare questa se non affidarsi al valore del nostri? I rinforzi tedeschi erano ancora in viaggio, la Divisione di testa non era ancora arrivata a Nipropetrovsk, sui ponti del Nipro non c’erano che i guastatori che dovevano farli saltare, e a tutti i costi bisogna trattenere i russi, contenerli in ogni caso ritardare il più possibile la loro corsa al Nipro.

La consegna fu eseguita. I russi fecero ancora qualche progresso, giunsero in vista di il Novo Moscovsca, dove la strada che viene da Pavlograd si unisce a quella che scende da Cercovo, fecero avanzare le artiglierie per la nuova battaglia, ma la rivolta partigiana, che doveva aiutarli dal di dentro non scoppiò, perché il colonnello Carloni l’aveva sventata in tempo riuscendo ad impadronirsi delle armi segretamente approntate (in una fabbrica si scopersero persino sette cannoni, oltre a mortai, mitragliatrici, «pepescià», cioè fuciloni automatici con caricatore a tamburo), e nel frattempo erano arrivati sul Nipro i rinforzi tedeschi, Nipropetrovsk non correva più pericolo, a Kiev si aveva una felice ripercussione dl questi fatti con una repentina caduta dei prezzi, che erano saliti ad altezze fantastiche.

I bersaglieri e gli artiglieri della colonna Carloni furono colmati di elogi dai tedeschi, e il loro comandante citato più di una volta negli ordini del giorno. Ultimi nella marcia dal Don al Nipro, per oltre mille chilometri di gelata steppa sempre a contatto del nemico, essi furono i primi ad assaporare la riscossa, quasi si può dire che ne odorarono la fragranza. Ai primi di marzo la situazione era infatti radicalmente mutata.

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