mercoledì 13 ottobre 2021

Woroschilowa, parte 4

Woroschilowa: un buco senza speranza, di Giulio Ricchezza - quarta parte.

Un tenue chiarore comincia a diffondersi all'orizzonte. Le tre compagnie di bersaglieri e CC.NN. continuavano a scalpicciare sulla neve gelata del sentierino. Il nemico non dovrebbe essere lontano. Il generale Marazzani è a Iwanowski. Non immagina che i suoi della Celere stanno per prender contatto coi Russi. Ma sa che dopo tutte quelle ore di marcia, nel gelo siberiano, i suoi uomini devono essere esausti; riusciranno a trovare ancora la forza per combattere?

Improvvisamente, nei pressi del villaggio di Woroschilowa, appaiono lungo la piana le caratteristiche lingue di fuoco dei colpi in partenza; tutti i bersaglieri che stanno ancora camminando in fila indiana e con loro i legionari della Tagliamento, quelli dei servizi che sono stati messi nel numero, i complementi appena arrivati al fronte, freschi freschi, ignari di Russia e di guerra, si sparpagliano a semicerchio per evitare di essere presi d'infilata. Ma al di fuori di quel maledetto sentiero a mala pena tracciato nella neve, si affonda fino al ginocchio; procedere è quasi impossibile, piazzare un'arma per rispondere al tiro avversario diventa assurdo. Nigra è li che cerca di imbastire un'azione qualunque; quel fuoco immediato dei Russi, segno indubbio che il nemico stava all'erta e ha reagito con prontezza fin eccessiva, lo ha sconcertato. Forse i Russi avevano nei dintorni di Iwanowski degli informatori locali che senza farsi scorgere sono arrivati la notte stessa per avvisare dell'imminente attacco. Chi lo sa.

Accanto a Nigra c'è il tenente Devizi. All'improvviso questi - mentre la buriana dei colpi infuria adesso senza posa - vede il colonnello che si affloscia senza un gemito: una pallottola russa gli ha perforato l'elmetto fulminandolo. Ormai il combattimento è feroce, accanito; i bersaglieri gli altri son dunque rimasti senza comandante. Tutti si sono buttati in mezzo a quella neve alta, allontanandosi a semicerchio dal sentierino, cercando di avvolgere il paese da più lati, di premerlo in una morsa. Ma i mortai russi continuano a far danni. La neve bianca è letteralmente coperta di fagotti nerastri. Sono i corpi degli Italiani, intabarrati nei loro pastrani grigioverdi, rattrappiti in quelle pose grottesche degli ultimi spasimi dell'agonia. Non hanno nemmeno fatto a tempo a sparare, a imbracciare il ridicolo moschetto per truppe speciali, contro i mortai russi, contro le posizioni nemiche che hanno sparso, come ha scritto tempo addietro una persona oggi defunta, Luigi E. Gianturco, "morte e disordine fra gli indifesi".

Woroschilowa, infatti, dal punto di vista tattico, è un assurdo: si tratta a ben vedere di un attacco, condotto appunto secondo la prassi più ortodossa; ma nelle particolari circostanze in cui viene effettuato si tramuta da attacco in autodistruzione. Vogliamo dire che, da offensori, gli Italiani sono in breve tramutati in carne da cannone, in vittime. Impotenti, esposti a un fuoco a cui non sanno né possono reagire, privi come sono di strumenti adeguati, gli Italiani dapprima si fermano, poi cominciano a sbandarsi. Invano il sergente Olivo guida ancora una volta all'assalto la propria squadra; invano i caporalmaggiori Gandini e Trabattoni fanno miracoli, insieme con il mitragliere Chiapparini.

Giuseppe Vasi, un semplice bersagliere, si vede addirittura strappar l'arma di mano da uno scheggione di granata che gli sibila davanti, mentre un violento colpo di mortaio sfracella la gamba di Giulio Panepinto, un sergente, distruggendogli al contempo il prezioso mitragliatore. È ferito un altro caporalmaggiore, Pietro Mancini; si accascia al suolo, colpito, Carlo Panizza; poi è la volta di Aldo Napoli. Vampa... esplosione... uomini che cadono, altri che si rialzano poco dopo come inebetiti. Pietro Medetti, portaferiti, non sa più dove voltarsi. Laggiù un uomo si è abbattuto come un albero colpito dal fulmine. Medetti arranca nella neve; si avvicina. Raffiche sibilano intorno alla sua persona. Il gelo è terribile. Ma ogni soccorso è inutile. Quell'uomo è ormai cadavere.

Amedeo Rainaldi, giovanissimo sottotenente della 1a Compagnia, fa appena in tempo a gridare: "Portate le munizioni!". Poi si abbatte anche lui, falciato da una raffica. Ma quel grido è stato sentito da Pietro Cattaneo, che ha raccolto una cassettina di proiettili e che curvo sotto il peso e per non farsi colpire si avvicina. La sventagliata (non si capisce bene da dove provenga, dove sia il Russo che sta sparando) raggiunge anche lui, che si accascia, ferito, senza riuscire a portare il minimo soccorso al povero Rainaldi. Ma il sottotenente non ha più bisogno di soccorsi: ha già chiuso gli occhi per sempre. Eppure il tenente medico De Ponti, il giorno prima, glielo aveva detto: "Non andare... stai qui... con quei piedi non ce la farai...".

Infatti Rainaldi era stato colpito da un inizio di congelamento durante la celebre battaglia di Natale; era stato uno dei primi che erano saliti sui carri tedeschi per meglio inseguire le truppe russe. Poi, al rientro, s'era dovuto mettere a letto, con un febbrone da cavallo. I piedi, gonfi, purulenti, facevano un groppo sotto le coperte, come se si fosse coricato con degli enormi scarponi da montagna. Una ventina di giorni dopo aveva cominciato ad alzarsi, a camminare un po', ma non poteva più calzare gli scarponi. Allora s'era infilato i più comodi e caldi valenki, le calzature di feltro fabbricate dalle donne ucraine, ideali sulla neve gelata ma inservibili al momento del disgelo.

Il 25 gennaio s'era così trovato in riga con gli altri... A battaglia finita, con il cuore gonfio, il caporalmaggiore Piero Mancini, che lo aveva visto morire, prenderà la penna per scrivere al padre, Riziero Rainaldi, per comunicargli la morte del figlio; lo farà umilmente, con un tono rispettoso, così: "... il 25 gennaio, anche se il signor tenente Rainaldi non stava bene, anzi i piedi gli doloravano, e in più il gonfiore gli era aumentato per le fatiche, e gli ostacolava il camminare, volle nuovamente partecipare alla conquista di Woroschilowa, malgrado il medico e i suoi colleghi e tutti noi bersaglieri lo pregassimo di rimanere a letto. Fu sempre alla testa del suo plotone e cadde per ultimo, ferito a morte; in quelle condizioni, a terra, continuava a incitarci: "Savoia... avanti... portate le munizioni"; ma un'altra raffica lo fece tacere; io fui ferito; e venne l'ordine di ripiegamento dentro le nostre linee".

Fotografia dell'archivio storico della Legione Tagliamento: isba a Woroschilowa.

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