Il processo D'Onofrio, tredicesima parte. Premetto un aspetto molto importante che ha sempre contraddistinto questa pagina: a volte si toccano argomenti scottanti ed ancora oggi delicati; quello che qui tratterò è forse uno dei più significativi da questo punto di vista. Ma detto questo sottolineo che quanto andrò a riportare NON ha alcun fine politico o di parte, ma esclusivamente storico. Sono fatti relativi alla Campagna di Russia ed alle sue conseguenze e come tali vengono riportati. Qualsiasi commento inopportuno da una parte e dall'altra verrà immediatamente cancellato. Chiedo a chi segue la pagina di esporre la propria idea con educazione e rispetto verso chi magari espone pensieri opposti: la storia e non solo la storia ha già condannato chi mandò quei sfortunati ragazzi in Russia e chi contribuì a tenerli più del dovuto.
LA VENTIDUESIMA UDIENZA.
9 luglio 1949. - L'avv. Paone non ha mantenuto la promessa. Aveva detto che per terminare la propria arringa aveva bisogno ancora di un paio di ore e invece la voce tonante del patrono del D'Onofrio è risuonata nell’aula per altre quattro ore, cioè tutta l'udienza.
L'oratore ha esordito rievocando i fatti che seguirono la caduta del fascismo e si è soffermato ad illustrare la figura del querelante 'portatore di una idea politica per la quale aveva combattuto tutta la vita', D'Onofrio non era al servizio della Polizia di Stato sovietica ma soltanto al servizio della propria coscienza e gli imputati non sono riusciti a provare le loro accuse. Ergo è chiara la loro malvagità, come è chiaro il grave oltraggio da loro usato contro il sen. D’Onofrio. Qui si tratta di diffamazione generica e di diffamazione specifica e giacché il magg. Orloff è ancora vivo sarebbe stato facile poter accertare bene i fatti. Con tutto ciò la privata accusa ha pensato bene di non farlo venire come teste dalla Russia.
Mentre si scaglia contro i cinque reduci che siedono sul banco degli imputati, l'avvocato sventola una copia del numero unico incriminato e grida al dolo per le asserzioni contenute in quell'opuscolo. Preparatissimo si è dimostrato l'avv. Paone su tutta la storia della campagna napoleonica in Russia e di quella famosa ritirata. Egli ne ha fatto la pietra di paragone indispensabile alla dimostrazione del fatto che, se tante migliaia di morti si ebbero in Russia da parte italiana, ciò non va imputato alle autorità sovietiche.
Avv. Paone: 'Il precedente napoleonico non aveva insegnato nulla al dittatore teutonico e al suo alleato fascista? La morte degli 80 mila soldati dell’ARMIR grava sulla coscienza di quelli che non si preoccuparono di inviare in terra sovietica dei soldati italiani ineducati e analfabeti, i quali giunsero al punto di definire con disprezzo i russi degli indigeni, come se fossero dei negri africani. Questo è troppo!'.
L’avv. Paone ha finalmente cominciato a parlare dell’attività di D'Onofrio nei campi di concentramento.
Avv. Paone: 'Si è parlato di verbalizzazione degli interrogatori cui venivano sottoposti i prigionieri italiani. Ma quella non era altro che curiosità e quelli che gli imputati chiamavano verbali non erano che appunti per poter scrivere poi degli articoli sul settimanale 'L'Alba'. I russi sono detti 'tremendi scocciatori', sono più curiosi delle femmine ma, signori, era pura curiosità e non lunghi verbali di estenuanti interrogatori.
Nessuno ha poi saputo spiegare con esattezza che Elabuga fosse un campo di punizione, dove in seguito agli interrogatori di D'Onofrio, sarebbero stati mandati il cap. Magnani, il ten. Ioli ed altri ufficiali italiani. Né sono state provate le ragioni per cui quegli ufficiali furono inviati ad Elabuga. Nei campi di prigionia si godeva di tanta libertà che spesso si accendevano dispute fra fascisti e antifascisti. Ma che c’entra D'Onofrio nelle beghe fra prigionieri? E che colpa possono avere D'Onofrio o gli altri emigrati italiani se i Russi qualche volta punivano i prigionieri più turbolenti?'.
Avv. Paone: 'Comunque gli atti del processo dimostrano abbondantemente che i russi hanno rispettato i prigionieri più di quanto non li abbiano rispettati gli altri Paesi. Nei campi di concentramento inglesi e americani esistevano speciali recinti per i criminali fascisti 'perseguitati nel fisico e nel morale'. Avete mai sentito dire cose del genere dei campi di Russia?'.
L’avv. Paone ha chiesto scusa ai giudici per la lunghezza della arringa, ma si è giustificato dicendo che la perorazione 'non viene dal cervello ma dal cuore' ed ha concluso.
Avv. Paone: 'Noi siamo qui per chiedere la condanna dei libellisti, dei diffamatori. Il fango che essi hanno lanciato contro D'Onofrio non ha potuto e non potrà offuscare l'intangibile sua veste morale. Voi, imputati, avete voluto colpire D'Onofrio che era il capo della nostra lotta in questa Roma, in mezzo al popolo nostro. E pertanto io chiedo la vostra condanna'.
LA VENTITREESIMA UDIENZA.
11 luglio 1949. - Senza retorica, con oratoria stringata, con efficace dialettica il sostituto procuratore Dott. Manca, ha dimostrato, in tre ore, al Tribunale la infondatezza delle accuse di diffamazione mosse dal sen. Edoardo D'Onofrio agli imputati. Il P. M. ha tratto gli argomenti principali e maggiormente persuasivi della propria requisitoria, dalle disposizioni contenute nel Codice Penale Sovietico, dalle istruzioni dettate da un U.K.S. del Praesidium del Soviet Supremo, firmato dal Presidente Kalinin, pubblicato nel numero della 'Pravda' del 17 luglio 1942.
P.M.: 'Illustre signor Presidente e signori del Tribunale, le due parti: il sen. D'Onofrio e gli imputati, i testimoni d'accusa e di difesa non si sono mantenuti nei binari del processo ma hanno spesso sconfinato in altri campi che possono avere il loro interesse dal punto di vista storico, politico e militare, ma che ne hanno poco dal punto di vista della causa. L’esame che voi dovete fare è un esame, in definitiva, ristretto.
Le accuse che i reduci dalla Russia hanno rivolto a D'Onofrio prendono le mosse da uno scritto in cui si definisce quello che è oggi il senatore comunista: 'rinnegato ed aguzzino degli ottantamila prigionieri italiani'. D'Onofrio respinge tale accusa affermando fra l’altro che non di ottantamila prigionieri si doveva parlare ma solo di quindicimila. Questa affermazione, però, gli viene contestata non solo dagli imputati, ma dagli stessi suoi testimoni e dalla raccolta di quel settimanale 'L’Alba' che si pubblicava nei campi di concentramento. Infatti si è potuto stabilire, in tal modo, che i prigionieri italiani ammontavano ad una cifra oscillante fra gli ottanta e gli ottantatremila. Ed è lo stesso Togliatti che conforta tale affermazione quando asserisce - come si può leggere nei discorsi da lui tenuti ai microfoni di Radio Mosca dal 1941 al 1944 - che nel solo mese di gennaio del 1943 quarantamila furono i soldati dell'ARMIR che caddero in mano russa.
Ad essi si devono aggiungere quelli fatti prigionieri in precedenza, per cui in totale risulta appunto una cifra che si aggira sugli ottantamila uomini'.
P.M.: 'Occorre ora vedere se gli articoli pubblicati nel numero unico 'Russia' costituiscono reato di diffamazione. L’altro corpo del dilemma è: in caso affermativo, ha D’Onofrio commesso i fatti addebitatigli? Tutti i fatti che costituiscono materia delle accuse mosse dagli imputati debbono essere provati perché se un solo dubbio rimanesse, questo andrebbe a tutto favore del querelante. Comunque, per quanto riguarda il primo dei due quesiti, non c'è dubbio nella risposta: gli articoli incriminati sono diffamatori, non solo, ma tali da imprimere 'un marchio di fuoco e di sangue' su qualunque cittadino li abbia commessi.
Non voglio indagare sulle ragioni del 'tragico calvario' dei nostri prigionieri perché ciò esorbita dai limiti della causa. A noi interessa sapere che essi furono oppressi da un complesso tanto grave di circostanze che per molto tempo la loro stessa costituzione fisica ebbe a soffrirne. Tanto che lo stesso Stalin, preoccupato dall'indice di mortalità raggiunto nei campi di concentramento dove erano raccolti i prigionieri italiani, sarebbe intervenuto perché fosse usato un trattamento migliore agli internati. Su questo argomento a me sembra che tutti si siano trovati d’accordo e lo stesso querelante ha ammesso che i morti raggiungevano delle cifre enormi.
Proprio in questo periodo D'Onofrio compare per la prima volta nei campi di concentramento. Ed eccoci alle accuse. Il dott. Manca ricorda che il querelante ha recisamente negato di aver mai usato violenze o pronunciato o messo in atto minacce che avrebbero avuto un effetto assolutamente contrario a quello che la sua propaganda si riproponeva. Ma attraverso innumerevoli testimonianze, che sono venute a confermare le accuse degli imputati, attraverso la descrizione di circostanze specifiche, che lo stesso D'Onofrio non ha potuto smentire, attraverso l'indicazione di nomi, di luoghi, di date, di episodi, attraverso le documentazioni presentate, è stato raggiunto un complesso di elementi che non si può esitare a definire 'poderoso'.
P.M.: 'Ora c’è da chiedersi: dicono la verità i reduci dalla Russia oppure ci troviamo di fronte ad una montatura organizzata da un regista pieno di fervida immaginazione, di fronte ad un complotto spettacoloso? Questo dubbio voi lo dovete sciogliere, come attraverso un travaglio spirituale io l'ho già sciolto. Io credo a D'Onofrio quando afferma di aver comprato in Russia, al mercato nero, medicine per un prigioniero malato. Ma non posso credergli quando afferma che i gruppi antifascisti avevano un carattere democratico e che le cariche erano elettive. Non gli credo perché le sue affermazioni sono smentite dallo stesso settimanale 'L’Alba' nel quale sta la prova che i gruppi antifascisti non erano affatto democratici, nel senso da noi dato alla parola. Essi facevano soltanto 'del marxismo e del comunismo'. Quindi non è vera neppure l'affermazione che 'L'Alba' fosse 'una palestra aperta a tutte le idee'.
Vi abbondavano invece scritti di intonazione antidemocristiana, contro il Vaticano e contro il Pontefice. Non troviamo in tutta la collezione del settimanale un articolo di ispirazione liberale, mentre al contrario vi si legge uno scritto di Togliatti dal titolo 'Le merci avariate di Benedetto Croce'.
P.M.: 'Come era possibile allora che ufficiali, uomini di una certa cultura, con un loro patrimonio di idee, potessero liberamente esporre i loro convincimenti? C'è invece da immaginare il dramma psicologico di questi prigionieri i quali dovevano guardarsi intorno, nei campi di concentramento, per evitare che qualcuno andasse a riferire i discorsi che facevano agli istruttori politici. Un fatto è certo: con l’arrivo dei commissari politici finì la concordia e l’affratellamento, cominciarono le delazioni.
Ma la loro opera non fu soddisfacente e non raggiunse gli scopi se, come avvenne nel campo di Oranki, il commissario Fiammenghi, riuscì a convincere non più di venticinque ufficiali a firmare il famoso appello con cui si incitava il popolo italiano a non proseguire la guerra. Ecco allora arrivare D'Onofrio, il quale poté infrangere la resistenza dei prigionieri soltanto ricorrendo alle minacce. E a farne fede sta la tragica odissea del cap. Magnani di cui troppi testi hanno parlato, e tutti negli stessi termini, per poter pensare che sia da mettere in dubbio'.
P.M.: 'Che le minacce vi siano state s’è potuto ormai stabilire attraverso tutte le testimonianze. D'Onofrio oppone che egli si limitò solo ad avvertire gli interrogati che con le loro idee si sarebbero trovati male al rientro in Patria. Ma la sua obbiezione è giustificata solo nel caso che il prigioniero avesse espresso le proprie idee. Che cosa risponde D'Onofrio quando gli si fa osservare che il ten. Sandali si sentì rivolgere delle minacce perché non aveva mai risposto alle domande che gli venivano fatte? E che cosa dice quando gli si contesta che il ten. Santoro si sentì gridare nelle orecchie: 'la differenza che c è tra lei e i suoi bersaglieri è che lei è un criminale di guerra vivo mentre i suoi bersaglieri sono dei criminali di guerra morti'? La risposta potrebbe essere una sola e cioè che sembra compiacersi, il sen. D'Onofrio, di queste affermazioni se in polemica con il 'Risorgimento Liberale' definì i bersaglieri 'fascisti, ladri e rapinatori'.
Codice sovietico alla mano, il P. M. ha poi confutato l'affermazione fatta da D'Onofrio che in Russia esiste libertà di coscienza (art. 124 del codice stesso) dimenticando però di aggiungere, in materia di tolleranza religiosa, che l'art. 126 del codice penale sovietico punisce con lavori correttivi fino a tre mesi e 300 rubli di multa chiunque celebri riti religiosi in pubblico. Quindi se in qualche campo fa celebrata, qualche volta la messa fu in deroga alle disposizioni del codice sovietico.
P.M.: 'D'Onofrio ha sostenuto ancora che gli sarebbe stato impossibile minacciare l'invio in Siberia perché il piano quinquennale sovietico è riuscito a trasformare quella desolata regione in una specie di Eden, però ha tralasciato di dire che secondo l'art. 58 del codice penale sovietico chiunque favorisca l’espatrio clandestino di un proprio congiunto viene deportato ancora oggi per cinque anni nelle 'lontane isolate regioni della Siberia'. Dal che è facile dedurre che se la Siberia è terra di deportazione non può essere una sorta di luogo di villeggiatura.
Quale era la posizione in cui si trovava D'Onofrio in Russia? Il dott. Manca ha profondamente esaminato questo punto arrivando alla conclusione che era logico e, in un certo senso, necessario che il querelante agisse come agì'.
P.M.: 'Infatti studiando la causa feci delle ricerche sulle attribuzioni dei commissari politici e scoprii nel numero del 17 luglio 1941 della 'Pravda' un Ukase firmato da Kalinin con il quale venivano precisate le mansioni dei commissari politici, qualificati come 'diretti rappresentanti del partito e del governo', obbligati a denunciare 'comandanti o lavoratori politici che si fossero resi indegni del loro posto'. La disposizione emanata dal consiglio del Soviet Supremo diceva poi che i commissari politici coordinavano la loro attività con quella della polizia, e che i commissari politici erano funzionari russi. D'Onofrio, dunque, come commissario politico era funzionario sovietico e di conseguenza non avrebbe potuto comportarsi in modo diverso da come si è comportato a meno di incorrere nelle sanzioni penali previste.
Egli inoltre per la levatura intellettuale, aveva delle funzioni ispettive ed era considerato come un capo. Gli italiani non si rendevano conto di trovarsi di fronte non ad un loro compatriota ma ad un 'cittadino sovietico'.
P.M.: 'E cittadino sovietico era da considerare il querelante anche per l’art. 8 della legge italiana sulla cittadinanza per cui colui che, cittadino italiano, abbia ottenuto e mantenga un ufficio presso uno Stato estero, perde la cittadinanza'.
Avv. Paone: 'E quelli che parlavano dai microfoni delle radio estere ed ora sono al governo?'.
P.M.: 'Io sto facendo il processo dal punto di vista giuridico e non politico!'.
Avv. Paone: 'Si ricordi che lei è un Procuratore della Repubblica!'.
P.M.: 'Non raccolgo questo insulto. Io faccio, qui, il mio dovere. Quanto alle parole 'rinnegato e aguzzino' esse, che potrebbero far pensare ad una ingiuria, non rappresentano altro che una forma di ritorsione legittima dopo che il D'Onofrio, l’8 aprile del 1948, aveva scritto su 'Risorgimento Liberale' che i soldati italiani erano dei 'fascisti entrati in terra di Russia come dei ladri e dei rapinatori'.
P.M.: 'In sostanza le accuse che i reduci hanno mosso contro D'Onofrio non riguardano la sua attività di antifascista in genere, ma specificamente il suo comportamento nei riguardi dei prigionieri, comportamento che 'riveste gli estremi di reato'. Noi non facciamo il processo all'antifascismo. Noi non neghiamo che tra gli antifascisti vi siano delle figure che sono dei simboli come Giuseppe Donati, i fratelli Rosselli, Giovanni Amendola, morti in terra francese per una idea. Antifascisti siedono onoratamente sui banchi del parlamento e al governo'.
P.M.: 'Noi, voi signori giudici, dobbiamo giudicare solo una cosa: se sono veri i fatti attribuiti a D'Onofrio. E, giacché mi si costringe a dirlo dichiaro: i fatti attribuiti al sen. D'Onofrio sono contrari alla morale e alla politica di qualunque tempo e di qualunque partito. Poiché essi sono stati pienamente provati, in perfetta coscienza e con piena convinzione, io vi chiedo l’assoluzione degli imputati per aver raggiunto la prova dei fatti motivo della querela'.
Dal 2011 camminiamo in Russia e ci regaliamo emozioni
Trekking ed escursioni in Russia sui campi di battaglia della Seconda Guerra Mondiale
Danilo Dolcini - Phone 349.6472823 - Email danilo.dolcini@gmail.com - FB Un italiano in Russia
venerdì 6 agosto 2021
Immagini, CC.NN. all'attacco
Un altro piccolo pezzo della nostra storia arriva a me... fotografia originale dell'Istituto Luce: 31/10/42/XXI Fronte orientale: reparti di CC.NN. dell'Armir all'attacco di un caposaldo nemico nella zona del Don.
mercoledì 4 agosto 2021
Il viaggio del 2011, steppa a Novo Georgiewskij
Immagini del mio primo viaggio "esplorativo" effettuato nel 2011... la steppa fra Novo Georgiewskij e Krawzowka.
Seconda lettera di Hitler a Mussolini
Sempre a scopo divulgativo e storico riporto la seconda lettera scritta da Hitler a Mussolini a pochi giorni dall'inizio dell'Operazione Barbarossa.
LE PRIME IMPRESSIONI DELLA GUERRA CONTRO LA RUSSIA - Seconda lettera di Hitler a Mussolini.
Quartier Generale del Fuhrer, 30 giugno 1941.
Duce, consentitemi anzitutto di ringraziarVi per la Vostra ultima lettera. Mi allegro infinitamente che i nostri due punti di vista nelle grandi questioni concernenti il destino dei nostri popoli si identifichino così perfettamente. Credo che la settimana trascorsa, considerata sotto l'aspetto politico, abbia confermato in maniera clamorosa le nostre vedute. E' accaduto ciò che io stesso nel primo momento non osavo affatto sperare. L'Europa è stata strappata in gran parte ad un disinteresse veramente letargico. Molti Paesi si vedono obbligati a prendere ormai in questa nostra lotta contro il bolscevismo una posizione che sarà il principio di una più larga comprensione della nostra comune politica che in fondo è veramente europea.
La lotta, Duce. che ora si svolge da otto giorni, mi dà la possibilità di comunicarVi già ora, in poche linee, un quadro generale ed informarVi delle esperienze fatte. La più importante constatazione che io ed i miei generali abbiamo fatto è stata una cosa che veramente ci ha sorpresi nonostante tutte le previsioni. Duce, se questa lotta non fosse avvenuta ora, ma anche soltanto pochi mesi o un anno più tardi, noi avremmo - per quanto possa essere terribile questo pensiero - perduta la guerra.
L'Esercito russo stava approntando uno schieramento di forze con mezzi che andavano molto al di là di quanto noi sapevamo o anche solo ritenevamo possibile. Sono otto giorni che una brigata corazzata dopo l'altra viene attaccata, battuta o distrutta, e nonostante ciò non si è osservata alcuna diminuzione del loro numero e della loro aggressività. E' soltanto dal 27 giugno che noi abbiamo la sensazione che sopravvenga un alleggerimento, che l'avversario si abbatta lentamente e che appaiano localmente manifestazioni di dissolvimento. Come gli inglesi con il carro armato di fanteria Mark II, i russi han tirato fuori una sorpresa di cui noi purtroppo non avevamo alcuna idea. Un gigantesco carro armato del peso di circa 52 tonnellate, con una corazzatura di 75 mm., con un cannone da 7,6 cm. e tre mitragliatrici. Senza il nostro nuovo cannone da 5 cm., il cannone anti-aereo da 8,8 e le nuove granate anticarro della nostra artiglieria da campo noi saremmo impotenti di fronte a questi mezzi corazzati che attualmente sono i più forti.
Il "fanatismo" del soldato russo.
I russi avevano posto nella grande sacca di Bjalistock come in quella di Leopoli due enormi armate offensive. Numerose formazioni motorizzate e corazzate erano assegnate alle divisioni di fanteria, che a loro volta posseggono quasi tutte propri reparti corazzati. Entrambe queste armate sono state attaccate di fianco da noi dopo la rottura di dispositivi di difesa straordinariamente profondi che in certi luoghi sono di poco di inferiori alla linea Sigfrido. I combattimenti che ora hanno luogo qui da otto giorni appartengono ai più gravi che le truppe tedesche hanno dovuto sostenere sinora.
II russo combatte con un fanatismo veramente stolto; nei primi giorni non si avevano quasi prigionieri. Era una lotta di vita e di morte, nella quale molti ufficiali e Commissari russi si sono sottratti alla minaccia della prigionia con il suicidio. Le guarnigioni di fortificazioni ormai perdute si sono fatte saltare in aria da sole prima della resa. I contrattacchi russi non si sono effettuati per un qualsiasi elevato pensiero ma con la brutalità primitiva di un animale che si vede rinchiuso e si slancia con feroce rabbia contro le pareti della sua gabbia. Questo soldato, di per sè già molto duro, è stato inoltre follemente eccitato. I suoi Commissari gli raccontano che dopo l'imprigionamento egli sarà torturato e poi anche ucciso. Perciò egli lotta fino alle sue ultime possibilità e preferisce nel peggiore dei casi la propria morte alle torture annunziategli. Per la prima volta negli ultimi giorni di lotta, questo morale comincia ad oscillare, ed il numero dei prigionieri e dei disertori aumenta ormai di ora in ora.
Quasi tutti i contrattacchi russi si sono effettuati solamente con forze corazzate. Singole divisioni che spesso avevano già colpito cento e duecento mezzi corazzati in un solo giorno vengono il mattino seguente attaccate da nuovi mezzi corazzati. Credo, Duce, che incombeva sull'Europa un pericolo della cui misura purtroppo nessuno aveva una giusta idea.
L'arma aerea russa è cattiva. Tanto è fanatico il soldato russo quando combatte in terra, altrettanto è stato sempre maldestro come marinaio ed ora sembra lo sia anche come aviatore. Già nei primi sette giorni gli aviatori tedeschi hanno fatto vuoti spaventosi fra le forze aeree russe. Qui la supremazia non è soltanto chiara, ma addirittura assoluta. Ormai solo saltuariamente singoli apparecchi russi tentano di mostrarsi al fronte. In generale ogni volo del genere è anche l'ultimo.
Otto giorni di campagna.
La fanteria russa viene gettata nel combattimento in grandi masse, senza guardare al sacrificio. Mitragliatrici, lanciagranate, cannoni di fanteria e granate a mano causano loro perdite terribili. Nondimeno gli attacchi si rinnovano a brevissimi intervalli. II Comando russo è in genere cattivo. Una eccezione ha fatto, per lo meno nei primi giorni, l'Armata russa del Sud. Il Comando delle singole Divisioni o dei reggimenti è privo di qualsiasi attitudine militare. Il grado di cultura dei cosiddetti ufficiali non corrisponde in alcun modo alle esigenze che si richiedono nelle Nazioni europee. Tuttavia non è da nascondere che con l'andare degli anni anche in ciò vi sarebbe stato probabilmente un miglioramento. Senonché, data la brutalità di tale sistema di guerra, non è tanto determinante il valore del singolo quando la pericolosità dell'istrumento in se stesso. Tale pericolo sta nel numero stragrande di formazioni, nell'enorme sviluppo delle armi come pure nella completa indifferenza con cui il Comando sacrifica uomini e materiale.
Nel riferirVi, Duce, del tutto brevemente i risultati della lotta, prendo naturalmente in considerazione, per il momento, soltanto i successi visibili mentre per ora Ci resta ancora precluso l'esame della intima costituzione delle già battute formazioni russe. Ecco quanto risulta dopo otto giorni di campagna: A nord delle Paludi del Pripet - le quali dividono il teatro delle operazioni nella metà settentrionale del Baltico e della Russia Bianca ed in quella meridionale della Galizia e della Bessarabia - le Armate nemiche ammassate vicino alla frontiera sono state già completamente battute. Nella sacca formatasi dal rapido avanzare delle formazioni corazzate a cuneo nel settore mediano fra Bialystock e Minsk si trovano circondate due armate mentre forze celeri si sono già spinte oltre la Beresina.
Nel settore nord il nemico cerca, dopo aver sofferto gravi perdite fra la frontiera e la Dvina, di salvare i resti del proprio esercito settentrionale a mezzo di una ritirata verso nord-est. Dunaburg e Riga sono in mano delle forze corazzate tedesche. Nella Finlandia meridionale si trova il Feldmaresciallo Mannerheim - al quale sto inviando attraverso la Svezia anche una divisione tedesca - pronto fin dal 2 luglio all'assalto dalle due parti del Lago di Ladoga. Nella Finlandia mediana e settentrionale le forze finno-tedesche hanno il compito di tagliar fuori per un assalto verso est la città di Murmansk, che ha importanza come punto di riferimento per una eventuale azione di soccorso da parte inglese o americana.
Al sud delle Paludi del Pripet il gruppo corazzato dell'Armata del Sud avanza nella direzione generale di Shitomir mentre l'avversario da entrambe le parti di Leopoli cerca di sottrarsi, con una ritirata verso l'est, ad una minaccia di accerchiamento. La mira dei sovietici potrebbe essere di raggiungere la loro vecchia linea di fortificazioni e di stabilirvisi per la resistenza. Io progetto, quindi - per alleggerire l'urto frontale dall'ovest - di far attaccare nei primi giorni di luglio l'XI armata avanzatasi in Romania, unitamente alle forze romene che le sono assegnate sul Pruth a tergo della linea di fortificazione russa. Sul fronte dei Carpazi l'Ungheria si prepara ad avanzare con un corpo celere contro Kolomea e Stanislavow. I primi reparti hanno già attraversato la frontiera.
Le formazioni aeree nemiche hanno subito tali perdite che la padronanza dell'aria è completamente conquistata. L'Arma aerea tedesca può quindi essere sottratta in massa ed essere impiegata per l'appoggio dell'esercito. Io accetto la Vostra generosa offerta, Duce, di mandare un corpo italiano ed aerei da caccia italiani sul teatro bellico orientale. Che le nostre armate alleate marcino fianco a fianco proprio contro il nemico mondiale bolscevico mi sembra un simbolo della lotta di liberazione condotta da Voi, Duce, e da me.
Un invito al fronte.
Come apprendo circa le intese tra i nostri rispettivi servizi competenti, i trasporti dovranno effettuarsi sulla linea Brennero - Innsbruck - Salisburg - Linz - Vienna - Bratislava - Budapest e sboccare nell'Ungheria orientale. Bisognerebbe quindi comunicare con un anticipo di almeno tre giorni l'inizio dei movimenti di trasporto a causa dei necessari preparativi in Germania. Dove poi avrà luogo l'impiego - prevedibilmente nell'ambito dell'XI Armata tedesca - lo dirà lo sviluppo della situazione. Mi permetterò, Duce, di comunicarvi tempestivamente più precise proposte a tale scopo.
Di speciale importanza mi sembra quanto segue: le vie di comunicazione della Romania sono attualmente molto gravate dall'avanzata romena ed ungherese. Ad entrambi questi Stati ho fatto sapere che ciò nonostante debbono essere ulteriormente e regolarmente proseguite le forniture di oli minerali romeni di vitale importanza per le Potenze dell'Asse. I dirigenti dei servizi di trasporto hanno già tenuto calcolo di questo punto di vista nella comune preparazione dei trasporti delle truppe italiane. Anche durante la campagna orientale la lotto contro l'Inghilterra verrà proseguita con sufficiente impiego di forze. La Marina da guerra germanica non sarà quasi impegnata contro la Russia Sovietica nel Mar Baltico da noi sbarrato. Però l'assedio dell'Inghilterra deve essere soprattutto rinforzato, anche durante le operazioni orientali, un adeguato impiego dell'Arma aerea.
Ed ora, Duce, lasciatemi esprimere alla fine ancora il pensiero. Ho riflettuto se non sarebbe forse psicologicamente giusto che noi due proprio nel corso di questa lotta ci potessimo incontrare in qualche luogo al fronte orientale. Il luogo più appropriato sarebbe naturalmente il mio stesso Quartiere oppure un'altra delle località all'uopo previste poiché si trovano colà le condizioni necessarie per gli impianti dai quali io - almeno per un periodo di tempo piuttosto lungo - non potrei allontanarmi che con molta difficoltà. Nei riguardi del sistema delle comunicazioni e delle notizie io sono purtroppo uno schiavo della tecnica. Ma io credo che se ciò potrà una volta realizzarsi - anche prescindendo del tutto dallo scambio personale di idee - gli effetti psicologici per entrambi i nostri popoli sarebbero certamente utili.
Credo inoltre che ciò sarebbe adeguatamente apprezzato anche dal resto del mondo. Chiudo questa lunga lettera, Duce, salutandoVi con vecchia amicizia e nel più cordiale.
Adolf Hitler
LE PRIME IMPRESSIONI DELLA GUERRA CONTRO LA RUSSIA - Seconda lettera di Hitler a Mussolini.
Quartier Generale del Fuhrer, 30 giugno 1941.
Duce, consentitemi anzitutto di ringraziarVi per la Vostra ultima lettera. Mi allegro infinitamente che i nostri due punti di vista nelle grandi questioni concernenti il destino dei nostri popoli si identifichino così perfettamente. Credo che la settimana trascorsa, considerata sotto l'aspetto politico, abbia confermato in maniera clamorosa le nostre vedute. E' accaduto ciò che io stesso nel primo momento non osavo affatto sperare. L'Europa è stata strappata in gran parte ad un disinteresse veramente letargico. Molti Paesi si vedono obbligati a prendere ormai in questa nostra lotta contro il bolscevismo una posizione che sarà il principio di una più larga comprensione della nostra comune politica che in fondo è veramente europea.
La lotta, Duce. che ora si svolge da otto giorni, mi dà la possibilità di comunicarVi già ora, in poche linee, un quadro generale ed informarVi delle esperienze fatte. La più importante constatazione che io ed i miei generali abbiamo fatto è stata una cosa che veramente ci ha sorpresi nonostante tutte le previsioni. Duce, se questa lotta non fosse avvenuta ora, ma anche soltanto pochi mesi o un anno più tardi, noi avremmo - per quanto possa essere terribile questo pensiero - perduta la guerra.
L'Esercito russo stava approntando uno schieramento di forze con mezzi che andavano molto al di là di quanto noi sapevamo o anche solo ritenevamo possibile. Sono otto giorni che una brigata corazzata dopo l'altra viene attaccata, battuta o distrutta, e nonostante ciò non si è osservata alcuna diminuzione del loro numero e della loro aggressività. E' soltanto dal 27 giugno che noi abbiamo la sensazione che sopravvenga un alleggerimento, che l'avversario si abbatta lentamente e che appaiano localmente manifestazioni di dissolvimento. Come gli inglesi con il carro armato di fanteria Mark II, i russi han tirato fuori una sorpresa di cui noi purtroppo non avevamo alcuna idea. Un gigantesco carro armato del peso di circa 52 tonnellate, con una corazzatura di 75 mm., con un cannone da 7,6 cm. e tre mitragliatrici. Senza il nostro nuovo cannone da 5 cm., il cannone anti-aereo da 8,8 e le nuove granate anticarro della nostra artiglieria da campo noi saremmo impotenti di fronte a questi mezzi corazzati che attualmente sono i più forti.
Il "fanatismo" del soldato russo.
I russi avevano posto nella grande sacca di Bjalistock come in quella di Leopoli due enormi armate offensive. Numerose formazioni motorizzate e corazzate erano assegnate alle divisioni di fanteria, che a loro volta posseggono quasi tutte propri reparti corazzati. Entrambe queste armate sono state attaccate di fianco da noi dopo la rottura di dispositivi di difesa straordinariamente profondi che in certi luoghi sono di poco di inferiori alla linea Sigfrido. I combattimenti che ora hanno luogo qui da otto giorni appartengono ai più gravi che le truppe tedesche hanno dovuto sostenere sinora.
II russo combatte con un fanatismo veramente stolto; nei primi giorni non si avevano quasi prigionieri. Era una lotta di vita e di morte, nella quale molti ufficiali e Commissari russi si sono sottratti alla minaccia della prigionia con il suicidio. Le guarnigioni di fortificazioni ormai perdute si sono fatte saltare in aria da sole prima della resa. I contrattacchi russi non si sono effettuati per un qualsiasi elevato pensiero ma con la brutalità primitiva di un animale che si vede rinchiuso e si slancia con feroce rabbia contro le pareti della sua gabbia. Questo soldato, di per sè già molto duro, è stato inoltre follemente eccitato. I suoi Commissari gli raccontano che dopo l'imprigionamento egli sarà torturato e poi anche ucciso. Perciò egli lotta fino alle sue ultime possibilità e preferisce nel peggiore dei casi la propria morte alle torture annunziategli. Per la prima volta negli ultimi giorni di lotta, questo morale comincia ad oscillare, ed il numero dei prigionieri e dei disertori aumenta ormai di ora in ora.
Quasi tutti i contrattacchi russi si sono effettuati solamente con forze corazzate. Singole divisioni che spesso avevano già colpito cento e duecento mezzi corazzati in un solo giorno vengono il mattino seguente attaccate da nuovi mezzi corazzati. Credo, Duce, che incombeva sull'Europa un pericolo della cui misura purtroppo nessuno aveva una giusta idea.
L'arma aerea russa è cattiva. Tanto è fanatico il soldato russo quando combatte in terra, altrettanto è stato sempre maldestro come marinaio ed ora sembra lo sia anche come aviatore. Già nei primi sette giorni gli aviatori tedeschi hanno fatto vuoti spaventosi fra le forze aeree russe. Qui la supremazia non è soltanto chiara, ma addirittura assoluta. Ormai solo saltuariamente singoli apparecchi russi tentano di mostrarsi al fronte. In generale ogni volo del genere è anche l'ultimo.
Otto giorni di campagna.
La fanteria russa viene gettata nel combattimento in grandi masse, senza guardare al sacrificio. Mitragliatrici, lanciagranate, cannoni di fanteria e granate a mano causano loro perdite terribili. Nondimeno gli attacchi si rinnovano a brevissimi intervalli. II Comando russo è in genere cattivo. Una eccezione ha fatto, per lo meno nei primi giorni, l'Armata russa del Sud. Il Comando delle singole Divisioni o dei reggimenti è privo di qualsiasi attitudine militare. Il grado di cultura dei cosiddetti ufficiali non corrisponde in alcun modo alle esigenze che si richiedono nelle Nazioni europee. Tuttavia non è da nascondere che con l'andare degli anni anche in ciò vi sarebbe stato probabilmente un miglioramento. Senonché, data la brutalità di tale sistema di guerra, non è tanto determinante il valore del singolo quando la pericolosità dell'istrumento in se stesso. Tale pericolo sta nel numero stragrande di formazioni, nell'enorme sviluppo delle armi come pure nella completa indifferenza con cui il Comando sacrifica uomini e materiale.
Nel riferirVi, Duce, del tutto brevemente i risultati della lotta, prendo naturalmente in considerazione, per il momento, soltanto i successi visibili mentre per ora Ci resta ancora precluso l'esame della intima costituzione delle già battute formazioni russe. Ecco quanto risulta dopo otto giorni di campagna: A nord delle Paludi del Pripet - le quali dividono il teatro delle operazioni nella metà settentrionale del Baltico e della Russia Bianca ed in quella meridionale della Galizia e della Bessarabia - le Armate nemiche ammassate vicino alla frontiera sono state già completamente battute. Nella sacca formatasi dal rapido avanzare delle formazioni corazzate a cuneo nel settore mediano fra Bialystock e Minsk si trovano circondate due armate mentre forze celeri si sono già spinte oltre la Beresina.
Nel settore nord il nemico cerca, dopo aver sofferto gravi perdite fra la frontiera e la Dvina, di salvare i resti del proprio esercito settentrionale a mezzo di una ritirata verso nord-est. Dunaburg e Riga sono in mano delle forze corazzate tedesche. Nella Finlandia meridionale si trova il Feldmaresciallo Mannerheim - al quale sto inviando attraverso la Svezia anche una divisione tedesca - pronto fin dal 2 luglio all'assalto dalle due parti del Lago di Ladoga. Nella Finlandia mediana e settentrionale le forze finno-tedesche hanno il compito di tagliar fuori per un assalto verso est la città di Murmansk, che ha importanza come punto di riferimento per una eventuale azione di soccorso da parte inglese o americana.
Al sud delle Paludi del Pripet il gruppo corazzato dell'Armata del Sud avanza nella direzione generale di Shitomir mentre l'avversario da entrambe le parti di Leopoli cerca di sottrarsi, con una ritirata verso l'est, ad una minaccia di accerchiamento. La mira dei sovietici potrebbe essere di raggiungere la loro vecchia linea di fortificazioni e di stabilirvisi per la resistenza. Io progetto, quindi - per alleggerire l'urto frontale dall'ovest - di far attaccare nei primi giorni di luglio l'XI armata avanzatasi in Romania, unitamente alle forze romene che le sono assegnate sul Pruth a tergo della linea di fortificazione russa. Sul fronte dei Carpazi l'Ungheria si prepara ad avanzare con un corpo celere contro Kolomea e Stanislavow. I primi reparti hanno già attraversato la frontiera.
Le formazioni aeree nemiche hanno subito tali perdite che la padronanza dell'aria è completamente conquistata. L'Arma aerea tedesca può quindi essere sottratta in massa ed essere impiegata per l'appoggio dell'esercito. Io accetto la Vostra generosa offerta, Duce, di mandare un corpo italiano ed aerei da caccia italiani sul teatro bellico orientale. Che le nostre armate alleate marcino fianco a fianco proprio contro il nemico mondiale bolscevico mi sembra un simbolo della lotta di liberazione condotta da Voi, Duce, e da me.
Un invito al fronte.
Come apprendo circa le intese tra i nostri rispettivi servizi competenti, i trasporti dovranno effettuarsi sulla linea Brennero - Innsbruck - Salisburg - Linz - Vienna - Bratislava - Budapest e sboccare nell'Ungheria orientale. Bisognerebbe quindi comunicare con un anticipo di almeno tre giorni l'inizio dei movimenti di trasporto a causa dei necessari preparativi in Germania. Dove poi avrà luogo l'impiego - prevedibilmente nell'ambito dell'XI Armata tedesca - lo dirà lo sviluppo della situazione. Mi permetterò, Duce, di comunicarvi tempestivamente più precise proposte a tale scopo.
Di speciale importanza mi sembra quanto segue: le vie di comunicazione della Romania sono attualmente molto gravate dall'avanzata romena ed ungherese. Ad entrambi questi Stati ho fatto sapere che ciò nonostante debbono essere ulteriormente e regolarmente proseguite le forniture di oli minerali romeni di vitale importanza per le Potenze dell'Asse. I dirigenti dei servizi di trasporto hanno già tenuto calcolo di questo punto di vista nella comune preparazione dei trasporti delle truppe italiane. Anche durante la campagna orientale la lotto contro l'Inghilterra verrà proseguita con sufficiente impiego di forze. La Marina da guerra germanica non sarà quasi impegnata contro la Russia Sovietica nel Mar Baltico da noi sbarrato. Però l'assedio dell'Inghilterra deve essere soprattutto rinforzato, anche durante le operazioni orientali, un adeguato impiego dell'Arma aerea.
Ed ora, Duce, lasciatemi esprimere alla fine ancora il pensiero. Ho riflettuto se non sarebbe forse psicologicamente giusto che noi due proprio nel corso di questa lotta ci potessimo incontrare in qualche luogo al fronte orientale. Il luogo più appropriato sarebbe naturalmente il mio stesso Quartiere oppure un'altra delle località all'uopo previste poiché si trovano colà le condizioni necessarie per gli impianti dai quali io - almeno per un periodo di tempo piuttosto lungo - non potrei allontanarmi che con molta difficoltà. Nei riguardi del sistema delle comunicazioni e delle notizie io sono purtroppo uno schiavo della tecnica. Ma io credo che se ciò potrà una volta realizzarsi - anche prescindendo del tutto dallo scambio personale di idee - gli effetti psicologici per entrambi i nostri popoli sarebbero certamente utili.
Credo inoltre che ciò sarebbe adeguatamente apprezzato anche dal resto del mondo. Chiudo questa lunga lettera, Duce, salutandoVi con vecchia amicizia e nel più cordiale.
Adolf Hitler
martedì 3 agosto 2021
Le mappe dello CSIR e dell'ARMIR 14
Le mappe delle operazioni del CSIR e dell'ARMIR dal giugno 1941 all'ottobre 1942 - La battaglia di Chazepetowka (5-14 Dicembre 1941).
Ricordi di un alpino
Alpino Alessandro Carpanè, 58a Compagnia, Battaglione Verona, 6° Reggimento Alpini.
Sono anch'io uno di Nikolajewka e come per tutti ci sarebbero tanti episodi da raccontare, è quasi difficile cominciare. Io appartenevo al Battaglione Verona, 58a Compagnia comandata dall'allora capitano Bernardo Venier. Ero portaferiti fino al giorno 19 gennaio, giorno memorabile per il nostro battaglione: una parte di esso fu distrutto in quel grande combattimento di Postojalyi.
Quanti morti e feriti quel giorno! Difficile saperlo. Avemmo molto lavoro a portare i feriti nelle isbe per essere in qualche modo medicati. Alla sera nell'isba quasi nell'oscurità giacevano due alpini senza alcun segno di vita. Un ufficiale per fare un po' di posto perché altri alpini potessero ripararsi dal freddo, vedendo quei due alpini morti ci ordinò di portarli fuori coprendoli con un po' di paglia.
Io per mia iniziativa gli levai ad uno e precisamente a Massimo Ceschi il piastrino di riconoscimento e me lo misi in tasca. Dopo qualche giorno anch'io fui ferito e ricordo che più volte, frugando nelle tasche se c'era qualche briciola di pane, mi veniva in mano il piastrino del Ceschi; ma in seguito lo perdetti come tante altre cose.
La guerra finisce e vicino al mio paese in una festa d'alpini presenziava il simpatico, vecchio Colonnello Marchiori e non so come fu che gli raccontai il fatto. E qui con grande stupore mi disse che l'alpino Ceschi era a casa, anzi, per assicurarmi, mi disse che era un suo dipendente. Era si tornato ferito, ma stava bene. Io non sapevo più come spiegarmi del fatto.
Ed ecco che un giorno il Ceschi mi venne a trovare, ma al primo incontro nessuno di noi due era capace a parlare, solamente le lacrime correvano dagli occhi. Tornando al tempo della sacca, Il giorno 21 gennaio '43, al mattino presto, ancora buio, rimasi ferito da schegge ad una gamba e qualcuna di queste rimase conficcata nella carne e così non potei più camminare. Da quel momento fino al giorno 31 quel che io passai Dio solo lo sa. La fame completa, non potendo cercare tra le isbe qualcosa da mangiare, le mille difficoltà di trovare qualche mulo o slitta per salirci sopra, ma non voglio allungarmi perché tutti là hanno visto con i loro occhi e lo sanno molto bene.
Finché arriva il 31 e cioè il mio più grande episodio. Quel mattino era ormai a condizioni quasi disperate, credo aver avuto la febbre e non avevo neanche fiato di parlare, mi reggeva più che altro il pensiero della famiglia e le cose care. L'ora della partenza si rese ancor più triste perché non ero capace di trovare qualche posto sulle slitte e i muli perché questi erano ormai ridotti molto pochi. Ma ecco passarmi vicino un alpino con il mulo senza alcun carico sul basto, gli chiesi di salirci sopra e lui mi fece cenno di sì, cosicché con il suo aiuto mi arrampicai sopra.
Dopo circa un'ora, lui dovette fermarsi per un suo bisogno, se non che dopo poco mi accorsi che da quella posizione non si muoveva e nemmeno chiedeva qualcosa, mi sforzai e andai per alzarlo quando mi accorsi che le sue mani non si muovevano più, erano bianche e si erano congelate (i guanti li aveva perduti).
Che cosa fare allora? Intanto lui si metteva a piangere vedendo che non era capace di muoversi. Ma con l'aiuto di qualcuno potemmo caricarlo sul mulo. Ed io, allora? Cosa mi restava? Mi aggrappai al mulo camminando quasi con una gamba sola, ma per poco, perché ecco il miracolo: una colonna di camion con i nostri soldati ci aspettava per caricarci sopra e portarci all'ospedale di Karkov, era venuto quel giorno.
RICCARDO
Sono anch'io uno di Nikolajewka e come per tutti ci sarebbero tanti episodi da raccontare, è quasi difficile cominciare. Io appartenevo al Battaglione Verona, 58a Compagnia comandata dall'allora capitano Bernardo Venier. Ero portaferiti fino al giorno 19 gennaio, giorno memorabile per il nostro battaglione: una parte di esso fu distrutto in quel grande combattimento di Postojalyi.
Quanti morti e feriti quel giorno! Difficile saperlo. Avemmo molto lavoro a portare i feriti nelle isbe per essere in qualche modo medicati. Alla sera nell'isba quasi nell'oscurità giacevano due alpini senza alcun segno di vita. Un ufficiale per fare un po' di posto perché altri alpini potessero ripararsi dal freddo, vedendo quei due alpini morti ci ordinò di portarli fuori coprendoli con un po' di paglia.
Io per mia iniziativa gli levai ad uno e precisamente a Massimo Ceschi il piastrino di riconoscimento e me lo misi in tasca. Dopo qualche giorno anch'io fui ferito e ricordo che più volte, frugando nelle tasche se c'era qualche briciola di pane, mi veniva in mano il piastrino del Ceschi; ma in seguito lo perdetti come tante altre cose.
La guerra finisce e vicino al mio paese in una festa d'alpini presenziava il simpatico, vecchio Colonnello Marchiori e non so come fu che gli raccontai il fatto. E qui con grande stupore mi disse che l'alpino Ceschi era a casa, anzi, per assicurarmi, mi disse che era un suo dipendente. Era si tornato ferito, ma stava bene. Io non sapevo più come spiegarmi del fatto.
Ed ecco che un giorno il Ceschi mi venne a trovare, ma al primo incontro nessuno di noi due era capace a parlare, solamente le lacrime correvano dagli occhi. Tornando al tempo della sacca, Il giorno 21 gennaio '43, al mattino presto, ancora buio, rimasi ferito da schegge ad una gamba e qualcuna di queste rimase conficcata nella carne e così non potei più camminare. Da quel momento fino al giorno 31 quel che io passai Dio solo lo sa. La fame completa, non potendo cercare tra le isbe qualcosa da mangiare, le mille difficoltà di trovare qualche mulo o slitta per salirci sopra, ma non voglio allungarmi perché tutti là hanno visto con i loro occhi e lo sanno molto bene.
Finché arriva il 31 e cioè il mio più grande episodio. Quel mattino era ormai a condizioni quasi disperate, credo aver avuto la febbre e non avevo neanche fiato di parlare, mi reggeva più che altro il pensiero della famiglia e le cose care. L'ora della partenza si rese ancor più triste perché non ero capace di trovare qualche posto sulle slitte e i muli perché questi erano ormai ridotti molto pochi. Ma ecco passarmi vicino un alpino con il mulo senza alcun carico sul basto, gli chiesi di salirci sopra e lui mi fece cenno di sì, cosicché con il suo aiuto mi arrampicai sopra.
Dopo circa un'ora, lui dovette fermarsi per un suo bisogno, se non che dopo poco mi accorsi che da quella posizione non si muoveva e nemmeno chiedeva qualcosa, mi sforzai e andai per alzarlo quando mi accorsi che le sue mani non si muovevano più, erano bianche e si erano congelate (i guanti li aveva perduti).
Che cosa fare allora? Intanto lui si metteva a piangere vedendo che non era capace di muoversi. Ma con l'aiuto di qualcuno potemmo caricarlo sul mulo. Ed io, allora? Cosa mi restava? Mi aggrappai al mulo camminando quasi con una gamba sola, ma per poco, perché ecco il miracolo: una colonna di camion con i nostri soldati ci aspettava per caricarci sopra e portarci all'ospedale di Karkov, era venuto quel giorno.
RICCARDO
giovedì 22 luglio 2021
Il viaggio del 2011, steppa a Novo Georgiewskij
Immagini del mio primo viaggio "esplorativo" effettuato nel 2011... la steppa fra Novo Georgiewskij e Krawzowka.
Palù, la Bigia e tutti gli altri, parte 4
Tutto il materiale proposto fa riferimento all'articolo 70 comma 1 della legge numero 633 del 22 Aprile 1941 che cita "Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l'utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali".
Palù, la Bigia e tutti gli altri... quarta ed ultima parte.
Palù, dal canto suo, ha calmato in parte la fame; sente freddo agli arti inferiori ma non gli dà eccessivo fastidio, e poi in quella posizione accosciata sente che riposa. Pensa che in tutta la sua carriera di rado ha dormito sdraiato a terra; sempre in piedi, ora su due zampe ora sulle altre due. È da quando è cominciata questa lunga marcia, che ha conosciuto il benefico riposo a terra. Sente il corpo del suo conducente adagiato sul suo fianco destro, appoggiato alla Bigia, e non muove un muscolo per non svegliarlo; sa che deve proteggerlo perché il conducente protegge lui. Ha notato che, prima di ogni altra cosa, appena lo ha fatto accasciare a terra, gli ha dato da mangiare, lo ha coperto con quel telone che ora comincia a pesare per la gran neve che il vento vi deposita sopra e prova un senso di riconoscenza per quell'uomo con il quale ha diviso la sorte per tanti anni. Ha un cuore grande, Palù, e dentro vi è posto per solo per il suo conducente.
Il mulo agita la testa mentre le sue robuste zampe affondano nella neve e procedono sicure. Il passo della Bigia è invece stanco, si direbbe che si lasci trascinare dal maschio e Scotto se ne accorge perché la testa della mula è sempre un mezzo metro indietro, rispetto a quella di Palù. "Forza Bigia", la incoraggia, e passa dalla sua parte lasciando la briglia del maschio e afferrando con la mano sinistra quella della mula. Camminando sente il respiro affannoso della bestia, quasi un rantolo che le gorgoglia nel lungo collo mentre la pelle delle zampe trema, come se i muscoli che sono sotto abbiano delle contrazioni dolorose. Il conducente pensa con raccapriccio che la mula sia ammalata, o esausta, e non abbia più la forza per farcela. Ma proseguono, passo dopo passo, forse più lenti del ritmo normale di marcia, ma con decisione, gli occhi fissi alle tracce lasciate dalle altre slitte e dagli zoccoli dei muli. Devono raggiungerla via della salvezza, ad ogni costo.
Quando comincia ad albeggiare è un pallido sole sorge a oriente, fanno una sosta e la Bigia crolla nella neve. Subito liberata dai finimenti, viene massaggiata dal conducente con del fieno, sulla pancia, sui fianchi, sul collo, sulle zampe. Ma il su occhio annebbiato, sbatte le palpebre dalle lunghe ciglia e respira a fatica; le orecchie hanno dei movimenti in avanti e indietro, come a cercare di percepire rumori che solo lei sente. "Bigia, anima mia, coraggio!", le sussurra il conducente e cerca di versarle delle gocce di grappa fra le labbra, ma quella le sputa. Palù irrequieto, si muove avanti e indietro, attaccato alle tirelle, gira di continuo la grande testa verso la sua compagna di fatiche e a tratti di sbuffa dalle dalle grandi narici, oppure emette un suono, con un richiamo inarticolato ma doloroso. Sente che la Bigia sta morendo: come tutti gli animali, al sentore della morte prima degli uomini e ne ha paura. Ad un tratto si rizza sulle zampe posteriori e agita le anteriori nell'aria, una, due volte. In quel momento la mula fa un lungo sospiro e la sua testa cadde nella neve, affondandovi a metà, un occhio fuori e l'altro sepolto nella coltre bianca; le sue zampe si irrigidiscono, sembrano più sottili e più lunghe. La sua coda si confonde col bianco della neve.
Scotto e lì immobile, una mano posata sulla testa dell'animale, lo sguardo fisso quel l'occhio ancora aperto ma senza più luce nella pupilla; si sente come svuotato, ha perduto la forza e la sua mente vaga come in un mare in tempesta; rivede in pochi attimi tutte le scene di guerre e di morte... E mentre l'ufficiale esegue l'operazione, il conducente sposta la slitta per lasciare la mula fuori dalle tirelle, poi prendo il badile e comincia a coprire la Bigia con tanta neve. Nessuno deve ridurre a bistecche la Bigia, dice a sé stesso, e in quel momento comincia a piangere. Le lacrime scendono nel passamontagna e si mescolano al ghiaccio rappreso davanti alla bocca, al sudiciume; scendono nei peli della barba dove sono andati i pidocchi. Ha gli occhi annebbiati il povero conducente, e lavora, lavora di badile, creando una montagnetta di neve sul corpo della bestia. Ultima a coprire è la testa, distesa e smagrita, con l'occhio sempre aperto, come se guardasse davanti a sé, la pista e le tracce delle slitte che sono passate di lì indicano a loro la via della salvezza.
La marea degli sbandati si muove come una valanga, precipita giù per il vallone, risale la china, si accalca verso il sottopassaggio; alcuni salgono sul terrapieno e dilagano nella città seguendo i combattenti. Anche le slitte dei feriti si muovono e scivolano per il pendio; i conducenti trattengono i muli e frenano le slitte con forza per non travolgere i quadrupedi. Il fondo della vallata è coperto di cadaveri e i conducenti guidano i muli onde evitare quei miseri resti raggomitolati o distesi nella neve, quasi irriconoscibili con il passamontagna ricoperto di sangue o con chiazze sul petto, sul dorso, mentre la neve è rossa ovunque.
Introdursi nel sottopassaggio è impresa ardua, con le slitte, perché la gran massa che vi si accalca dentro, vociante in diverse lingue e in tutti di dialetti d'Italia, resa cattiva e feroce da giorni e giorni di lotta, di privazioni e di fame; protesa verso l'uscita del sottopassaggio che in quel momento rappresenta la via della salvezza. E gli uomini calpestano i feriti, si fanno largo a spallate, a spintoni, bestemmiando, urlando, minacciando con le più diverse armi, dalle baionette alle pistole, che intralcia il passo. Qualcuno spara contro un commilitone e quello si accascia, subito travolto e calpestato dagli altri. Scotto ferma la sua slitta e aspetta con pazienza che la marea sia passata, non vuole rischiare la vita sua e del suo mulo in quella calca infernale. La fiumana di sbandati si assottiglia; adesso gli uomini passano là sotto con più facilità, c'è un po' di spazio fra uno e l'altro.
Ma in quel momento il destino ha segnato l'ora fatale per il mulo Palù. Procedendo cauto, appoggia lo zoccolo destro su uno strato di neve che sembra consistente e gelata, ma cede, la zampa affonda, con un rumore sinistro, fino al ginocchio; il conducente avverte il sordo rumore e nello stesso tempo il suo braccio, che tiene la briglia, subisce uno strappo in avanti; la testa del mulo picchia a terra, la zampa sinistra si piega sotto il corpo dell'animale e Palù lancia una specie di urlo di dolore. Gli altri non hanno udito e stanno proseguendo lungo il terrapieno ma Scotto chiama, urla: "Aiuto, aiutatemi!". La slitta che lo precede si arresta, poi si arrestano le altre e i conducenti accorrono. Scotto ha già staccato le tirelle, ha liberato la bestia dei finimenti e continua a ripetere: "Bono Palù, bono, non ti muovere".
Il mulo obbedisce, paziente, appoggiato il muso nella neve e gira i suoi grandi occhi attorno, come un cerca di aiuto. Il suo conducente scava con le unghie la neve, attorno alla zampa sepolta dell'animale, penetra nella cavità, sente che una buca di pochi decimetri di diametro; lo zoccolo appoggio sul fondo, ma sente anche che lo stinco di Palù è spezzato, le ossa premono contro la pelle puntute, come coltelli. È come se il sangue si fosse ghiacciato nelle vene del povero conducente; alza gli occhi sui compagni che stanno lì ad osservare, pronti ad aiutarlo, poi dice sotto voce, quasi non volesse far sentire al mulo: "Ha uno stinco spezzato!". Gli uomini si prodigano, afferrano l'animale sotto la pancia e, facendo forza tutti insieme, lentamente lo sollevano. La zampa lesionata viene alla luce e il mulo nitrisce di dolore. Lo fanno coricare sul fianco sinistro e Scotto è lì con lo sguardo allucinato; non ha più forza e il suo cervello è come paralizzato. Sa cosa significa una zampa spezzata, è la morte, inesorabile, sicura. Si avvicina la testa di Palù, accarezza la grande fronte, dove spicca la stella bianca, le froge calde e fumanti; sente il respiro ansimante della bestia, ma non ha il coraggio di guardarla negli occhi.
"Palù, amico mio", gli mormora con dolcezza, "non aver paura, sono qua io!", e gli accarezza ed orecchie che vibrano a percepire tutti i suoni e i rumori. Il dolore della ferita deve essere lancinante. La zampa si è gonfiata in maniera orrenda, dal ginocchio allo zoccolo che quasi scompare, ora, sotto il gonfiore. Arriva il capitano medico che esamina subito la zampa lesionata, ma al tocco delle sue mani la bestia ha come un sobbalzo per il dolore; il medico si rialza e si avvicina al conducente, appoggiandogli il braccio ancora valido sulle spalle. "Coraggio, amico mio. Questa nobile bestia che ci ha portato in salvo, sta per finire di soffrire".
"Come sarebbe a dire?", salta su Scotto con atteggiamento quasi aggressivo. "Tu te ne intendi più di me", dice il capitano medico, "se fossimo al reggimento, con un'infermeria, un veterinario e tutti gli aiuti necessari, forse si potrebbe anche tentare di ridurre la frattura, ingessare la zampa e lasciare il mulo sdraiato per un mese o due; ma sarebbe comunque un mulo invalido per sempre, anche se potesse riprendere a camminare. Ma qui..." e si interrompe con un sospiro. "Allora vuol dire che dobbiamo abbatterlo?". Il capitano fa cenno di sì con la testa e non dice altro. Egli sa quale sia l'affetto che mulo e conducente hanno uno per l'altro; ha ammirato la forza, l'intelligenza, il coraggio di entrambi e sente un vero struggimento di fronte alla triste realtà e alla decisione che con Scotto deve prendere.
Il conducente, stretto nelle spalle, rimpicciolito dal dolore che lo stringe come una morsa, non piange, guarda tutti i morti che sono seminati lì attorno e per quelli non prova né pietà né dolore, ma per Palù sente il cuore che il cuore batte a ritmo accelerato, con colpi sordi, come se volesse scoppiarli un petto. Non sa cosa fare, non sa pensare, non sa ragionare e torna ad inginocchiarsi vicino alla grande testa nera, l'accarezza e gli occhi di Palù sembra chiedano cosa gli è successo, cosa vogliono fargli, perché è crollato mentre sente ancora tanta forza nei suoi muscoli poderosi. "Signor capitano", dice piano Scotto all'ufficiale che è lì ad attendere, "faccia lei, ma mi raccomando, che non soffra. Poi lo faccia coprire con il telone della slitta, lì ci sono delle traversine, le faccia mettere sul telo, che nessuno veda il cadavere del più bel mulo degli alpini". Accarezza un'ultima volta la grande testa di Palù, il collo in cui guizzano nervosi muscoli e tendini; le lacrime gli offuscano la vista e scendono copiose nella barba incolta. "Ciao, vecchio mio, fratello mio", mormora singhiozzando, poi si alza procedendo a tentoni, come se fosse ubriaco, e si allontana, dirigendosi verso le altre slitte.
Ma Scotto si sente solo, sperduto, come un forestiero che capiti in una città sconosciuta, dove la gente parla un'altra lingua, ed è allegra, ride, schiamazza, si diverte e lui non capisce una parola, non sa a chi rivolgersi, dove dirigere i propri passi; è preso dalla disperazione, dalla nostalgia per il paese lontano, dove parlano la sua lingua, sono come lui; puoi entrare in un bar per ordinare un bicchiere di vino, e subito trovi un amico. Ha sulle spalle il suo zaino e il "sacco comune" del mulo, nel quale verrà deposto lo zoccolo anteriore sinistro, quello col numero di matricola. Ma non lo consegnerà ad un comando militare per far scaricare dalla "forza" del reggimento il mulo Palù. Lo terrà con sé, per tutta la vita, lo metterà in camera sua, nella casetta lassù sulla collina di Pegli, accanto alla fotografia di Palù, quella che il tenente Morena mi ha fatto tanti anni addietro a tenda.
Si sente lontano uno sparo, dietro a loro. Ecco, Palù è morto, adesso lo copriranno, il capitano staccherà lo zoccolo e lo porterà lui, magari avvolto in un panno, o in un sacco. L'idea passa come un lampo accecante nella mente del conducente che si arresta, vorrebbe correre indietro, rivedere suo Palù, ma la morte dell'amico mulo lo ha inchiodato lì, avvolto dalla notte buia, mentre la neve ricomincia a cadere, dapprima sottile e soffice, poi sempre più fitta e fa velo sugli occhi, imbianca i pastrani sporchi e laceri, lo zaino che tiene appeso a una spalla. Palù ha compiuto l'ultimo miracolo, per loro: li ha portati fino alla meta che si erano prefissi di raggiungere e rimane qui, col suo possente corpo dal manto nero con la stella bianca in fronte, forse a proteggere gli altri innumerevoli passi che questi superstiti dovranno compiere prima di salire su un treno che le riporterà a casa.
Ecco... qui finisce la storia di Palù, della Bigia e di tutti gli altri, anche loro non tornati dalla Russia. Ora so che il prossimo 26 gennaio che passerò in Russia, arrivato a Nikolajewka e superato il vero sottopassaggio che loro attraversarono, mi dirigerò a sinistra, lungo la massicciata, esattamente come hanno fatto loro e dopo qualche metro lascerò nella neve un fiore per Palù, per la Bigia e per tutti gli altri...
Palù, la Bigia e tutti gli altri... quarta ed ultima parte.
Palù, dal canto suo, ha calmato in parte la fame; sente freddo agli arti inferiori ma non gli dà eccessivo fastidio, e poi in quella posizione accosciata sente che riposa. Pensa che in tutta la sua carriera di rado ha dormito sdraiato a terra; sempre in piedi, ora su due zampe ora sulle altre due. È da quando è cominciata questa lunga marcia, che ha conosciuto il benefico riposo a terra. Sente il corpo del suo conducente adagiato sul suo fianco destro, appoggiato alla Bigia, e non muove un muscolo per non svegliarlo; sa che deve proteggerlo perché il conducente protegge lui. Ha notato che, prima di ogni altra cosa, appena lo ha fatto accasciare a terra, gli ha dato da mangiare, lo ha coperto con quel telone che ora comincia a pesare per la gran neve che il vento vi deposita sopra e prova un senso di riconoscenza per quell'uomo con il quale ha diviso la sorte per tanti anni. Ha un cuore grande, Palù, e dentro vi è posto per solo per il suo conducente.
Il mulo agita la testa mentre le sue robuste zampe affondano nella neve e procedono sicure. Il passo della Bigia è invece stanco, si direbbe che si lasci trascinare dal maschio e Scotto se ne accorge perché la testa della mula è sempre un mezzo metro indietro, rispetto a quella di Palù. "Forza Bigia", la incoraggia, e passa dalla sua parte lasciando la briglia del maschio e afferrando con la mano sinistra quella della mula. Camminando sente il respiro affannoso della bestia, quasi un rantolo che le gorgoglia nel lungo collo mentre la pelle delle zampe trema, come se i muscoli che sono sotto abbiano delle contrazioni dolorose. Il conducente pensa con raccapriccio che la mula sia ammalata, o esausta, e non abbia più la forza per farcela. Ma proseguono, passo dopo passo, forse più lenti del ritmo normale di marcia, ma con decisione, gli occhi fissi alle tracce lasciate dalle altre slitte e dagli zoccoli dei muli. Devono raggiungerla via della salvezza, ad ogni costo.
Quando comincia ad albeggiare è un pallido sole sorge a oriente, fanno una sosta e la Bigia crolla nella neve. Subito liberata dai finimenti, viene massaggiata dal conducente con del fieno, sulla pancia, sui fianchi, sul collo, sulle zampe. Ma il su occhio annebbiato, sbatte le palpebre dalle lunghe ciglia e respira a fatica; le orecchie hanno dei movimenti in avanti e indietro, come a cercare di percepire rumori che solo lei sente. "Bigia, anima mia, coraggio!", le sussurra il conducente e cerca di versarle delle gocce di grappa fra le labbra, ma quella le sputa. Palù irrequieto, si muove avanti e indietro, attaccato alle tirelle, gira di continuo la grande testa verso la sua compagna di fatiche e a tratti di sbuffa dalle dalle grandi narici, oppure emette un suono, con un richiamo inarticolato ma doloroso. Sente che la Bigia sta morendo: come tutti gli animali, al sentore della morte prima degli uomini e ne ha paura. Ad un tratto si rizza sulle zampe posteriori e agita le anteriori nell'aria, una, due volte. In quel momento la mula fa un lungo sospiro e la sua testa cadde nella neve, affondandovi a metà, un occhio fuori e l'altro sepolto nella coltre bianca; le sue zampe si irrigidiscono, sembrano più sottili e più lunghe. La sua coda si confonde col bianco della neve.
Scotto e lì immobile, una mano posata sulla testa dell'animale, lo sguardo fisso quel l'occhio ancora aperto ma senza più luce nella pupilla; si sente come svuotato, ha perduto la forza e la sua mente vaga come in un mare in tempesta; rivede in pochi attimi tutte le scene di guerre e di morte... E mentre l'ufficiale esegue l'operazione, il conducente sposta la slitta per lasciare la mula fuori dalle tirelle, poi prendo il badile e comincia a coprire la Bigia con tanta neve. Nessuno deve ridurre a bistecche la Bigia, dice a sé stesso, e in quel momento comincia a piangere. Le lacrime scendono nel passamontagna e si mescolano al ghiaccio rappreso davanti alla bocca, al sudiciume; scendono nei peli della barba dove sono andati i pidocchi. Ha gli occhi annebbiati il povero conducente, e lavora, lavora di badile, creando una montagnetta di neve sul corpo della bestia. Ultima a coprire è la testa, distesa e smagrita, con l'occhio sempre aperto, come se guardasse davanti a sé, la pista e le tracce delle slitte che sono passate di lì indicano a loro la via della salvezza.
La marea degli sbandati si muove come una valanga, precipita giù per il vallone, risale la china, si accalca verso il sottopassaggio; alcuni salgono sul terrapieno e dilagano nella città seguendo i combattenti. Anche le slitte dei feriti si muovono e scivolano per il pendio; i conducenti trattengono i muli e frenano le slitte con forza per non travolgere i quadrupedi. Il fondo della vallata è coperto di cadaveri e i conducenti guidano i muli onde evitare quei miseri resti raggomitolati o distesi nella neve, quasi irriconoscibili con il passamontagna ricoperto di sangue o con chiazze sul petto, sul dorso, mentre la neve è rossa ovunque.
Introdursi nel sottopassaggio è impresa ardua, con le slitte, perché la gran massa che vi si accalca dentro, vociante in diverse lingue e in tutti di dialetti d'Italia, resa cattiva e feroce da giorni e giorni di lotta, di privazioni e di fame; protesa verso l'uscita del sottopassaggio che in quel momento rappresenta la via della salvezza. E gli uomini calpestano i feriti, si fanno largo a spallate, a spintoni, bestemmiando, urlando, minacciando con le più diverse armi, dalle baionette alle pistole, che intralcia il passo. Qualcuno spara contro un commilitone e quello si accascia, subito travolto e calpestato dagli altri. Scotto ferma la sua slitta e aspetta con pazienza che la marea sia passata, non vuole rischiare la vita sua e del suo mulo in quella calca infernale. La fiumana di sbandati si assottiglia; adesso gli uomini passano là sotto con più facilità, c'è un po' di spazio fra uno e l'altro.
Ma in quel momento il destino ha segnato l'ora fatale per il mulo Palù. Procedendo cauto, appoggia lo zoccolo destro su uno strato di neve che sembra consistente e gelata, ma cede, la zampa affonda, con un rumore sinistro, fino al ginocchio; il conducente avverte il sordo rumore e nello stesso tempo il suo braccio, che tiene la briglia, subisce uno strappo in avanti; la testa del mulo picchia a terra, la zampa sinistra si piega sotto il corpo dell'animale e Palù lancia una specie di urlo di dolore. Gli altri non hanno udito e stanno proseguendo lungo il terrapieno ma Scotto chiama, urla: "Aiuto, aiutatemi!". La slitta che lo precede si arresta, poi si arrestano le altre e i conducenti accorrono. Scotto ha già staccato le tirelle, ha liberato la bestia dei finimenti e continua a ripetere: "Bono Palù, bono, non ti muovere".
Il mulo obbedisce, paziente, appoggiato il muso nella neve e gira i suoi grandi occhi attorno, come un cerca di aiuto. Il suo conducente scava con le unghie la neve, attorno alla zampa sepolta dell'animale, penetra nella cavità, sente che una buca di pochi decimetri di diametro; lo zoccolo appoggio sul fondo, ma sente anche che lo stinco di Palù è spezzato, le ossa premono contro la pelle puntute, come coltelli. È come se il sangue si fosse ghiacciato nelle vene del povero conducente; alza gli occhi sui compagni che stanno lì ad osservare, pronti ad aiutarlo, poi dice sotto voce, quasi non volesse far sentire al mulo: "Ha uno stinco spezzato!". Gli uomini si prodigano, afferrano l'animale sotto la pancia e, facendo forza tutti insieme, lentamente lo sollevano. La zampa lesionata viene alla luce e il mulo nitrisce di dolore. Lo fanno coricare sul fianco sinistro e Scotto è lì con lo sguardo allucinato; non ha più forza e il suo cervello è come paralizzato. Sa cosa significa una zampa spezzata, è la morte, inesorabile, sicura. Si avvicina la testa di Palù, accarezza la grande fronte, dove spicca la stella bianca, le froge calde e fumanti; sente il respiro ansimante della bestia, ma non ha il coraggio di guardarla negli occhi.
"Palù, amico mio", gli mormora con dolcezza, "non aver paura, sono qua io!", e gli accarezza ed orecchie che vibrano a percepire tutti i suoni e i rumori. Il dolore della ferita deve essere lancinante. La zampa si è gonfiata in maniera orrenda, dal ginocchio allo zoccolo che quasi scompare, ora, sotto il gonfiore. Arriva il capitano medico che esamina subito la zampa lesionata, ma al tocco delle sue mani la bestia ha come un sobbalzo per il dolore; il medico si rialza e si avvicina al conducente, appoggiandogli il braccio ancora valido sulle spalle. "Coraggio, amico mio. Questa nobile bestia che ci ha portato in salvo, sta per finire di soffrire".
"Come sarebbe a dire?", salta su Scotto con atteggiamento quasi aggressivo. "Tu te ne intendi più di me", dice il capitano medico, "se fossimo al reggimento, con un'infermeria, un veterinario e tutti gli aiuti necessari, forse si potrebbe anche tentare di ridurre la frattura, ingessare la zampa e lasciare il mulo sdraiato per un mese o due; ma sarebbe comunque un mulo invalido per sempre, anche se potesse riprendere a camminare. Ma qui..." e si interrompe con un sospiro. "Allora vuol dire che dobbiamo abbatterlo?". Il capitano fa cenno di sì con la testa e non dice altro. Egli sa quale sia l'affetto che mulo e conducente hanno uno per l'altro; ha ammirato la forza, l'intelligenza, il coraggio di entrambi e sente un vero struggimento di fronte alla triste realtà e alla decisione che con Scotto deve prendere.
Il conducente, stretto nelle spalle, rimpicciolito dal dolore che lo stringe come una morsa, non piange, guarda tutti i morti che sono seminati lì attorno e per quelli non prova né pietà né dolore, ma per Palù sente il cuore che il cuore batte a ritmo accelerato, con colpi sordi, come se volesse scoppiarli un petto. Non sa cosa fare, non sa pensare, non sa ragionare e torna ad inginocchiarsi vicino alla grande testa nera, l'accarezza e gli occhi di Palù sembra chiedano cosa gli è successo, cosa vogliono fargli, perché è crollato mentre sente ancora tanta forza nei suoi muscoli poderosi. "Signor capitano", dice piano Scotto all'ufficiale che è lì ad attendere, "faccia lei, ma mi raccomando, che non soffra. Poi lo faccia coprire con il telone della slitta, lì ci sono delle traversine, le faccia mettere sul telo, che nessuno veda il cadavere del più bel mulo degli alpini". Accarezza un'ultima volta la grande testa di Palù, il collo in cui guizzano nervosi muscoli e tendini; le lacrime gli offuscano la vista e scendono copiose nella barba incolta. "Ciao, vecchio mio, fratello mio", mormora singhiozzando, poi si alza procedendo a tentoni, come se fosse ubriaco, e si allontana, dirigendosi verso le altre slitte.
Ma Scotto si sente solo, sperduto, come un forestiero che capiti in una città sconosciuta, dove la gente parla un'altra lingua, ed è allegra, ride, schiamazza, si diverte e lui non capisce una parola, non sa a chi rivolgersi, dove dirigere i propri passi; è preso dalla disperazione, dalla nostalgia per il paese lontano, dove parlano la sua lingua, sono come lui; puoi entrare in un bar per ordinare un bicchiere di vino, e subito trovi un amico. Ha sulle spalle il suo zaino e il "sacco comune" del mulo, nel quale verrà deposto lo zoccolo anteriore sinistro, quello col numero di matricola. Ma non lo consegnerà ad un comando militare per far scaricare dalla "forza" del reggimento il mulo Palù. Lo terrà con sé, per tutta la vita, lo metterà in camera sua, nella casetta lassù sulla collina di Pegli, accanto alla fotografia di Palù, quella che il tenente Morena mi ha fatto tanti anni addietro a tenda.
Si sente lontano uno sparo, dietro a loro. Ecco, Palù è morto, adesso lo copriranno, il capitano staccherà lo zoccolo e lo porterà lui, magari avvolto in un panno, o in un sacco. L'idea passa come un lampo accecante nella mente del conducente che si arresta, vorrebbe correre indietro, rivedere suo Palù, ma la morte dell'amico mulo lo ha inchiodato lì, avvolto dalla notte buia, mentre la neve ricomincia a cadere, dapprima sottile e soffice, poi sempre più fitta e fa velo sugli occhi, imbianca i pastrani sporchi e laceri, lo zaino che tiene appeso a una spalla. Palù ha compiuto l'ultimo miracolo, per loro: li ha portati fino alla meta che si erano prefissi di raggiungere e rimane qui, col suo possente corpo dal manto nero con la stella bianca in fronte, forse a proteggere gli altri innumerevoli passi che questi superstiti dovranno compiere prima di salire su un treno che le riporterà a casa.
Ecco... qui finisce la storia di Palù, della Bigia e di tutti gli altri, anche loro non tornati dalla Russia. Ora so che il prossimo 26 gennaio che passerò in Russia, arrivato a Nikolajewka e superato il vero sottopassaggio che loro attraversarono, mi dirigerò a sinistra, lungo la massicciata, esattamente come hanno fatto loro e dopo qualche metro lascerò nella neve un fiore per Palù, per la Bigia e per tutti gli altri...
domenica 11 luglio 2021
Il processo D'Onofrio, parte 12
Il processo D'Onofrio, dodicesima parte. Premetto un aspetto molto importante che ha sempre contraddistinto questa pagina: a volte si toccano argomenti scottanti ed ancora oggi delicati; quello che qui tratterò è forse uno dei più significativi da questo punto di vista. Ma detto questo sottolineo che quanto andrò a riportare NON ha alcun fine politico o di parte, ma esclusivamente storico. Sono fatti relativi alla Campagna di Russia ed alle sue conseguenze e come tali vengono riportati. Qualsiasi commento inopportuno da una parte e dall'altra verrà immediatamente cancellato. Chiedo a chi segue la pagina di esporre la propria idea con educazione e rispetto verso chi magari espone pensieri opposti: la storia e non solo la storia ha già condannato chi mandò quei sfortunati ragazzi in Russia e chi contribuì a tenerli più del dovuto.
LA VENTESIMA UDIENZA.
21 giugno 1949 - Con gli ultimi quattro testi d’accusa escussi, l’istruttoria orale del processo D'Onofrio - Reduci si è chiusa per riprendere fra quindici giorni quando comincerà il torneo oratorio degli avvocati. Fino a quel giorno riposo.
Il serg. Corrado Cicognani è stato il primo ad essere ascoltato. Egli ha esordito dicendo di non essere venuto per difendere la Russia ma gli italiani. E infatti ha mantenuto fede alla premessa in quanto la sua deposizione è stata tutto un elogio al comportamento dei fuorusciti e all'interessamento dimostrato verso i prigionieri italiani. E per non essere disturbato ha voluto gentilmente pregare il Presidente di non interromperlo perché aveva cose molto importanti da dire: cose vissute. La signora Torre fu 'una vera madre' della quale il teste ha enumerato i meriti e le virtù eccezionali che andavano dalle benefiche parole di esortazione alle più vive preoccupazioni per le condizioni di salute degli internati; dall’interessamento presso le autorità sovietiche per un miglioramento del vitto alla ottenuta sostituzione dei rumeni nel servizio sanitario con medici italiani. E tutti gli altri emigrati ebbero più o meno gli stessi meriti.
Presidente: 'Ci parli della scuola di antifascismo'.
Cicognani: 'Se lei mi lascia parlare vedrà che piano piano dirò tutto. Molti frequentarono i corsi di antifascismo perché si diceva che il vitto là era migliore. Io ci andai per curiosità di sapere che cosa vi si insegnasse e così fui assegnato alla scuola numero 165 dove conobbi come istruttori Rizzoli e Robotti. Ero molto contento quando loro parlavano del Risorgimento Italiano, di Mazzini (io sono repubblicano, iscritto al partito) e di Garibaldi. Ma non ne volevo sapere di sentire parlare di Marx perché era un tedesco. Però anche se Marx non mi piaceva gli istruttori mi volevano bene lo stesso. Alla fine del corso c'era da prestare un giuramento di fedeltà al popolo italiano ma non era affatto obbligatorio. Chi non voleva, non giurava. Dopo il corso tornai in Italia'.
Dopo una breve deposizione del soldato Fiorenzo Lancellotti, il quale ha dichiarato di non poter dire che bene dei fuorusciti italiani in genere e di D'Onofrio in particolare, perché sollevava il morale dei prigionieri, è salito sulla pedana il sottotenente Francesco Serio. Egli ha ammesso che le razioni di viveri a Krinovaia erano assolutamente insufficienti ma, ha aggiunto, che ciò dipendeva dal gran numero dei prigionieri presenti, per cui malgrado le cucine fossero in funzione giorno e notte ininterrottamente, non riuscivano a soddisfare le esigenze della enorme massa degli internati. Le preoccupazioni alimentari però finirono con il trasferimento ad Oranki dove si mangiava discretamente. Del D'Onofrio ha detto che egli non propagandò mai idee comuniste ma soltanto antifasciste.
Il teste ha poi ricordato che prima di rimpatriare, ad Odessa, alcuni prigionieri presero l'iniziativa di scrivere una lettera di ringraziamento al popolo sovietico per il trattamento usato ai prigionieri e soltanto pochi ufficiali si rifiutarono di sottoscrivere.
A questo punto l'imputato Emett si è alzato e, chiesta la parola al Tribunale, ha voluto chiarire che egli fu uno di quelli che si rifiutarono di firmare la dichiarazione di ringraziamento.
Emett: 'Ritenevo che cosi facendo mi sarei acquistato il disprezzo di tutte le madri italiane. Per questo rifiuto, io e numerosi altri, fummo trattenuti ancora per qualche tempo in Russia. Il signor Serio quando eravamo ad Oranki mi vendette, per tre razioni di pane, una gavetta tedesca. Per poco non finii in galera perché il Serio la gavetta l’aveva rubata ad un prigioniero tedesco'.
Serio: 'È falso, lo in quel periodo ero nel lazzaretto'.
Ultimo teste, il ten. Nando Bellotti, il quale ha narrato delle epidemie che scoppiarono nei campi. Una infermiera russa, che aveva il fratello morto sul fronte italiano, donò il proprio sangue per la vita di un nostro prigioniero. Di D'Onofrio ha ricordato l'opera benefica svolta a favore dei prigionieri ed ha aggiunto che il ten. Ioli si meravigliò moltissimo quando seppe che era un operaio e affermò che se tutti i fuorusciti italiani fossero stati come il D'Onofrio, i prigionieri in Russia sarebbero stati molto meglio. Quanto alla tolleranza religiosa dei sovietici il teste ha affermato che era tale che le autorità russe consentirono in occasione della Pasqua del 1943 che il cappellano Aleggiani celebrasse una messa. I russi stessi procurarono gli arredi sacri e le ostie per la comunione dei prigionieri.
Avv. Mastino Del Rio: 'Il cappellano Aleggiani ha fatto ritorno in Patria?'.
Bellotti: 'Non mi risulta'.
Presidente: 'Il teste ebbe un incidente al ritorno in Italia?'.
Bellotti: 'Sì. Io ed altri colleghi fummo aggrediti alla frontiera italiana da alcuni ufficiali i quali volevano che sottoscrivessimo una dichiarazione ma che ci rifiutammo di firmare perché conteneva tutte menzogne. Ecco perché fummo aggrediti e bastonati'.
Avv. Taddei: 'Quanti furono coloro che il teste definisce 'aggressori'?'.
Bellotti: 'Una ventina'.
Avv. Taddei: 'E gli aggrediti?...'.
Bellotti: 'Più di cinquecento...'.
Con la risposta del teste Bellotti, che ha suscitato uno scoppio fragoroso di ilarità, si è concluso l'esame testimoniale e l'udienza è stata rinviata al giorno 7 luglio per ragioni di procedura.
LA VENTUNESIMA UDIENZA.
8 luglio 1949. - Certamente il sen. D'Onofrio non s'aspettava che proprio uno dei testi indotti dalla Parte Civile gli giuocasse un così brutto tiro. Eppure è stato così. Il ten. col. Guido Zingales, uno dei reduci che avrebbe dovuto presentarsi al tribunale a sostegno delle affermazioni del querelante, non solo non si è mai presentato a deporre, ma ora si è saputo che ha rilasciato una dichiarazione oltremodo interessante che suona tutt’altro che gradita alle orecchie del signor D'Onofrio. Nella dichiarazione, il tenente colonnello, dopo aver ricordato che, prigioniero nel campo di Oranki, vide arrivare il D'Onofrio accompagnato da un maggiore russo che dicevano essere della N.K.V.D. e che si faceva chiamare Orloff, racconta:
Zingales: 'Fui uno dei primi ad essere interrogato. Il colloquio, come veniva chiamato, durò circa una mezz’ora. Mi fu chiesto, fra l'altro, quali erano le mie idee politiche e che cosa ne pensavo della guerra. Non mi furono fatte minacce, ma non posso escludere che ne fossero fatte agli altri, e ciò per diversi motivi. Le minacce erano purtroppo all'ordine del giorno, sia da parte dei russi sia da parte dei commissari politici. Ho assistito a minacce fatte in pubblico dal commissario Fiammenghi durante le sue conferenze ai ten. Resinato e Ioli, tuttora detenuti in Russia. In seguito ne vennero fatte collettivamente a tutti gli ufficiali, specie ad opera di certi Robotti e Ossola.
Particolare sensazione causarono nel campo gli interrogatori dei ten. Reginato e Ioli per la loro durata e per la loro frequenza. Il cap. Magnani e il ten. Ioli furono allontanati dal campo di Oranki (dove il Magnani era frattanto rientrato) subito dopo la partenza di D'Onofrio: era opinione generale dei prigionieri che tale allontanamento fosse opera del D'Onofrio'.
Zingales: 'Cito un solo caso per tutti: l'uccisione di un tenente (di cui sventuratamente non ricordo il nome) ad opera di una sentinella russa nel 1943 (e cioè quando già da un po’ ci eravamo sistemati nei campi di concentramento). Il tenente, tornando dal lavoro, nonostante l'ordine della sentinella, si era chinato, spinto dalla fame, a raccogliere una piantina di cicoria che cresceva sull'orlo del sentiero!
Devo infine dire, per quanto riguarda i metodi russi di propaganda che essi non rifuggivano neppure dal falso. Cito un fatto personale: al mio rientro in Patria ho appreso di aver parlato più volte alla radio, cosa che mi sono sempre guardato dal fare e che, del resto, non mi venne neanche proposta. Mi rifiutai anche di inviare i miei saluti alla famiglia quando appositi incaricati nel Natale 1945 vennero per fare incidere dai prigionieri dei dischi di saluti che avrebbero dovuto essere trasmessi da Radio Mosca'.
Alla ripresa del processo, malgrado gli undici giorni di sospensione, l'interesse non è minimamente attenuato, anzi si potrebbe dire accresciuto con l'approssimarsi della sentenza del Tribunale. Lo spazio riservato al pubblico è letteralmente gremito di reduci, di donne, forse madri, forse spose di chi non è più tornato. Su molte persone, fra il pubblico, si vedono i nastrini azzurri delle decorazioni.
Il torneo oratorio che conclude l'importante processo è cominciato alle 9,30 con una lunghissima arringa del primo avvocato di Parte Civile, l'avv. Mario Paone, il quale ha parlato, con grande enfasi e calore, per ben quattro ore (e ne avrà ancora per un paio d'ore dell’udienza di domani) sottolineando le proprie affermazioni con violenti pugni sul tavolo, rosso in viso e sudato per la fatica oratoria.
Avv. Paone: 'Intorno a questa causa è fiorita tutta una letteratura che impegna la civiltà occidentale contro quella orientale, una letteratura che impegna i valori dello spirito contro quelli della materia. Ma trovo molto strano che molti giornali abbiano pubblicato che gli emigrati politici italiani in Russia influirono sulla condotta della guerra. Cosa c’entra la Russia Sovietica, cosa c'entrano i comunisti italiani in Russia con la disfatta dell'ARMIR?
La guerra dell'ARMIR nella sacca del Don era finita. È inutile discutere su questo. Gli emigrati italiani nulla poterono fare mentre un maresciallo d'Italia di ritorno in Patria inasprì la polemica. Ma, signori, qui non è messo in ballo l'onore d'Italia, ma solo la preparazione con cui il defunto regime mandò a combattere i soldati in Russia'.
L'avv. Paone ha preso l'argomento molto alla lontana. Dopo aver parlato a lungo della tradizione italiana del Risorgimento, ha toccato questioni politiche, ha sfiorato problemi filosofici, rievocato le grandi figure militari della Roma repubblicana, accennato alle condizioni italiane prima e durante il fascismo. Ha ricordato la funzione nel mondo della Russia Sovietica, ha parlato di Mussolini, di Hitler, di Franco, della Spagna falangista, della campagna razziale, del contributo dell’Unione Sovietica alla affermazione dei valori fondamentali della libertà umana. Ha affermato che gli ordinamenti politico-giuridici internazionali sono infelici ed ingiusti. Ma ciò non dispensava evidentemente il governo bolscevico dall’usare un trattamento umano verso i prigionieri di guerra.
Avv. Paone: 'Qui si è tentato di fare una speculazione politica: tutto il resto non è che diffamazione o meglio calunnia. Edoardo D'Onofrio si presenta dinanzi a voi, o giudici del popolo, sotto l'usbergo della sua tranquilla coscienza, a rivendicare l’opera da lui svolta quale esule politico nei campi di concentramento sovietici a favore dei suoi connazionali prigionieri'.
Due ore precise è durato il preambolo dell’oratore e ben meritato è stato il breve riposo che si è concesso prima di affrontare il vivo della questione. Quando ha ripreso a parlare, il patrono della Parte Civile, ha detto che la guerra alla Russia non si sarebbe fatta se questi militari (e puntava un dito accusatore sugli imputati) fossero andati a raccontare a Mussolini le condizioni di impreparazione del nostro esercito, se gli fossero andati a dire che gli italiani non volevano andare a combattere contro la Russia. Ma non spiega perché non ci sia andato lui! Doveva o no, il senatore D'Onofrio sporgere querela contro i suoi diffamatori? L'oratore scioglie subito il suo dilemma affermando che quando si lede l'onore di un uomo che è stato l'apostolo della classe operaia romana, allora egli non solo ha il diritto, ma il dovere di difendersi!
Chiedere che cosa D’Onofrio abbia fatto in Russia significa offendere tutti gli emigrati italiani da Nitti a Sforza. L’avv. Paone dimentica che la statura morale di costoro è però ben diversa da quella del suo patrocinato. Ed eccoci finalmente all’esame del materiale diffamatorio.
Avv. Paone: 'Le accuse rivolte al senatore comunista hanno offeso tutto il movimento della resistenza e del resto le risultanze processuali autorizzano ad affermare che le accuse non hanno trovato il benché minimo conforto della prova. S’è detto che D’Onofrio avrebbe interrogato i prigionieri mentre il magg. Orloff avrebbe messo a verbale le risposte fornite dagli interrogati. E s'è detto che il magg. Orloff appartenesse alla polizia segreta sovietica. Ma nessuna dimostrazione è stata data di ciò. I querelati sostengono questo, ma noi lo neghiamo e voi, signori giudici, dovete stabilirlo perché vi abbiamo concesso la più ampia facoltà di prova.
Il magg. Orloff aveva soggiornato in Italia prima della guerra e scriveva sul settimanale 'L'Alba' quando ancora D'Onofrio non era comparso nei campi di concentramento. I suoi articoli erano tutti ispirati alla maggiore tolleranza verso gli stessi ufficiali fascisti che egli divideva in tre grandi categorie: quelli che nel fascismo avevano coltivato i loro interessi, quelli che vi avevano aderito in buona fede, e gli incerti verso i quali rivolgeva in modo particolare la sua opera di persuasione.
Quindi, mai accuse furono più false, perché, fra l'altro, il magg. Orloff, che era un semplice ufficiale di amministrazione, compiva nei campi 'solo inchieste a scopo culturale'.
Ormai l'avv. Paone si è addentrato nella difesa della Russia e non può fare a meno di scagionare l'Unione Sovietica anche dalla accusa di intolleranza religiosa. E lo fa sulla scorta di un libro scritto dal gen. Nobile, uno dei tanti volumi che ingombrano, a pile, il tavolo inondato di appunti dell’avvocato.
Avv. Paone: 'I testimoni in questo processo hanno dichiarato che nei campi di concentramento non veniva permessa la celebrazione della messa. Hanno mentito. Il gen. Nobile, quando era ancora colonnello, scrisse pagine in cui illustrò il sentimento religioso del popolo russo. Dunque, non è vero che in Russia sia proibito il culto esterno ed è facile argomentare che se i cappellani militari italiani non celebrarono mai la messa nei campi di concentramento non fu perché fosse loro proibito, ma con il segreto scopo di poter un giorno gridare allo scandalo perché in Russia non sono concesse manifestazioni di culto esterno, e ancora, se gli imputati mentono su questa circostanza, è lecito supporre che altrettanto facciano quando dichiarano che gli italiani in Russia si mangiavano l'uno con l'altro. Perché questo masochismo nazionale unicamente per poter criticare le autorità russe?'.
LA VENTESIMA UDIENZA.
21 giugno 1949 - Con gli ultimi quattro testi d’accusa escussi, l’istruttoria orale del processo D'Onofrio - Reduci si è chiusa per riprendere fra quindici giorni quando comincerà il torneo oratorio degli avvocati. Fino a quel giorno riposo.
Il serg. Corrado Cicognani è stato il primo ad essere ascoltato. Egli ha esordito dicendo di non essere venuto per difendere la Russia ma gli italiani. E infatti ha mantenuto fede alla premessa in quanto la sua deposizione è stata tutto un elogio al comportamento dei fuorusciti e all'interessamento dimostrato verso i prigionieri italiani. E per non essere disturbato ha voluto gentilmente pregare il Presidente di non interromperlo perché aveva cose molto importanti da dire: cose vissute. La signora Torre fu 'una vera madre' della quale il teste ha enumerato i meriti e le virtù eccezionali che andavano dalle benefiche parole di esortazione alle più vive preoccupazioni per le condizioni di salute degli internati; dall’interessamento presso le autorità sovietiche per un miglioramento del vitto alla ottenuta sostituzione dei rumeni nel servizio sanitario con medici italiani. E tutti gli altri emigrati ebbero più o meno gli stessi meriti.
Presidente: 'Ci parli della scuola di antifascismo'.
Cicognani: 'Se lei mi lascia parlare vedrà che piano piano dirò tutto. Molti frequentarono i corsi di antifascismo perché si diceva che il vitto là era migliore. Io ci andai per curiosità di sapere che cosa vi si insegnasse e così fui assegnato alla scuola numero 165 dove conobbi come istruttori Rizzoli e Robotti. Ero molto contento quando loro parlavano del Risorgimento Italiano, di Mazzini (io sono repubblicano, iscritto al partito) e di Garibaldi. Ma non ne volevo sapere di sentire parlare di Marx perché era un tedesco. Però anche se Marx non mi piaceva gli istruttori mi volevano bene lo stesso. Alla fine del corso c'era da prestare un giuramento di fedeltà al popolo italiano ma non era affatto obbligatorio. Chi non voleva, non giurava. Dopo il corso tornai in Italia'.
Dopo una breve deposizione del soldato Fiorenzo Lancellotti, il quale ha dichiarato di non poter dire che bene dei fuorusciti italiani in genere e di D'Onofrio in particolare, perché sollevava il morale dei prigionieri, è salito sulla pedana il sottotenente Francesco Serio. Egli ha ammesso che le razioni di viveri a Krinovaia erano assolutamente insufficienti ma, ha aggiunto, che ciò dipendeva dal gran numero dei prigionieri presenti, per cui malgrado le cucine fossero in funzione giorno e notte ininterrottamente, non riuscivano a soddisfare le esigenze della enorme massa degli internati. Le preoccupazioni alimentari però finirono con il trasferimento ad Oranki dove si mangiava discretamente. Del D'Onofrio ha detto che egli non propagandò mai idee comuniste ma soltanto antifasciste.
Il teste ha poi ricordato che prima di rimpatriare, ad Odessa, alcuni prigionieri presero l'iniziativa di scrivere una lettera di ringraziamento al popolo sovietico per il trattamento usato ai prigionieri e soltanto pochi ufficiali si rifiutarono di sottoscrivere.
A questo punto l'imputato Emett si è alzato e, chiesta la parola al Tribunale, ha voluto chiarire che egli fu uno di quelli che si rifiutarono di firmare la dichiarazione di ringraziamento.
Emett: 'Ritenevo che cosi facendo mi sarei acquistato il disprezzo di tutte le madri italiane. Per questo rifiuto, io e numerosi altri, fummo trattenuti ancora per qualche tempo in Russia. Il signor Serio quando eravamo ad Oranki mi vendette, per tre razioni di pane, una gavetta tedesca. Per poco non finii in galera perché il Serio la gavetta l’aveva rubata ad un prigioniero tedesco'.
Serio: 'È falso, lo in quel periodo ero nel lazzaretto'.
Ultimo teste, il ten. Nando Bellotti, il quale ha narrato delle epidemie che scoppiarono nei campi. Una infermiera russa, che aveva il fratello morto sul fronte italiano, donò il proprio sangue per la vita di un nostro prigioniero. Di D'Onofrio ha ricordato l'opera benefica svolta a favore dei prigionieri ed ha aggiunto che il ten. Ioli si meravigliò moltissimo quando seppe che era un operaio e affermò che se tutti i fuorusciti italiani fossero stati come il D'Onofrio, i prigionieri in Russia sarebbero stati molto meglio. Quanto alla tolleranza religiosa dei sovietici il teste ha affermato che era tale che le autorità russe consentirono in occasione della Pasqua del 1943 che il cappellano Aleggiani celebrasse una messa. I russi stessi procurarono gli arredi sacri e le ostie per la comunione dei prigionieri.
Avv. Mastino Del Rio: 'Il cappellano Aleggiani ha fatto ritorno in Patria?'.
Bellotti: 'Non mi risulta'.
Presidente: 'Il teste ebbe un incidente al ritorno in Italia?'.
Bellotti: 'Sì. Io ed altri colleghi fummo aggrediti alla frontiera italiana da alcuni ufficiali i quali volevano che sottoscrivessimo una dichiarazione ma che ci rifiutammo di firmare perché conteneva tutte menzogne. Ecco perché fummo aggrediti e bastonati'.
Avv. Taddei: 'Quanti furono coloro che il teste definisce 'aggressori'?'.
Bellotti: 'Una ventina'.
Avv. Taddei: 'E gli aggrediti?...'.
Bellotti: 'Più di cinquecento...'.
Con la risposta del teste Bellotti, che ha suscitato uno scoppio fragoroso di ilarità, si è concluso l'esame testimoniale e l'udienza è stata rinviata al giorno 7 luglio per ragioni di procedura.
LA VENTUNESIMA UDIENZA.
8 luglio 1949. - Certamente il sen. D'Onofrio non s'aspettava che proprio uno dei testi indotti dalla Parte Civile gli giuocasse un così brutto tiro. Eppure è stato così. Il ten. col. Guido Zingales, uno dei reduci che avrebbe dovuto presentarsi al tribunale a sostegno delle affermazioni del querelante, non solo non si è mai presentato a deporre, ma ora si è saputo che ha rilasciato una dichiarazione oltremodo interessante che suona tutt’altro che gradita alle orecchie del signor D'Onofrio. Nella dichiarazione, il tenente colonnello, dopo aver ricordato che, prigioniero nel campo di Oranki, vide arrivare il D'Onofrio accompagnato da un maggiore russo che dicevano essere della N.K.V.D. e che si faceva chiamare Orloff, racconta:
Zingales: 'Fui uno dei primi ad essere interrogato. Il colloquio, come veniva chiamato, durò circa una mezz’ora. Mi fu chiesto, fra l'altro, quali erano le mie idee politiche e che cosa ne pensavo della guerra. Non mi furono fatte minacce, ma non posso escludere che ne fossero fatte agli altri, e ciò per diversi motivi. Le minacce erano purtroppo all'ordine del giorno, sia da parte dei russi sia da parte dei commissari politici. Ho assistito a minacce fatte in pubblico dal commissario Fiammenghi durante le sue conferenze ai ten. Resinato e Ioli, tuttora detenuti in Russia. In seguito ne vennero fatte collettivamente a tutti gli ufficiali, specie ad opera di certi Robotti e Ossola.
Particolare sensazione causarono nel campo gli interrogatori dei ten. Reginato e Ioli per la loro durata e per la loro frequenza. Il cap. Magnani e il ten. Ioli furono allontanati dal campo di Oranki (dove il Magnani era frattanto rientrato) subito dopo la partenza di D'Onofrio: era opinione generale dei prigionieri che tale allontanamento fosse opera del D'Onofrio'.
Zingales: 'Cito un solo caso per tutti: l'uccisione di un tenente (di cui sventuratamente non ricordo il nome) ad opera di una sentinella russa nel 1943 (e cioè quando già da un po’ ci eravamo sistemati nei campi di concentramento). Il tenente, tornando dal lavoro, nonostante l'ordine della sentinella, si era chinato, spinto dalla fame, a raccogliere una piantina di cicoria che cresceva sull'orlo del sentiero!
Devo infine dire, per quanto riguarda i metodi russi di propaganda che essi non rifuggivano neppure dal falso. Cito un fatto personale: al mio rientro in Patria ho appreso di aver parlato più volte alla radio, cosa che mi sono sempre guardato dal fare e che, del resto, non mi venne neanche proposta. Mi rifiutai anche di inviare i miei saluti alla famiglia quando appositi incaricati nel Natale 1945 vennero per fare incidere dai prigionieri dei dischi di saluti che avrebbero dovuto essere trasmessi da Radio Mosca'.
Alla ripresa del processo, malgrado gli undici giorni di sospensione, l'interesse non è minimamente attenuato, anzi si potrebbe dire accresciuto con l'approssimarsi della sentenza del Tribunale. Lo spazio riservato al pubblico è letteralmente gremito di reduci, di donne, forse madri, forse spose di chi non è più tornato. Su molte persone, fra il pubblico, si vedono i nastrini azzurri delle decorazioni.
Il torneo oratorio che conclude l'importante processo è cominciato alle 9,30 con una lunghissima arringa del primo avvocato di Parte Civile, l'avv. Mario Paone, il quale ha parlato, con grande enfasi e calore, per ben quattro ore (e ne avrà ancora per un paio d'ore dell’udienza di domani) sottolineando le proprie affermazioni con violenti pugni sul tavolo, rosso in viso e sudato per la fatica oratoria.
Avv. Paone: 'Intorno a questa causa è fiorita tutta una letteratura che impegna la civiltà occidentale contro quella orientale, una letteratura che impegna i valori dello spirito contro quelli della materia. Ma trovo molto strano che molti giornali abbiano pubblicato che gli emigrati politici italiani in Russia influirono sulla condotta della guerra. Cosa c’entra la Russia Sovietica, cosa c'entrano i comunisti italiani in Russia con la disfatta dell'ARMIR?
La guerra dell'ARMIR nella sacca del Don era finita. È inutile discutere su questo. Gli emigrati italiani nulla poterono fare mentre un maresciallo d'Italia di ritorno in Patria inasprì la polemica. Ma, signori, qui non è messo in ballo l'onore d'Italia, ma solo la preparazione con cui il defunto regime mandò a combattere i soldati in Russia'.
L'avv. Paone ha preso l'argomento molto alla lontana. Dopo aver parlato a lungo della tradizione italiana del Risorgimento, ha toccato questioni politiche, ha sfiorato problemi filosofici, rievocato le grandi figure militari della Roma repubblicana, accennato alle condizioni italiane prima e durante il fascismo. Ha ricordato la funzione nel mondo della Russia Sovietica, ha parlato di Mussolini, di Hitler, di Franco, della Spagna falangista, della campagna razziale, del contributo dell’Unione Sovietica alla affermazione dei valori fondamentali della libertà umana. Ha affermato che gli ordinamenti politico-giuridici internazionali sono infelici ed ingiusti. Ma ciò non dispensava evidentemente il governo bolscevico dall’usare un trattamento umano verso i prigionieri di guerra.
Avv. Paone: 'Qui si è tentato di fare una speculazione politica: tutto il resto non è che diffamazione o meglio calunnia. Edoardo D'Onofrio si presenta dinanzi a voi, o giudici del popolo, sotto l'usbergo della sua tranquilla coscienza, a rivendicare l’opera da lui svolta quale esule politico nei campi di concentramento sovietici a favore dei suoi connazionali prigionieri'.
Due ore precise è durato il preambolo dell’oratore e ben meritato è stato il breve riposo che si è concesso prima di affrontare il vivo della questione. Quando ha ripreso a parlare, il patrono della Parte Civile, ha detto che la guerra alla Russia non si sarebbe fatta se questi militari (e puntava un dito accusatore sugli imputati) fossero andati a raccontare a Mussolini le condizioni di impreparazione del nostro esercito, se gli fossero andati a dire che gli italiani non volevano andare a combattere contro la Russia. Ma non spiega perché non ci sia andato lui! Doveva o no, il senatore D'Onofrio sporgere querela contro i suoi diffamatori? L'oratore scioglie subito il suo dilemma affermando che quando si lede l'onore di un uomo che è stato l'apostolo della classe operaia romana, allora egli non solo ha il diritto, ma il dovere di difendersi!
Chiedere che cosa D’Onofrio abbia fatto in Russia significa offendere tutti gli emigrati italiani da Nitti a Sforza. L’avv. Paone dimentica che la statura morale di costoro è però ben diversa da quella del suo patrocinato. Ed eccoci finalmente all’esame del materiale diffamatorio.
Avv. Paone: 'Le accuse rivolte al senatore comunista hanno offeso tutto il movimento della resistenza e del resto le risultanze processuali autorizzano ad affermare che le accuse non hanno trovato il benché minimo conforto della prova. S’è detto che D’Onofrio avrebbe interrogato i prigionieri mentre il magg. Orloff avrebbe messo a verbale le risposte fornite dagli interrogati. E s'è detto che il magg. Orloff appartenesse alla polizia segreta sovietica. Ma nessuna dimostrazione è stata data di ciò. I querelati sostengono questo, ma noi lo neghiamo e voi, signori giudici, dovete stabilirlo perché vi abbiamo concesso la più ampia facoltà di prova.
Il magg. Orloff aveva soggiornato in Italia prima della guerra e scriveva sul settimanale 'L'Alba' quando ancora D'Onofrio non era comparso nei campi di concentramento. I suoi articoli erano tutti ispirati alla maggiore tolleranza verso gli stessi ufficiali fascisti che egli divideva in tre grandi categorie: quelli che nel fascismo avevano coltivato i loro interessi, quelli che vi avevano aderito in buona fede, e gli incerti verso i quali rivolgeva in modo particolare la sua opera di persuasione.
Quindi, mai accuse furono più false, perché, fra l'altro, il magg. Orloff, che era un semplice ufficiale di amministrazione, compiva nei campi 'solo inchieste a scopo culturale'.
Ormai l'avv. Paone si è addentrato nella difesa della Russia e non può fare a meno di scagionare l'Unione Sovietica anche dalla accusa di intolleranza religiosa. E lo fa sulla scorta di un libro scritto dal gen. Nobile, uno dei tanti volumi che ingombrano, a pile, il tavolo inondato di appunti dell’avvocato.
Avv. Paone: 'I testimoni in questo processo hanno dichiarato che nei campi di concentramento non veniva permessa la celebrazione della messa. Hanno mentito. Il gen. Nobile, quando era ancora colonnello, scrisse pagine in cui illustrò il sentimento religioso del popolo russo. Dunque, non è vero che in Russia sia proibito il culto esterno ed è facile argomentare che se i cappellani militari italiani non celebrarono mai la messa nei campi di concentramento non fu perché fosse loro proibito, ma con il segreto scopo di poter un giorno gridare allo scandalo perché in Russia non sono concesse manifestazioni di culto esterno, e ancora, se gli imputati mentono su questa circostanza, è lecito supporre che altrettanto facciano quando dichiarano che gli italiani in Russia si mangiavano l'uno con l'altro. Perché questo masochismo nazionale unicamente per poter criticare le autorità russe?'.
Le mappe dello CSIR e dell'ARMIR 13
Le mappe delle operazioni del CSIR e dell'ARMIR dal giugno 1941 all'ottobre 1942 - L'offensiva sovietica del primo inverno (1941-42).
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