sabato 13 marzo 2021

Ordine del giorno di Stalin

ORDINE DEL GIORNO DI STALIN ALLE UNITÀ COMBATTENTI.

È d'estremo interesse conoscere l'a.o.g. di Stalin n. 277 (28 luglio 1942) in cui si impone ai commissari politici e ai Comandi di fermare ad ogni costo la ritirata dei reparti e delle intere unità, che esorbitando da un preordinato criterio strategico minacciava di trasformare il ripiegamento in una disastrosa rotta. L'o.d.g. rivela aspetti della guerra poco conosciuti e dimostra come spesso la vittoria e la sconfitta siano appese ad un filo. L'o.d.g. fu trovato da un bersagliere del XXV battaglione (Maggiore Rivoire) fra le carte di un russo il 2 agosto 1942 a Bobrowski (Don) insieme ad una carta topografica con le direttive dell'attacco sovietico. Consegnato ai superiori Comandi, venne tradotto dal cap. magg. interprete G. Sondans della Sez. Informazioni della Celere.

Ordine del Commissario del Popolo per la difesa dell'U.R.S.S.

Il nemico rovescia sul fronte nuove forze, avanza e penetra profondamente nel territorio dell'U. Sovietica, senza preoccuparsi delle grandi perdite che subisce, occupa nuove zone, distrugge e saccheggia le nostre città ed i nostri villaggi, violenta, deruba ed uccide i nostri civili. Sono ora in corso combattimenti nella zona di Woronesh Don, nel sud e alle porte del Caucaso settentrionale. Gli invasori tedeschi avanzano in direzione di Stalingrado, verso il Volga, e vogliono ad ogni costo raggiungere il Kuban, il Caucaso settentrionale e le ricchezze in nafta e cereali che vi si trovano. Il nemico ha già occupato Woroscilowgrad, Novo Tscherkask, Rostow sul Don, metà della città di Woronesh; una parte delle forze schierate sul fronte meridionale, seguendo l'esempio di elementi in preda al panico, ha abbandonato Rostow e Novo Tschekask, senza aver opposto resistenza e senza aver ricevuto ordini da Mosca; essa ha coperto così le proprie bandiere di vergogna. La popolazione civile, che ha sempre considerato con amore e devozione l'Armata Rossa, comincia ad esserne delusa, non crede più nell'Armata Rossa, e una gran parte di essa maledice l'Armata Rossa perché questa abbandona la popolazione in mano dei tiranni germanici, fuggendo verso oriente.

Sul fronte numerosi e poco intelligenti individui si consolano parlando della possibilità di una ulteriore ritirata verso oriente che sarebbe consentita dalla grandezza del territorio, dal gran numero degli abitanti e dalla disponibilità di riserve di grano. Con ciò questi individui vogliono giustificare il loro vergognoso contegno sul fronte, ma in realtà ragionamenti del genere sono totalmente ingannevoli e falsi e utili soltanto al nemico. Ogni Ufficiale, ogni soldato, ogni funzionario politico deve rendersi conto che i nostri mezzi non sono inesauribili, che il territorio dell'Unione Sovietica non è un deserto, ma rappresenta operai, contadini e intellettuali, madri, padri, mogli, fratelli, figli nostri. Le zone dell'Unione Sovietica che il nemico ha invaso o tenta di invadere rappresentano pane e prodotti di ogni genere per le truppe e il retroterra, metalli e combustibili per l'industria, fabbriche, stabilimenti e ferrovie che riforniscono l'Armata Rossa di armi e munizioni.

Dopo aver perso l'Ucraina, la Russia Bianca, i territori Baltici, il bacino del Donez e altre zone, disponiamo ora di un territorio di molto minore, di una popolazione meno numerosa, di meno grano, meno metalli, meno stabilimenti e fabbriche. Abbiamo perduto più di 70 milioni di abitanti, più di 800 milioni di annui di grano e più di 10 milioni di tonnellate di metallo. Non abbiamo più la superiorità che inizialmente avevamo sui tedeschi in riserve umane e di grano. Ritirarsi ancora significa andare verso una sicura nostra rovina e della nostra Patria. Ogni palmo di terreno da noi abbandonato è destinato a rendere il nemico più forte e ad indebolire noi e la nostra Patria. Perciò non si parli più dello possibilità di potersi continuamente ritirare, della grande disponibilità di terreno, della grandezza e ricchezza della nostra Patria, del gran numero degli abitanti, del gran numero delle riserve granarie.

Ragionamenti di tale genere costituiscono un inganno e un danno: essi ci indeboliscono e giovano al nemico, poiché se non cesseremo di retrocedere rimarremo senza combustibile, senza metalli, senza materie prime, senza fabbriche e stabilimenti, senza strade ferrate. Bisogna dunque finirla con le ritirate. Non più un passo indietro. Questo deve essere attualmente il nostro compito principale. Bisogna ora difendere ostinatamente, fino all'ultima goccia di sangue ogni posizione, ogni metro di terreno aggrapparsi ad ogni zolla di terra sovietica e difenderla fino all'ultimo. La nostra Patria vive dure giornate, noi dobbiamo fermare e poi respingere e sterminare il nemico ad ogni costo. I tedeschi non sono così forti come sembra a coloro che presi dal panico. Essi compiono l'ultimo sforzo. Contenere il loro impeto ora significa assicurare la vittoria futura.

Possiamo noi trattenere questo impeto, e poi respingere il nemico verso occidente? Si, lo possiamo!, poiché nel retroterra le nostre fabbriche e i nostri stabilimenti lavorano ora magnificamente e alla fronte giungono sempre maggiori quantitativi di aerei, carri armati, artiglierie e mortai. Che cosa dunque ci manca? Ci manca l'ordine e la disciplina nelle compagnie, nei reggimenti, nelle divisioni, nelle unità carriste e di aviazione. Questa è la nostra principale deficienza. Noi dobbiamo imporre alle nostre truppe un ordine e una disciplina di ferro se vogliamo risolvere la situazione e salvare la nostra Patria. Non si può più oltre tollerare che ufficiali, commissari e funzionari politici ritirino di propria iniziativa dalle posizioni i reparti. Non si può più oltre tollerare che ufficiali, commissari e funzionari politici permettano che elementi in preda al panico decidano della situazione sul campo di battaglia, e trascinino nella ritirata gli altri combattenti aprendo cosi le porte dell'invasione al nemico.

I pusillanimi e i vili devono essere uccisi sul posto. Per ogni ufficiale, soldato e funzionario politico l'esigenza di non fare un passo indietro senza l'ordine del superiore Comando deve rappresentare una ferrea forma disciplinare. I Comandi di compagnia, di battaglione, divisione, i corrispondenti commissari e funzionari politici che si ritirano dalle posizioni senza ordine superiore, sono traditori della Patria e tali devono essere trattati. Questo è ciò che chiede la nostra Patria. Risponde al suo appello significa salvarla provocando lo sterminio dell'odioso nemico per la vittoria. Dopo la ritirata invernale, effettuata sotto la pressione dell'Armata Rossa, quando nei reparti tedeschi si era allentata la disciplina, il nemico prese alcune severe misure per il ristabilimento della disciplina, misure che condussero a risultati tutt'altro che cattivi. I tedeschi costituirono infatti più di 100 compagnie di disciplina per i combattenti colpevoli di reati di codardia e le disposero nelle zone più pericolose del fronte, con l'ordine di lavare col sangue le proprie colpe. I tedeschi costituirono inoltre circa 10 battaglioni di disciplina per gli ufficiali colpevoli di codardia e li collocarono in zone del fronte ancora più pericolose con l'ordine di redimersi con il sangue delle proprie colpe.

Essi costituirono infine speciali reparti di sbarramento inviandoli alle spalle delle Divisioni che davano minor affidamento con l'ordine di fucilare sul posto gli elementi presi nel caso che tentassero di fuggire dalle posizioni o volessero darsi prigionieri. Come è noto che queste misure hanno sortito il loro effetto ed ora i reparti tedeschi combattono meglio che durante l'inverno. Deve dunque avvenire che le truppe tedesche, per quanto non si propongano l'alto ideale della difesa della Patria, ma perseguano il basso fine di asservire una nazione straniera, abbiano una buona disciplina, mentre le nostre truppe che hanno appunto l'alto compito della difesa della Patria debbano mancare di disciplina? Non è forse il caso che noi facciamo nostra l'esperienza del nemico come già fecero nel passato i nostri predecessori che l'hanno sfruttata ottenendo poi la vittoria? Io credo che così si debba fare.

Il Comando dell'Armata Rossa comanda:

1) Ai consigli militari dei diversi fronti e in primo luogo ai comandanti dei diversi fronti: a) di eliminare assolutamente lo stato d'animo tipico della ritirata e stroncare con mano di ferro quella propaganda secondo la quale noi dovremmo e potremmo ritirarci senza danno ancora più oltre verso oriente; b) di privare assolutamente del comando e deferire al tribunale militare i comandanti di armate che abbiano permesso ritirate arbitrarie senza l'ordine del Comando del fronte; c) di costituire in prossimità del fronte da uno a tre reparti di sbarramento (a seconda della situazione), ai quali deferire gli ufficiali e i corrispondenti funzionari politici di tutte le armi colpevoli di reato di codardia. Inviarli nelle zone più pericolose del fronte per dar loro la possibilità di redimersi col sangue dalle proprie colpe verso la Patria.

2) Ai Consigli militari delle armate e in primo luogo ai comandanti di Armata: a) di togliere assolutamente il comando ai commissari ed agli ufficiali dei corpi d'armata e delle divisioni che abbiano permesso la volontaria ritirata delle truppe dalle posizioni occupate senza ordine del comando di armata e di avviarli al Consiglio militare del fronte perché siano deferiti al tribunale di guerra; b) di costituire nel settore dell'armata 3-5 reparti di sbarramento bene armati (di 2000 uomini ciascuno) e dislocarli immediatamente alle spalle delle divisioni che non danno affidamento con l'ordine di fucilare sul posto gli uomini che tentino di fuggire in caso di panico e di ritirata disordinata, affinché i buoni combattenti siano messi in condizione di fare il proprio dovere; c) di costituire nel settore delle armate da 5 a 10 compagnie di disciplina (di 150-200 uomini), in cui deferire i militari di truppa ed i sottufficiali colpevoli del reato di codardia e inviarli nelle zone più pericolose del fronte dell'armata per dare loro la possibilità di redimersi col sangue dalle proprie colpe verso la Patria.

3) Ai comandanti ed ai commissari dei Corpi d'Armata: a) di togliere assolutamente il comando ai comandanti ed ai commissari di reggimento e battaglione che abbiano permesso la volontaria ritirata dei reparti senza ordine del comandante di Corpo d'Armata o di divisione, di togliere loro le onorificenze e le decorazioni e avviarli ai Consigli militari dei fronti per il deferimento al tribunale di guerra; b) di prestare ogni appoggio ed aiuto ai reparti di sbarramento dell'Armata nell'opera di rafforzamento dell'ordine e della disciplina.

II presente ordine deve essere letto in tutte le compagnie, squadroni, batterie, squadriglie e Comandi.

Il Commissario del Popolo per la Difesa STALIN

martedì 9 marzo 2021

Il viaggio del 2011, Novo Carkowka

Immagini del mio primo viaggio "esplorativo" effettuato nel 2011... l'abitato di Novo Carkowka: " ... l’avanguardia con movimento celerissimo raggiunge la località alle ore 17, trovata occupata dal nemico si dispone ad un immediato attacco. L’avversario che presidia tale località con una forza valutata a due battaglioni rinforzata da carri armati, artiglierie e mortai si difende rabbiosamente; ma , soprattutto dall’irruenza dell’attacco che non gli consente di spiegare come vorrebbe le sue forze, deve cedere il terreno. Inutili diventano ormai le puntate offensive dei carri armati messi fuori combattimento, devono desistere dalla lotta".



L'ARMIR nella II battaglia del Don, parte 12

L'8 Armata italiana nella seconda battaglia difensiva del Don (11 dicembre 1942 - 31 gennaio 1943), dodicesima parte.

SECONDO PERIODO (9-31 gennaio) - LA PREPARAZIONE DEL NEMICO AL NUOVO ATTACCO.

La crescente attività nemica e l'afflusso di nuove forze, sia in corrispondenza dell'ala destra dell'Armata (XXIV C.A. e 19a D. cr.) sia sul fronte della 2a Armata ungherese, precisano l'intenzione nemica di riprendere le offensive, agendo da nord e da sud del C.A. alpino per sviluppare ancora una volta quella manovra a tenaglia con la quale ha già conseguito tanti imponenti risultati. Il comando tedesco non ha forze per predisporre adeguate contromisure su entrambi i settori minacciati. D'altra parte attribuisce maggiore importanza alla possibile azione nemica sul fronte ungherese che ritiene debba estendersi al C.A. alpino.

L'Armata richiama l'attenzione del comando Gruppo Armate sulla situazione dell'ala meridionale dello schieramento, ma nessun provvedimento viene preso per parare la minaccia che giorno per giorno si va delineando sempre più consistente sull'ala destra del XXIV C.A. Le forze sul fronte dell'Armata alla sera del 13 gennaio risultano dallo schizzo 13. Sono 11 divisioni, 2 brigate, 3 corpi Cr. (con un complesso di 450-500 carri) ed un corpo di cavalleria da parte nemica; alle quali si oppongono 6 divisioni di ftr. italo-tedesche e 2 divisioni cr. di cui la 27a senza carri, e con unità di fanteria in corso di affluenza (2° rgt. di addestramento).

LA ROTTURA SUL FRONTE DEL XXIV CORPO D' ARMATA E L'AVVOLGIMENTO DELL'ALA SINISTRA DELL'ARMATA.

Il 14 mattina, il nemico inizia gli attacchi sulla destra del XXIV C.A. (27a D. cr., Gruppo Fegelein, btg. Führer) con direzione generale ovest e nord-ovest. A differenza di quanto avvenuto nella prima fase, l'avversario attacca subito con mezzi corazzati. Le forze della difesa non sono in grado di ostacolare seriamente l'azione nemica che, nella stessa giornata, raggiunge con le punte avanzate Kulikowka e Shilino, travolgendo, in quest'ultima località, il comando tedesco del XXIV C.A. Il comando d'Armata, mentre tenta di ristabilire il fronte arretrando l'ala sinistra del XXIV C.A. in corrispondenza della valle Krinitschnaja e guadagnando così, con l'accorciamento del fronte la disponibilità della 385a D., insiste presso i! generale tedesco, capo del nucleo di collegamento, perchè siano dati in tempo ordini di ripiegamento per il C.A. alpino, che si prevede verrà isolato, ricordando l'impegno preso dai comandi superiori germanici di evitarne a qualunque costo l'accerchiamento.

L'indomani il nemico riprende l'attacco appoggiato da masse di carri armati su tutto il settore del giorno precedente, annientando le residue forze del Gruppo Fegelein e del btg. Führer ed infliggendo forti perdite anche alla 387a D. germ. Punte corazzate, spinte verso nord dal varco aperto nella difesa, giungono a Rossosch, sede del comando del C.A. alpino ed a Oljchowatka. Il comando Armata chiede al Gruppo Armate di impartire direttive per il ripiegamento dell'Armata e di autorizzare l'arretramento del C.A. alpino in armonia con la 2a Armata ungherese. La questione viene prospettata al Führer, il quale non solo non concede il ripiegamento del C.A. alpino, ma neppure la rettifica già concordata del fronte del XXIV C.A. intesa a creare un fianco difensivo. Il comandante dell'Armata fa presente al generale tedesco di collegamento che ordini del genere sono imposti dalla situazione e dispone l'arretramento del XXIV C.A. sulla linea Ternowka - Grakoff- nord Michailowka e, se nccessario, dell'ala destra della D. «Cuneense», per prendere contatto con la sinistra del XXIV C.A.

Il comando Gruppo Armate prende nota delle disposizioni dichiarando di non associarsi; in serata, però, giunge notizia che il Führer ha sanzionato gli ordini del comando d'Armata. Il mattino del 16, i russi attaccano più volte le posizioni del btg. Edolo (5° alpini), ma sono respinti. Lo stesso giorno 16 ed il 17 il nemico continua la penetrazione da est verso ovest nel vuoto creatosi fra il XXIV C.A. e la 27a D. cr. Unità corazzate raggiungono e superano Rowenki puntando su Waluiki. Nella notte sul 17, forze valutate a circa due rgt. attaccano sulla linea del Don il fronte della D. «Tridentina». Dopo ripetuti violenti combattimenti sono respinte con sanguinose perdite dai btg. alpini «Vestone» «Morbegno» ed «Edolo». La D. «Julia» ripiegando sul Kalitwa è attaccata ripetutamente e subisce gravi perdite anch'essa.

Il presidio di Tschertkowo, che da 27 giorni resiste agli attacchi nemici, rotto l'accerchiamento e superate altre forze che ne contrastano il movimento, raggiunge Belowodsk da dove i resti stremati sono successivamente avviati alle retrovie. Il presidio del campo avio di Gartmjschewka, che stretto da prevalenti forze nemiche non riesce a rompere l'accerchiamento, viene successivamente sgomberato con aerei da trasporto. Anche sul fronte ungherese il nemico ha creato una breccia penetrando per oltre 50 km. verso Ostrogoshsk. L'Armata fa presente al generale tedesco di collegamento che il persistere nella decisione di rimanere al Don non può portare che a gravi conseguenze perché l'arretramento è ormai imposto dagli eventi. Ciò, malgrado nessun provvedimento viene ancora preso, nel giorno 16, dal comando Gruppo Armate.

Soltanto il giorno 17 quando gli ungheresi hanno già abbandonato il Don, il Gruppo Armate da facoltà al comando d'Armata di ordinare il ripiegamento del C.A. alpino, ma la manovra nemica, intesa ad avvolgere l'ala sinistra dell'Armata, è già in pieno sviluppo con le due branche moventi: a sud, dalla zona di rottura determinata nei giorni precedenti; a nord, da quella creata nel settore della Armata ungherese. Quando all'imbrunire del 17 gennaio il C.A. alpino inizia il ripiegamento, gli ungheresi sono già alla ferrovia Sswoboda - Rossosch, il Corpo Cramer (il Corpo Cramer era stato promesso, in caso di bisogno, all'Armata italiana a sostegno del C.A. alpino e XXIV germanico, ma venne assorbito dalle vicende sul fronte ungherese) (che dipende dalla 2a Armata ungherese) è a nord-ovest di Ostrogoshsk e le punte corazzate avversarie sono già a Postojalyj ed a B.Lipjagj (est di Waluiki), sono cioè in possesso delle principali arterie di comunicazione alle spalle del C.A.

Il processo D'Onofrio, parte 2

Il processo D'Onofrio, seconda parte. Premetto un aspetto molto importante che ha sempre contraddistinto questa pagina: a volte si toccano argomenti scottanti ed ancora oggi delicati; quello che qui tratterò è forse uno dei più significativi da questo punto di vista. Ma detto questo sottolineo che quanto andrò a riportare NON ha alcun fine politico o di parte, ma esclusivamente storico. Sono fatti relativi alla Campagna di Russia ed alle sue conseguenze e come tali vengono riportati. Qualsiasi commento inopportuno da una parte e dall'altra verrà immediatamente cancellato. Chiedo a chi segue la pagina di esporre la propria idea con educazione e rispetto verso chi magari espone pensieri opposti: la storia e non solo la storia ha già condannato chi mandò quei sfortunati ragazzi in Russia e chi contribuì a tenerli più del dovuto.

LA QUERELA PRESENTATA DA EDOARDO D'ONOFRIO.

Ill.mo Sig. Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di ROMA.

È stato in questi giorni pubblicato e viene diffuso in migliaia di copie, sotto il nome "Russia", un cosiddetto numero unico, a cura dell’U.N.I.R.R. (Unione Nazionale Italiani Reduci di Russia) nel quale, a caratteri di scatola, si leggono all'indirizzo di alcuni cittadini italiani e fra essi il sottoscritto Edoardo D'Onofrio, espressioni come le seguenti: "rinnegati postisi a servizio della polizia sovietica, aguzzini" (dei nostri prigionieri dell'Unione Sovietica).

Inoltre in un articolo stampato in grassetto e sotto il titolo: "Edoardo D'Onofrio", si accusa il sottoscritto di avere fra l'altro nei campi di concentramento di Oranki e di Skit, sottoposto ad estenuanti interrogatori dei prigionieri italiani detenuti in quei campi, e ciò alla presenza di un ufficiale dell'N.K.V.D.; che non si trattava di semplici conversazioni politiche come D’Onofrio vorrebbe far credere, ma di veri e propri interrogatori durante i quali veniva messo a verbale quanto il prigioniero rispondeva; che immediatamente dopo la visita di D'Onofrio in quei campi, alcuni dei prigionieri italiani che in quei giorni erano stati sottoposti ad interrogatorio furono allontanati e rinchiusi in campi di punizione; che simili procedimenti avevano il duplice scopo di far crollare prima con lusinghe e poi con esplicite minacce (non tornerà a casa; lei non conosce la Siberia? Allusioni alla famiglia, carcere e simili) la resistenza fisica e morale di questi uomini.

Questo articolo, o dichiarazione che sia, risulta sottoscritto da Domenico Dal Toso - Luigi Avalli - Ivo Emett ecc.

L'essenza e il fine diffamatori di tali pubblicazioni per le espressioni adoperate e per gli addebiti specifici sono palesi e non v’è bisogno di illustrarli, tanto più quando siano messi in relazione col fatto che, precedentemente, il sottoscritto in una polemica sulle colonne di "Risorgimento Liberale", aveva già posto in chiaro la vera natura e la portata democratica e patriottica della propaganda antifascista e antitedesca che il sottoscritto svolse nei suoi contatti coi prigionieri italiani nell'Unione Sovietica, prima e dopo l’8 settembre 1943, propaganda che si svolse all'infuori di qualsiasi ingerenza della polizia sovietica, a servizio della quale, contrariamente alla calunniosa accusa di cui sopra, il sottoscritto non è mai stato.

Del resto l'indole dell’attività politica e propagandistica del sottoscritto sui suoi rapporti con i suoi connazionali, in quel tempo prigionieri nella Unione Sovietica, è consegnata nella collezione del giornale "L'Alba" che sarà esibita, al fine di contribuire all’accertamento della verità. Pertanto il sottoscritto, costituendo le pubblicazioni in parola il reato di diffamazione in suo danno a mezzo della stampa, sporge formale querela, facendo istanza per la punizione dei sigg.:
1) Giorgio Pittaluga, che figura come Direttore della pubblicazione;
2) Ugo Graioni, il cui nome è a sua volta indicato come redattore responsabile;
3) Domenico Dal Toso;
4) Luigi Avalli;
5) Ivo Emett;
quanto agli altri tre, e a chiunque altro ne debba rispondere, limitatamente all’articolo pubblicato a pagina 7, sotto il titolo "Edoardo D'Onofrio".

Relativamente al Pittaluga, direttore, e al Graioni, redattore responsabile, sembra al sottoscritto che, entrambi, e non soltanto il Graioni, debbano rispondere di diffamazione a mezzo della stampa, sia perché trattandosi di pubblicazione non periodica, tutti e due devono considerarsi coautori della pubblicazione stessa, e sono quindi punibili ai sensi dell’art. 57 Cod. Pen., sia perché la figura del redattore responsabile, secondo la recente legge sulla stampa, è stata soppressa, risalendo, in ogni caso di pubblicazioni periodiche, la responsabilità allo stesso direttore.

Con riserva di indicare testimoni o di produrre documenti nonché di costituirsi parte civile, il sottoscritto concede ai querelati la più ampia facoltà di prova in ordine agli addebiti come sopra mossigli.

Elegge infine il proprio domicilio in Roma, via Giosuè Carducci n. 2, presso l’avv. Mario Paone, che delega per tutti gli adempimenti relativi alla presente querela.

Salvo ogni altro diritto. Con osservanza. EDOARDO D'ONOFRIO.

I PROTAGONISTI DEL PROCESSO.

Presso il Tribunale penale di Roma - Sez. X - Aula della 1a Sezione della Corte d'Assise.

Presidente del Collegio: Dott. Vincenzo Carpanzano.
Pubblico Ministero: Dott. Pietro Manca.

I comunisti.
Querelante: Sen. Edoardo D'Onofrio.
Rappresentanti della Parte Civile: Avv. Mario Paone e Avv. Prof. Giuseppe Sotgiu.

I reduci di Russia.
Imputati: Ugo Graioni, Giorgio Pittaluga, Ivo Emett, Domenico Dal Toso, Luigi Avalli.
Collegio di difesa: Avv. Mastino Del Rio e Avv. Rinaldo Taddei.
Imputazione: diffamazione a mezzo stampa di cui agli art. 595 cod. pen. e 13 l. 8 febbraio 1948 n. 47.

LA PRIMA UDIENZA.

Palazzo di Giustizia di Roma - Lunedì 16 maggio 1949.

La tragedia dei nostri soldati in Russia aveva bisogno di una cornice più vasta che non fosse la solita, piccola aula dove quotidianamente i magistrati amministrano giustizia. Per questo, forse, è stato deciso che il giudizio si tenga nell’aula della 1a Sezione della Corte d'Assise; la stessa, per la cronaca, nella quale per sette mesi si svolse il processo a carico dell’ex Maresciallo d'Italia, Rodolfo Graziani.

Ore 9,10 precise: entra il tribunale. Tutti gli imputati sono presenti al loro banco. D'Onofrio, invece, siede ad un tavolo situato al centro del pretorio. La parte dell'aula riservata al pubblico è affollatissima. Curiosità? No! Non è la morbosa curiosità che porta le folle sotto le gabbie e i plotoni di esecuzione. Sono reduci che vogliono rivivere le sofferenze trascorse, attraverso il racconto, che qui dentro si andrà facendo, della loro triste odissea; sono soldati che sperano di ritrovare il commilitone perduto; sono spose, madri, sorelle, fidanzate, amici di chi non è più tornato; è una folla sulla quale il tempo è passato senza riuscire a lenire dolori e sofferenze. È l'Italia che piange ì suoi figli perduti e si erge severa e solenne contro i traditori della patria e della civiltà.

Breve e precisa, la messa a punto del 'responsabile' del numero unico 'Russia', Giorgio Pittaluga, dà il via al dibattito, dopo che il Presidente ha dichiaralo aperta l'udienza. Egli permise la pubblicazione dell’articolo riguardante il sen. D'Onofrio perché ebbe assicurazione dagli autori stessi che tutti i fatti specificati nello scritto erano perfettamente rispondenti alla realtà. Si trattava di un riferimento obiettivo senza alcuna intenzione diffamatoria, fatto col puro e semplice animus narrandi.

Ugo Graioni, il direttore del numero unico, ne dà conferma aggiungendo che molti reduci dalla Russia con i quali ebbe occasione di parlare gli ribadirono l'esattezza dei fatti riassunti nello scritto.

Il primo a narrare quello che accadde ai nostri soldati è l'imputato Domenico Dal Toso, tenente del IV artiglieria alpina della Divisione Cuneense, caduto prigioniero nel gennaio del 1943, trasferito al campo di Krinovaia con una lunga, estenuante marcia forzata.

Dal Toso: 'Partimmo in tremila, arrivammo in millecinquecento. Ci nutrivamo di semi di girasole. Avevamo avuto come viveri per il viaggio, soltanto un filone di pane da 500 grammi. Giunti nel campo di Krinovaia venimmo distribuiti a seconda del rango, in alcuni box simili a quelli dove, nelle scuderie, si rinchiudono i cavalli: in ognuno dei quali eravamo stipati in ventisei persone. Lo spazio era così limitato che era impossibile perfino sdraiarsi. Vi rimanemmo per quattro giorni, senza acqua, prima che ci fosse acconsentito di attingerne da un pozzo. Ci legavamo le gavette alla cintura e ci si spenzolava giù per poter arrivare fino in fondo. Molti, nel tentativo, caddero nell'acqua ed annegarono. L'acqua s'inquinò e non potemmo più berne.

Nel campo, insieme al Dal Toso, si trovava un cappellano militare, padre Turla, il quale era a conoscenza delle tristissime condizioni in cui versavano i prigionieri negli altri campi. Egli disse al Dal Toso che in alcune sezioni riservate ai soldati semplici erano avvenuti addirittura casi di cannibalismo.

'Cannibalismo?' - interrompe qualcuno nell'aula su cui grava una atmosfera di dolore e di morte. Dal Toso: 'Sì. Cannibalismo. Aspettavano che un commilitone morisse e poi ne mangiavano il cuore ed il fegato'.

Un giorno venne al campo un uomo, che dimostrava una quarantina di anni d’età. Nessuno osò domandargli il nome, né lui si preoccupò di dircelo: era un italiano e noi aspettavamo da lui almeno una parola di conforto, in nome di quel vincolo fraterno che dovrebbe unire tutti coloro che sono nati entro gli stessi confini. Rudemente egli ci disse invece che dovevamo ringraziare Dio se ancora non ci avevano fucilato. Più tardi si presentò una commissione russa per trasferire coloro i quali fossero in grado di camminare, in un altro campo di concentramento. L'accertamento per la idoneità consisteva nel fare venti passi davanti alla commissione. Ma tanto era lo sfinimento che molti caddero prima di aver compiuto il percorso di prova. Il ten. Dal Toso fu tra i prescelti.

Dal Toso: 'Lasciammo Krinovaia in 400 ufficiali. Giungemmo ad Oranki in 290. Gli altri erano morti durante il trasferimento compiuto nell’interno di carri bestiame e senza alcun cibo. Nel nuovo campo scoppiò una violenta epidemia di tifo petecchiale. Ma non fu dato altro medicamento che del permanganato. Quando fui trasferito al campo convalescenziario di Skit, pesavo soltanto 39 chili. Durante la permanenza ad Oranki venne per la prima volta il Fiammenghi il quale tenne numerose conferenze ai prigionieri'.

Presidente: 'Cosa vi disse in particolare il Fiammenghi?'.

Dal Toso: 'Voleva conoscere la nostra opinione politica. Egli teneva ad informarci che in Italia le cose andavano molto male. Poiché il Fiammenghi fece capire chiaramente che a coloro i quali si fossero dichiarati antifascisti sarebbe stato concesso un miglioramento del rancio, qualcuno aderì alle nuove idee di cui veniva fatta ampia propaganda. È chiaro che, secondo la prassi del partito bolscevico, per antifascismo doveva intendersi, adesione alle dottrine marxiste'.

L'imputato narra poi come alla fine di luglio arrivò il signor D'Onofrio, il quale radunò gli ufficiali italiani proponendo loro che sottoscrivessero un appello al popolo italiano di incitamento ad abbattere il governo Badoglio e la monarchia. In Italia, come è noto, si era verificato il colpo di stato che aveva rovesciato il governo fascista il 25 luglio 1943.

A domanda del presidente, Dal Toso precisa che il signor D'Onofrio, comunista, si qualificò di professione 'cospiratore'.

Presidente: 'Come, come?...'. Dal Toso: 'Sì, sì, professione «cospiratore». Così ci disse. Egli era accompagnato da un ufficiale della polizia russa. Prima ci parlò a lungo della patria lontana, delle nostre case, delle famiglie, provocando la comprensibile commozione dei presenti. Poi ritornò per farci firmare il famoso appello al popolo. Il cap. Magnani, che era a capo della nostra comunità, rispose a nome di tutti che i soldati e gli ufficiali italiani erano legati da un giuramento al Re e che quindi mai avrebbero potuto firmare un appello del genere. D'Onofrio andò su tutte le furie e la sua reazione fu immediata. Il capitano Magnani fu chiamato dal D'Onofrio ed ebbe con lui, presente un capitano russo, un colloquio durato due ore. Al termine di esso il Magnani aveva il viso stravolto. Il giorno successivo veniva trasferito in altro campo e da allora non s’è saputo più nulla di lui se non che fu rinchiuso in un campo di punizione. D'Onofrio aveva detto: 'Al capitano Magnani ci penso io'.

Come tutti gli altri anche l'imputato dovette subire un interrogatorio, alla presenza di un ufficiale russo, il quale annotava tutte le risposte, al termine del quale il D'Onofrio lo minacciò di non riveder più sua madre se avesse coltivato certe idee di italianità perché in Russia ognuno era controllato e dalla Russia non era facile tornare indietro... In Russia vi erano regioni ancora più fredde, con chiaro riferimento alla deportazione in Siberia.

La lunga deposizione del primo imputato è finita: Dal Toso ha parlato con voce bassa che tradiva una visibile commozione interiore.

Subito dopo viene introdotto il secondo reduce querelato. È il tenente di fanteria della divisione Sforzesca, Luigi Avalli, fatto prigioniero nell’agosto 1942 in Russia. È tutto un racconto di sofferenze senza nome che si riassumono nel desiderio più volte espresso dai prigionieri di essere fucilati piuttosto di continuare a vivere in quegli infernali campi di concentramento. Krinovaja - Minciurinsk - Tamboff: nessuno ne parla eppure erano simili e forse anche peggiori di Meidanek - Buchenwald - Mathausen che tutto il mondo conosce! L'imputato narra le pressioni politiche cui i prigionieri erano sottoposti, con le continue conferenze, le domande, gli interrogatori del Fiammenghi e del D'Onofrio, che richiamavano all'ordine chiunque osasse esprimere opinioni sfavorevoli sul regime sovietico.

Con questa deposizione s’è chiusa la prima udienza. L'atmosfera nell’aula è grave, pesante. Il racconto dei reduci ha lasciato in tutti una penosa impressione.

sabato 6 marzo 2021

Il viaggio del 2011, Nowo Postojalowka

Immagini del mio primo viaggio "esplorativo" effettuato nel 2011... vista parziale del campo di battaglia di Nowo Postojalowka: " ... quella sanguinosa, disperata battaglia che durò, pressoché ininterrotta, per più di trenta ore ed in cui rifulse il sovrumano e sfortunato valore dei battaglioni e dei gruppi della Julia e della Cuneense, che ne uscirono poco meno che distrutti... la più dura, lunga e cruenta fra le molte sostenute dagli alpini, sia in linea sia nel corso del ripiegamento".



Immagini, il fronte del Don

Tratto del fronte sul Don, tenuto dai reparti tedeschi prima di cederlo alle truppe italiane.

mercoledì 3 marzo 2021

Il processo D'Onofrio, parte 1

Il processo D'Onofrio, prima parte. Premetto un aspetto molto importante che ha sempre contraddistinto questa pagina: a volte si toccano argomenti scottanti ed ancora oggi delicati; quello che qui tratterò è forse uno dei più significativi da questo punto di vista. Ma detto questo sottolineo che quanto andrò a riportare NON ha alcun fine politico, ma esclusivamente storico. Sono fatti relativi alla Campagna di Russia ed alle sue conseguenze e come tali vengono narrati. Qualsiasi commento inopportuno verrà immediatamente cancellato; chiedo a chi segue la pagina di esporre la propria idea con educazione e rispetto verso chi magari espone pensieri opposti: la storia e non solo la storia ha già condannato chi mandò quei sfortunati ragazzi in Russia e chi contribuì a tenerli più del dovuto.

Il "processo D'Onofrio" fu intentato proprio dal D'Onofrio, uno dei maggiori dirigenti del partito comunista italiano, nei confronti di alcuni reduci dell'ARM.I.R. - Armata Italiana in Russia, per il numero unico 'Russia', pubblicato dagli stessi, nel quale il D'Onofrio veniva accusato pubblicamente di "aver interrogato, maltrattato, minacciato i nostri soldati prigionieri in Unione Sovietica, oltre ogni legittimo ed umano comportamento".

CHI ERA EDOARDO D'ONOFRIO.

Edoardo D'Onofrio nacque a Roma il 10 febbraio 1901 da Pietro e da Giulia Di Manno. All'età di dodici anni il D'Onofrio si iscrisse alla federazione giovanile socialista militando in vari circoli della capitale. Nel 1917 venne arrestato per la prima volta nel corso di una manifestazione per la pace e alla fine dell'anno entrò a far parte del comitato centrale della federazione giovanile socialista, schierandosi con la corrente di sinistra che si ispirava alla rivoluzione russa. L'anno successivo entrò nel partito socialista e venne arrestato per la seconda volta per aver distribuito volantini antimilitaristi.

Nel 1921 fu al congresso di Livorno e partecipò alla fondazione del partito comunista d'Italia e assunse compiti di direzione della Federazione giovanile comunista. Nel 1922 si recò a Mosca al IV congresso dell'Internazionale. Al rientro in Italia venne subito arrestato e trascorse sei mesi in carcere. Una volta liberato partì clandestinamente per Mosca, ma fu richiamato in Italia nel 1925 per organizzare la federazione giovanile comunista. Arrestato nel 1928, venne condannato dal Tribunale speciale per la difesa dello Stato a 12 anni e 6 mesi di reclusione e a tre anni di libertà vigilata.

Liberato in seguito all'amnistia del 1934, riuscì ad espatriare illegalmente nel giugno 1935 e si rifugiò in Francia. Dopo aver partecipato alla guerra civile spagnola, raggiunge l'Unione Sovietica nel 1939. Qui, nel 1943, venne incaricato della direzione del lavoro politico tra i prigionieri italiani, assunse la direzione de "L'Alba" periodico diffuso nei campi di prigionia e s'impegnò personalmente nelle "attività" che gli verranno addebitate da quei pochissimi nostri prigionieri rientrati in Italia, dopo anni di durissima prigionia. Nel 1945 si trasferì a Roma dove venne eletto segretario delle federazione provinciale romana e successivamente anche segretario regionale per il Lazio e per l'Abruzzo. Ricoprì diversi incarichi di partito e morì a Roma il 14 agosto 1973.

I REDUCI ED IL NUMERO UNICO "RUSSIA".

D'Onofrio durante la sua permanenza nei campi di concentramento di Oranki e di Skit:

1) assistito dal Fiammenghi e alla presenza di un Ufficiale dell'N.K.V.D. ha sottoposto ad estenuanti interrogatori dei prigionieri italiani detenuti in quei campi;

2) non si trattava di semplici conversazioni politiche, come ipocritamente il D'Onofrio vorrebbe far credere, ma di veri e propri interrogatori di carattere politico che spesso duravano delle ore e durante i quali veniva messo a verbale quanto il prigioniero rispondeva;

3) immediatamente dopo la visita di D'Onofrio in quei campi alcuni dei prigionieri italiani che in quei giorni erano stati sottoposti ad interrogatorio furono allontanati e rinchiusi in campi di punizione e ancora oggi alcuni sono trattenuti nei campi di concentramento di Kiev;

4) simili procedimenti avevano il duplice scopo di far crollare prima con lusinghe e poi con esplicite minacce (non ritornerete a casa; lei non conosce la Siberia? allusioni alla famiglia, carcere e simili) la resistenza fisica e morale di questi uomini ridotti dalla fame, dalle malattie, dai maltrattamenti a cadaveri viventi e guadagnare l’adesione degli altri prigionieri intimoriti dall’esempio della sorte toccata a questi.

Una tragedia annunciata, parte 5

Riporto la quinta ed ultima parte di un interessantissimo articolo, tutto da leggere, di Nicola Pignato apparso su "Storia Militare" numero 117 del giugno 2003; è un articolo dall'altissima valenza storica che ci permette di conoscere alcuni aspetti della Campagna di Russia, evidentemente fino ad oggi poco evidenziati.

Ci sembra infine il caso di sottolineare alcune inesattezze ancora presenti in lavori recentemente pubblicati e basati più sull'aneddotica che sui documenti. Anzitutto, la "leggenda" secondo la quale in un bollettino Armata rossa il N. 630 - sarebbe comparsa la frase "solo il corpo alpino italiano deve ritenersi imbattuto in terra di Russia". Si sarebbe riferito al fatto che i superstiti della Tridentina, guidati dal generale Reverberi, erano riusciti a spezzare l'accerchiamento dopo un'epica marcia, superando ripetuti sbarramenti nemici (e nonostante le condizioni meteorologiche proibitive), in località Nikolajewka, salvando cosi dalla prigionia (e con tutta probabilità dalla morte) non solo loro stessi, ma una moltitudine di sbandati che si era loro accodata.

Ebbene, in questi ultimi anni un'accurata indagine, recepita anche dall'Associazione Nazionale Alpini, ha dimostrato che mai il Comando sovietico aveva affermato alcunché di simile. Anzi, aveva trionfalmente proclamato la totale distruzione di tutte e tre le divisioni. E gli scampati sarebbero stati molti di più se si fosse stati più accorti: il 20 gennaio a Opit (relazione del gen. Nasci sui fatti d'arme del C.A. Alpino dal 14 gennaio al 21 gennaio 1943, A.C.S., Ministero della Real Casa, UPAC, Serie Speciale, p.9), dove erano concentrati nella sede del comando del C.A. alpino, senza averla apprestata a difesa, i pochi e preziosi mezzi di collegamento radio, questi rimasero distrutti durante un attacco russo; le divisioni alpine Julia e Cuneense restarono cosi senza direttive e i loro comandanti dopo pochi giorni finirono per arrendersi con i superstiti ormai demotivati (la pietà nei confronti dei prigionieri, dei quali solo una piccola percentuale sopravvisse ai maltrattamenti, non può esimerci dal ricordare che taluni di essi si trasformarono in aguzzini dei loro commilitoni e che uno dei tre generali, quando lo incarcerarono - tornò infatti quattro anni dopo i suoi gregari - dichiarò di essere stato deluso dall'accoglienza riservatagli - lui, che con i suoi due parigrado, aveva ricevuto un trattamento di favore - e che non si sarebbe arreso se avesse saputo ciò che l'aspettava. Non tutti avevano la tempra del maggiore - poi, da generale, comandante della brigata alpina Taurinense - Franco Magnani il quale seppe resistere alle minacce ed alle lusinghe anche a costo di scontare una lunga detenzione in campi di punizione e lavori forzati addirittura fino al 1951).

Anche questo episodio ha dello sconcertante: il genio del Corpo d'Armata Alpino era largamente provvisto di moderni apparati radio, tra i quali 4 stazioni autocarreggiate A 350 e 6 A 310. Non è chiaro perché queste fossero state abbandonate a Rossoch (precedente sede del comando) e siano andate distrutte quando quella località fu investita, il 15 gennaio, da un attacco sovietico, restando, una volta che l'altro centro radio di Postojali (con altre 2 RF3C ed 1 R4) era andato perduto il 14, con le sole tre RF3C di Opit. Sia ben chiaro che con queste precisazioni non si vuole sminuire il valore e il coraggio di tanti che si batterono senza risparmio, ma soltanto mettere in evidenza la disorganizzazione dei comandi italo-tedeschi: le eccezionali doti di saldezza delle nostre truppe da montagna, se bene inquadrate e comandate, si sono evidenziate in tante occasioni da non avere bisogno di ulteriori apprezzamenti, specie se di dubbia origine come quelli inventati dai fuorusciti (si veda N. Pignato, Lo sfortunato epilogo della campagna di Russia in "Panorama Difesa", novembre 1998).

La storia del "bollettino" faceva il paio con l'altrettanto assurda menzogna, questa di provata origine sovietica: il cosiddetto "eccidio di Leopoli", dove i tedeschi avrebbero eliminato i superstiti dell'ARM.I.R. Come i lettori sapranno, fu soltanto dopo costose inchieste sollecitate, per non meglio identificati bassi interessi filosovietici, da qualche sprovveduto politico (quando già nel 1964 il Maresciallo Messe, nella 4a edizione delle sue memorie, aveva chiarito che la strage era esistita solo nella fantasia di una povera mitomane) che anch'essa venne clamorosamente smentita. Eppure nel 1988, e poco prima che emergesse la verità, chi scrive, in possesso di numerosi documenti inediti che ne confermavano la falsità, si offri di consegnarli a un quotidiano "d'informazione" perché venissero pubblicati. Ma il giornalista all'uopo contattato si penti di aver accettato la collaborazione e si defilò quasi subito, probabilmente perché una presa di posizione del genere non sarebbe Stata in sintonia con la linea politica della sua redazione.

Accenniamo solamente, poi, alle inesattezze che, insieme con la "favola" del bollettino ancora si riscontrano in un volume apparso ed ampiamente pubblicizzato nel 1998 (A. Petacco, L'armata scomparsa, Milano, Mondatori). Qui, addirittura, il numero degli effettivi dell'8a Armata viene elevato - in quarta di copertina - a ben 250.000 (appena un corpo d'armata in più!); i carri T-34 (pag. 118) raggiungono le 50 tonnellate (come se le 26,5 tonnellate del modello 76 B allora in uso non fossero già abbastanza per assalire fanterie sprovviste di mezzi di contrasto). Si aggiunga che il lettore era Stato già "informato" (p. 16) che il nostro carro L aveva preso questa sigla dalla parola "Littorio" (anziché, essere, come sanno anche i sassi, l'abbreviazione di "leggero") e che pesava, invece delle sue 3,5 tonnellate, quasi un terzo di meno - 2,6 - al fine, forse, di rendere più impressionante la sproporzione! (ovviamente, mai i due modelli di carro ebbero occasione di confrontarsi. In realtà, quasi tutti i carri L3 inviati inviati in Russia nel 1941, all'epoca degli avvenimenti di cui ci occupiamo erano stati eliminati, ed era stato rimpatriato il III Gruppo di cavalleria carrista San Giorgio che li aveva in dotazione; in seguito erano stati inviati alla III Divisione Celere un battaglione di carri L 6/40 - 6,8 t, con mitragliera da 20 - e 24 semoventi da 47 sul medesimo scafo. I primi non dettero buona prova, degli altri non si sa nemmeno se mai trovarono impiego in combattimenti veri e propri).

Sarebbe ora il caso, dopo sessant'anni, di rivedere attentamente queste vicende, per trarne anche gli opportuni ammaestramenti (benché simili fatti non potranno mai ripetersi, almeno in quelle situazioni). Magari, riesaminando lo svolgersi degli avvenimenti avvalendosi di tutti i documenti finalmente disponibili, nonché di quelle testimonianze rese "a caldo" e non mediate o peggio influenzate dall'età e dalle periodiche successive letture. Andrà soprattutto messo in rilievo come, indipendentemente dal tardivo intervento di Roma e dallo scadente armamento di alcune delle nostre divisioni, il comando germanico avesse disatteso in quella occasione i più noti principi dell'arte della guerra. Senza scomodare Jomini, Clausewitz, Foch, Fall e Fuller, vorremmo anticiparne brevemente le motivazioni. Riteniamo possa essere escluso quello della massa (che purtroppo, dato la conformazione dello spiegamento, lineare e sottile per tutti i 270 km tenuti dall'8a Armata, poteva essere messo in atto solo dal nemico a nostro danno), ricordiamo, in primis, quelli dell'iniziativa/offensiva e della manovra (si privilegiò invece una difesa rigida e statica, e il dispositivo era stato previsto in funzione appunto di questa scelta). Fu un grave errore non aver lasciato l'unica divisione motorizzata in riserva e non aver predisposto una riserva d'armata: rinuncia, quindi, ad ogni moltiplicatore di risorse. E anche il non aver previsto la rottura del contatto per un ordinato ripiegamento, visto che non esisteva schieramento in profondità.

Si tenga presente che fino ad allora sembrava che le forze contrapposte fossero equivalenti e che la superiorità numerica dei sovietici potesse essere bilanciata con la qualità e la fiducia in sé stessi propria delle armate germaniche. Altrettanto nefasta si dimostrò l'unitarietà di comando (sia perché questo veniva esercitato da chi non era in grado di valutare sul posto l'evolversi della situazione e quindi non poteva emanare ordini tempestivi, sia per la complessità della catena di comando determinata dalle unità multinazionali presenti nello schieramento). Fu inoltre trascurato il principio dell'economia delle forze: ovvero impiegare solo ciò che è indispensabile al raggiungimento dello scopo (in sostanza, presidiare la riva del Don) e, nella fattispecie, il mancato accorciamento della linea, mediante il quale, invece, si poteva creare una piccola riserva. La mancanza dell'elemento sorpresa era un punto a nostro favore: il 21 settembre 1942, alle 20, il generale Gariboldi aveva avvertito tutti comandanti dei corpi d'armata in sottordine: "L'apparente calma del nemico non illuda nessuno. Alt. est probabile prossima ripresa grossa puntata a largo obiettivo. Alt. Tutti siano preparati con le predisposizioni più opportune dei mezzi a disposizione e di quelli eventualmente e progressivamente assegnati. Alt. Sia data comunicazione di quanto sopra ai comandanti delle dipendenti divisioni. Alt.".

Questo dimostra che c'era tempo per prendere tutti i provvedimenti necessari. Perfino dopo l'inizio dell'offensiva, vi sarebbe stata possibilità, da parte del C.A. alpino, che era fronteggiato da una sola divisione sovietica, di sferrare un attacco diversivo che avrebbe almeno avuto l'effetto di disorientare il nemico. Per ciò che attiene alla sicurezza o alla protezione, mancò infine un'efficace cooperazione aerea (ricognizione e appoggio tattico), specialmente durante la ritirata. Si ricordi la teoria di Clausewitz sulla forza decrescente dell'offensiva, di cui non si tenne alcun conto. Del morale dei nostri, fattore anch'esso tanto caro a Clausewitz, si è già detto: resterebbe da soffermarsi sul problema della disciplina, fattore che - allora come oggi - è il presupposto dell'efficienza di qualsiasi forza armata. Ma a questo riguardo, lasciamo la parola al generale Antonio Ricchezza il quale, nelle considerazioni conclusive stilate al termine di una sua opera (Storia illustrata di tutta la campagna di Russia, Milano, Longanesi, 1972, Vol. III, p.128), si è espresso al riguardo senza mezzi termini: "In Russia occorreva, fin dal primo momento, reagire [allo sfaldamento dei reparti] anche con la fucilazione sul posto degli elementi che abbandonavano le armi".