L'8 Armata italiana nella seconda battaglia difensiva del Don (11 dicembre 1942 - 31 gennaio 1943), prima parte.
PREMESSA.
Con la compilazione di questo lavoro l'Ufficio Storico ha inteso dare una sintetica visione panoramica delle tormentose vicende dell'8a Armala italiana nella seconda battaglia difensiva del Don e del ripiegamento che ne seguì. La documentazione alla quale ha potuto attingere non è completa e mancano integralmente le fonti straniere: russa, tedesca, romena, ungherese. L'Ufficio ha dato forma ordinata alle notizie che ha potuto raccogliere e vagliare a tutt'oggi in relazioni e rapporti vari di autorità e di singoli ufficiali che hanno vissuto il secondo inverno in Russia; notizie che nel loro complesso hanno per il momento consentito - limitatamente alla battaglia del Don - la messa a punto di una narrazione organica degli avvenimenti che costituisce apporto di precisazione e di chiarificazione. E' da rilevare inoltre che le fonti consultate essendo in data anteriore al 25 luglio sono da considerarsi piuttosto attenuate nella esposizione dei fatti rispetto cruda realtà. Nel quadro generale della battaglia che è stato tracciato trovano il loro posto tutti gli amari racconti ed i diari accorati dei reduci del Don: vi trovan posto, a volte, integralmente, più spesso, corretti da inevitabili deformazioni conseguenti dalla visione vicina e dall'amarezza per le vicissitudini subite.
L'Ufficio si è particolarmente soffermato sul comportamento dei tedeschi nel campo strettamente operativo durante la battaglia di rottura e sul mancato cameratismo, pur tanto doveroso, durante la crisi del ripiegamento. Nelle operazioni del dicembre 1942 - gennaio 1943, nella desolata, sterminata steppa, i germanici hanno anticipato quella linea di condotta che dovevano poi su più vasta scala tenere nel nostro territorio nazionale durante l'occupazione esasperandola, in funzione delle proprie esclusive esigenze operative e logistiche, con quelle ripercussioni, anche nel campo delle nostre perdite, che si possono agevolmente immaginare.
Sull'entità delle perdite stesse vengono forniti tutti i dati relativi alle singole unità che è stato possibile raccogliere. Esse assommano, nel periodo dicembre 1942 - 20 marzo 1943, tra caduti, dispersi e prigionieri, a ben 84.830, e tra feriti e congelati a 29.690. Ammontare questo pari, complessivamente, al 60% della consistenza organica dell'Armata all'inizio della battaglia in ufficiali, ed al 49,7% in uomini di truppa.
Dal 2011 camminiamo in Russia e ci regaliamo emozioni
Trekking ed escursioni in Russia sui campi di battaglia della Seconda Guerra Mondiale
Danilo Dolcini - Phone 349.6472823 - Email danilo.dolcini@gmail.com - FB Un italiano in Russia
mercoledì 30 dicembre 2020
L'ARMIR nella II battaglia del Don, premessa
Come promesso inizio a pubblicare il contenuto del documento storico "L'8 Armata italiana nella seconda battaglia difensiva del Don (11 dicembre 1942 - 31 gennaio 1943)" con una mia premessa.
E come immaginavo il documento non può e non poteva contenere che informazioni già note ai più, in quanto emesso proprio a distanza di pochi anni dai fatti; lo pubblico perché a prescindere lo trovo di alto interesse storico, ma nel contempo consiglio a chiunque volesse davvero approfondire questi temi dal punto di vista strettamente militare ed operativo, di acquistare il secondo volume indicato, sempre emesso dallo Stato Maggiore dell'Esercito - Ufficio Storico dal titolo "Le operazioni delle unità italiane al fronte russo (1941-1943) che è la logica continuazione del primo volume.
E come immaginavo il documento non può e non poteva contenere che informazioni già note ai più, in quanto emesso proprio a distanza di pochi anni dai fatti; lo pubblico perché a prescindere lo trovo di alto interesse storico, ma nel contempo consiglio a chiunque volesse davvero approfondire questi temi dal punto di vista strettamente militare ed operativo, di acquistare il secondo volume indicato, sempre emesso dallo Stato Maggiore dell'Esercito - Ufficio Storico dal titolo "Le operazioni delle unità italiane al fronte russo (1941-1943) che è la logica continuazione del primo volume.
martedì 29 dicembre 2020
Relazione del Tenente Boldoni, parte 4
Relazione sui Carabinieri della Divisione Torino del Generale Attilio Boldoni nel 1942 Sottotenente Comandante della 66a Sezione Carabinieri sul fronte russo, quarta ed ultima parte.
L'ASSEDIO DI TSCHERKOWO.
Alle ore 24 del giorno di Natale finalmente Tscherkowo. I superstiti vi arrivano sgranati durante 24, 30 ore. Si sentono quasi a casa. Illusione di riposare e di quietare la sete e la fame!! Si cerca affannosamente un tetto per dormire e si cade in un sonno profondo. Passano le ore, passa quasi un giorno. Ci si risveglia credendo di essere ormai in salvo. Invece il cannone tuona. Sono ancora una volta circondati. Ma una delle tante Marie amorosamente li aiuta a lavarsi, offre quello che ha: una misera patata, la sua compassione e tutta la sua sopportazione. Forse ha un figlio o il marito lontano... Il nemico ha nuovamente circondato la Torino e con essa tedeschi e italiani. Si riordinano i reparti: il comandante della divisione, generale Lerici, assume il comando del caposaldo. Il Ten. Col. Manari con i suoi bersaglieri, reparti della milizia, reparti della Ravenna, con il generale Capizzi, della Pasubio e della Celere sono già in loco.
I carabinieri fanno l'appello e si riordinano. Sono presenti: 13 della 56a sezione; 12 della 66a sezione. Con i militari di altre due sezioni viene costituita la 66a sezione di formazione. Il comandante della 66a ne assume il comando anche se ferito, malato e congelato. Il comandante della 56a, sottotenente Mantineo, è già prigioniero, malato e prostrato dalle fatiche. Vice comandante il maresciallo maggiore Carlo Grossi e addetto il brigadiere Ugo Canevari. Il comandante dei carabinieri, capitano Enrico Pazzi, viene colpito da febbre dissenterica. Il suo stato è grave... I superstiti si sistemano al secondo piano di un grosso caseggiato di mattoni. Al piano terra il generale Capizzi della Ravenna con il suo stato maggiore. Di fronte un deposito di acqua, alto e dominante la zona. I russi ritengono che sia un osservatorio e sparano incessantemente su di esso. I colpi non arrivano a segno e cadono sul tetto dove sono i carabinieri. Il tetto resisterà meravigliosamente. I mattoni si dimostrano efficacissimi, ci si sente in una fortezza! Per terra paglia...
Il vitto: una galletta e mezza scatoletta. Quando c'è molto, talvolta anche carne fresca; quella dei muli e dei cavalli colpiti dai mortai. Si scambiano i viveri: un pezzo di mulo con del riso. Si fanno bollire le maglie, e le camicie per salvarsi dai pidocchi, inutile! Il giorno dopo lo stesso tormento... Si spara di notte per le strade. I russi si infiltrano. I carabinieri vigilano. Sparano e reagiscono come possono. Sono un po' dovunque. Funzionano da portaordini, di notte e di giorno, nel freddo e nel gelo. Spicca fra tutti il portaordini del comandante della divisione, carabiniere Vittorio Gemignani. Digiuno, congelato, non chiede nulla, si impegna, esegue gli ordini: è sempre al suo posto. Ha gli avampiedi amputati ed una medaglia di argento sul petto...
Il 27 dicembre muore per le ferite riportate il carabiniere Arturo Aquino. E ancora, il 2 gennaio, passa uno slittino tirato da un cavallo. Sono sopra il comandante della 66a e due sottufficiali. Il generale Lerici trema, forse per la prima volta. Attaccano i magazzini viveri, unica speranza per sopravvivere. Sono russi? No! Sono italiani affamati! Lo slittino sguscia veloce per le strade ghiacciate, colpi sferzanti di mortaio tagliano, uccidono, seminano morte. Un cranio scoperchiato di netto senza una goccia di sangue. Penoso servizio. Si cerca di continuare a resistere, si reagisce. Si spara da una parte e dall'altra. I russi bombardano. Si sono accorti che qualche cosa non va. Ma poi la ragione ha il sopravvento. Si può continuare a resistere. Il generale Lerici è contento...
Passano i giorni, sempre lo stesso ritmo di bombardamenti e di speranza. Un aereo arriva, riparte con i feriti, tra i quali il capitano Blundo dei carabinieri, ritorna e poi sparisce nel nulla. I corazzati tedeschi sono vicini, avanzano, domani arrivano e poi... Più nessuna speranza, occorre uscire di forza da soli. Il generale Lerici tiene rapporto agli ufficiali per annunciare che i panzer non arrivano. Tutti gli ufficiali sono attenti alle sue parole sempre pronunciate con garbo, con arguzia, con quella sua innata signorilità, con quel fascino di comandante di altri tempi. Poi, all'improvviso, uno schianto, un sibilo e un crollo. Un colpo anticarro ha attraversato la stanza sulle teste di tutti ed è scoppiato all'esterno senza danni.
Quintilio Bargagni, carabiniere, - ordinanza del comandante della 66a sezione - che in quei giorni aveva perso un fratello pure carabiniere, promosso sul campo appuntato per il suo valore, ha rinunciato a vivere. Vuole riposare nel cosiddetto «ospedale» di Tscherkowo. L'ufficiale lo sollecita, lo scuote, lo prega di seguirlo. Non vuole più soffrire e si avvia lentamente con gli altri feriti. Guarda con commozione il suo comandante che ha seguito con devozione ed affetto; la sua bocca si apre, vuole parlare, si scusa, prega e grida ancora qualcosa. Le sue parole si perdono tra il sibilo del vento: «Mia madre, i miei fratelli, la patria, la pace e Iddio...».
SORTITA DA TSCHERKOWO. MARCIA VERSO LA SALVEZZA.
Si radunano quelli che possono camminare. I superstiti dovranno tutti giungere nelle linee italiane, questo è l'impegno del comandante. È notte, sono le 20 del 15 gennaio. Un gruppo di uomini silenziosi è riunito. Si porta quello che si può: armi individuali, qualche mitra russo, bombe a mano, qualche galletta, il proprio onore... Dietro, la piccola slitta. Su di essa: il capitano Fazzi gravemente malato; l'appuntato Nazzareno Palmieri, ferito da schegge e congelato; un altro ferito. A piedi, guida la slitta il comandante della 66a sezione, con una mano il quadrupede e con l'altra alla pistola per imporre la sua volontà ai superstiti: tutti devono camminare e sperare nella salvezza! Sono pronti ad uscire: 1.600 della Torino; 2.000 della Pasubio; 400 della Ravenna e della Celere; 500 della difesa di Tscherkowo.
Il silenzio viene rotto improvvisamente dal fuoco concentrato e simultaneo degli ultimi 4 semoventi tedeschi, dei pochi pezzi di artiglieria e delle armi automatiche. E diventato giorno, tutto è assordante e nello stesso tempo celestiale. È il fuoco imposto dai disperati difensori ai russi che, sbigottiti e sorpresi dall'azione cedono di schianto. È una fiumana di uomini che corre; sembra che essi abbiano ritrovato le loro forze; poi il silenzio e solo scalpitio dei passi e qualche grido di gioia o di disperazione. Dopo circa 40 chilometri, alle 11, i russi attaccano con violentissimi tiri di mortaio, di katiuscie e d'artiglieria. Con i carri tagliano la coda, il centro e la testa della colonna. Le narici del mulo dei carabinieri vengono trapassate da un colpo mitra. Il nobile animale, però, resiste per morire più tardi, sulla neve bianca, dopo aver compiuto il suo dovere. Si transita per Yeshatschyn, paese in fiamme.
Gli scoppi delle granate, delle katiuscie e delle artiglierie creano uno spettacolo apocalittico. Si giunge a Losowaja all'alba del 16 e si prosegue per Beresowo dove c'è un primo scontro diretto con i carri. Si devia per Petrovskj dove le forze corazzate avversarie sono più numerose e si fanno più baldanzose, avvicinandosi sensibilmente alle colonne e provocando sensibili perdite. I controcarri tedeschi fanno quello che possono. Poi, finalmente, il ricamo degli stukas. A quota 114 di Strezolwka si ha un tempo di arresto: quindi di nuovo in marcia. I superstiti salutano due aerei che passano: sono stukas? No, è di nuovo morte e dolore. Chi può si butta tra le fiamme delle isbe e si rialza dopo aver udito l'ultimo interminabile sgranare delle mitragliere dei due super Rata. La neve ha una striscia, rossa di sangue, per 2, 3 chilometri. È uno spettacolo orrendo.
Ancora di nuovo mortai e colpi di artiglieria. Da lontano, infine, le linee amiche. Si sta per giungere. Arriva invece un colpo di katiuscia che prende in pieno la colonna. Un puzzo dolciastro: è carne umana che brucia... Braccia tese verso la vita. La salvezza ed invece di nuovo la morte. I russi hanno cosi salutato gli italiani! Il comandante della 66a, con la pistola in pugno, grida, incita e minaccia e i sopravvissuti di Tscherkowo sono finalmente al sicuro, il merito è in gran parte suo. Sulla slitta c'è ancora segno di vita. Arrivano a Belowodsk i carabinieri superstiti. L'ufficiale è lieto di aver adempiuto il suo dovere. Il mulo crolla e muore e anche lui merita di essere ricordato. Si prosegue sino a Starobelsk e qui si dividono i feriti per i vari ospedali.
La Torino si scioglie e con essa la 66a sezione di formazione. Pochi i superstiti, tutti feriti, congelati o malati. Un saluto, un abbraccio e un addio. Il comandante della 66a è solo! Prosegue a piedi verso Karkov in cerca di quello che non trova: un ordine, un letto, un pezzo di pane. E con questi pensieri cammina anch'egli meditando su quello che sembra storia e leggenda, certo di aver vissuto un'epopea nella quale i carabinieri hanno scritto con il loro sangue uno dei capitoli più belli.
VERSO KARKOV.
Solo, con i suoi ricordi e con il suo dolore, dopo giorni e giorni di duri combattimenti, senza cibo e senza acqua ancora una volta non vuole arrendersi al destino avverso. Decide di proseguire verso nord-ovest in direzione di Karkov ove spera di ricongiungersi al comando dell'8a Armata per essere utile ancora e riorganizzare un altro reparto. Sono sentimenti che animano la giovinezza di quel tempo passato. I dolori alla gamba ormai rigida, il gonfiore opprimente dei piedi e le fitte non contano. Si può continuare a camminare ai bordi della strada tra il fango e la neve. Passano veloci gli autocarri stracarichi di soldati tedeschi e di feriti italiani. Nessuno si accorge di lui che si trascina nel freddo intenso, nel vento tagliente coi suoi baffi di ghiaccio. Sembra quasi un «tricheco» e puzza anch'egli d pesce ormai per le aringhe mangiate che rappresentavano l'unico raro pasto.
Poi incontra due ufficiali della Torino: il capitano Cesare Pavoni ed il capitano Federico Punzo entrambi del comando della divisione esistente ormai solo nel ricordo. E con essi procede a fatica, a sbalzi, lentamente o a bordo degli autocarri stracarichi per tratti. Poi finalmente si mangia. Un pollo intero, solo spennato, e del burro, una tazza di verde tè preparati da una delle tante buone contadine. Sulla lunga ed interminabile arteria che porta al centro di Karkov appare una città tetra, grandi palazzi di marmo scuro o cemento, vuoto e distruzione... Ancora 12 chilometri per arrivare al centro. In lontananza si accentuano i colpi in arrivo. Sono i russi che premono sulle truppe tedesche e sui valorosi alpini che svolgono in modo mirabile la loro manovra ritardatrice.
Si cerca di mangiare: solo qualche pasta dolce a caro prezzo. Si spendono gli ultimi rubli. E poi un pasto ad una mensa che sta per sgomberare e la ricerca di un posto in treno verso Gomel per raggiungere le retrovie. Si dorme vestiti in un grande palazzo vicino alla stazione. Trascorrono tre giorni e poi nell'aprire gli occhi, mentre è ancora seduto sul giaciglio rappresentato da una poltrona, con la mano sulla pistola si accorge che 4, 5 persone sono curve su di lui. È un attimo: comprende che stanno decidendo la sua fine. Oramai i russi sono in arrivo già verso il centro della città. Si odono cannonate e lo sgranare delle armi automatiche. Nella casa nessuna traccia dei due compagni di ritirata. Non li rivedrà più.
In un attimo decide la sua sorte. Si alza, non ha esitazione, muove prima lentamente le gambe, non batte ciglio, imbocca l'uscita mentre tutti lo guardano quasi impauriti dal fantasma che si erge. Prende le scale ed a razzo discende. Ancora una volta è salvo, ma con il cuore in gola. Cammina ancora in cerca di altri reparti e poi finalmente incontra alcuni autocarri di commilitoni. Sente la vita tornare. Li saluta e raggiunge finalmente l'ospedale che in quel momento stava sgomberando: è il 23 gennaio 1943. Accolto affettuosamente viene subito trasportato con centinaia di feriti sull'ultimo treno ospedale in partenza per la Polonia.
In effetti erano circa 20 carri piatti con un po' di paglia pieni di morti, che venivano scaricati ogni volta che si effettuava una sosta; è un tragico carico di uomini che continuava a soffrire per il freddo intensissimo, senza cure e senza mangiare. Ogni tanto una sosta, qualche piatto di miglio, grida di dolore. Si scaricano i morti; poi finalmente la Polonia ed un ospedale accogliente.
RIENTRO IN ITALIA.
Lentamente, a fatica, arriva a Leopoli il lungo treno carico di dolore, di speranze e di ricordi. Una rapida visita, una doccia calda ristoratrice sulla pelle martoriata dai pidocchi e finalmente in un letto tra le lenzuola. Dorme di schianto ed al mattino stenta a ritrovarsi, crede di essere chissà dove, sente ancora giungere al suo orecchio i colpi di Arbusow e Tscherkowo. Sta per arrivare il treno dell'Ordine di Malta. ln serata si parte per l'Italia. Si alza, scende nella neve per riprendere la divisa uscita dall'autoclave e non la trova. Per tanti e tanti giorni indossata cara e onorata divisa, con i suoi alamari e con i suoi gradi anch'essa nel nulla! Arrivare in Italia in camicia non era possibile. Prende la prima uniforme e poi gli adattamenti per gli alamari ed i gradi. Al fianco la vecchia e gloriosa pistola, quella che gli era servita anche per il giuramento alla Scuola Centrale di Firenze. Ai piedi ancora i valenchi con il buco provocato dalla scheggia di mortaio.
Il 5 febbraio finalmente in Italia ed al mattino a Trento. Salgono sorelle della CRI. Chiede di avvertire la famiglia che da oltre tre mesi attende qualche notizia. E a Chiavari, nel tepore primaverile, termina questa terribile esperienza di guerra. Potremmo fare qualche commento su quello che era accaduto, su ciò che si poteva fare per evitare tanta tragedia. Ce ne asteniamo e preferiamo lasciarlo al lettore. Quasi tutte le bandiere dei reparti che avevano combattuto sul fronte russo furono decorate. A quella dell'Arma mancò il riconoscimento per il valore dei suoi eroici carabinieri. Solo e per tanti anni il silenzio, quasi assoluto, quello di Russia, rotto dallo scricchiolare del ghiaccio pestato da fantasmi che si addormentarono dolcemente sulla neve. Fischia il vento gelido ed il sibilo si alterna, quasi metallico, con i passi sul terreno ormai marmo. Suona lenta una campana, piccola, argentea, ripete i suoi rintocchi, richiama gli spiriti dei carabinieri caduti rimasti per tanti anni lontani dalla Patria, attraversa con i suoi rintocchi monti, valli, pianure, fiumi, quei «placidi fiumi», ed innalza verso il cielo una canzone di amore e di pace.
Resta solo sulla parete della cappella della Legione di Bolzano una campana ed una lapide che ricorda l'eroismo di mille Carabinieri: «NEL QUARANTENNALE DEI FATTI D'ARME I CARABINIERI AFFIDANO A QUESTO MARMO IMPERITURO IL RICORDO DEI COMMILITONI Dl OGNI GRADO CHE, SUL LONTANO FRONTE RUSSO, COMPIRONO IL LORO DOVERE FINO AL SACRIFICIO SUPREMO» 1942 -1982.
Sottotenente Attilio Boldoni, Comandante della 66a Sezione Carabinieri.
L'ASSEDIO DI TSCHERKOWO.
Alle ore 24 del giorno di Natale finalmente Tscherkowo. I superstiti vi arrivano sgranati durante 24, 30 ore. Si sentono quasi a casa. Illusione di riposare e di quietare la sete e la fame!! Si cerca affannosamente un tetto per dormire e si cade in un sonno profondo. Passano le ore, passa quasi un giorno. Ci si risveglia credendo di essere ormai in salvo. Invece il cannone tuona. Sono ancora una volta circondati. Ma una delle tante Marie amorosamente li aiuta a lavarsi, offre quello che ha: una misera patata, la sua compassione e tutta la sua sopportazione. Forse ha un figlio o il marito lontano... Il nemico ha nuovamente circondato la Torino e con essa tedeschi e italiani. Si riordinano i reparti: il comandante della divisione, generale Lerici, assume il comando del caposaldo. Il Ten. Col. Manari con i suoi bersaglieri, reparti della milizia, reparti della Ravenna, con il generale Capizzi, della Pasubio e della Celere sono già in loco.
I carabinieri fanno l'appello e si riordinano. Sono presenti: 13 della 56a sezione; 12 della 66a sezione. Con i militari di altre due sezioni viene costituita la 66a sezione di formazione. Il comandante della 66a ne assume il comando anche se ferito, malato e congelato. Il comandante della 56a, sottotenente Mantineo, è già prigioniero, malato e prostrato dalle fatiche. Vice comandante il maresciallo maggiore Carlo Grossi e addetto il brigadiere Ugo Canevari. Il comandante dei carabinieri, capitano Enrico Pazzi, viene colpito da febbre dissenterica. Il suo stato è grave... I superstiti si sistemano al secondo piano di un grosso caseggiato di mattoni. Al piano terra il generale Capizzi della Ravenna con il suo stato maggiore. Di fronte un deposito di acqua, alto e dominante la zona. I russi ritengono che sia un osservatorio e sparano incessantemente su di esso. I colpi non arrivano a segno e cadono sul tetto dove sono i carabinieri. Il tetto resisterà meravigliosamente. I mattoni si dimostrano efficacissimi, ci si sente in una fortezza! Per terra paglia...
Il vitto: una galletta e mezza scatoletta. Quando c'è molto, talvolta anche carne fresca; quella dei muli e dei cavalli colpiti dai mortai. Si scambiano i viveri: un pezzo di mulo con del riso. Si fanno bollire le maglie, e le camicie per salvarsi dai pidocchi, inutile! Il giorno dopo lo stesso tormento... Si spara di notte per le strade. I russi si infiltrano. I carabinieri vigilano. Sparano e reagiscono come possono. Sono un po' dovunque. Funzionano da portaordini, di notte e di giorno, nel freddo e nel gelo. Spicca fra tutti il portaordini del comandante della divisione, carabiniere Vittorio Gemignani. Digiuno, congelato, non chiede nulla, si impegna, esegue gli ordini: è sempre al suo posto. Ha gli avampiedi amputati ed una medaglia di argento sul petto...
Il 27 dicembre muore per le ferite riportate il carabiniere Arturo Aquino. E ancora, il 2 gennaio, passa uno slittino tirato da un cavallo. Sono sopra il comandante della 66a e due sottufficiali. Il generale Lerici trema, forse per la prima volta. Attaccano i magazzini viveri, unica speranza per sopravvivere. Sono russi? No! Sono italiani affamati! Lo slittino sguscia veloce per le strade ghiacciate, colpi sferzanti di mortaio tagliano, uccidono, seminano morte. Un cranio scoperchiato di netto senza una goccia di sangue. Penoso servizio. Si cerca di continuare a resistere, si reagisce. Si spara da una parte e dall'altra. I russi bombardano. Si sono accorti che qualche cosa non va. Ma poi la ragione ha il sopravvento. Si può continuare a resistere. Il generale Lerici è contento...
Passano i giorni, sempre lo stesso ritmo di bombardamenti e di speranza. Un aereo arriva, riparte con i feriti, tra i quali il capitano Blundo dei carabinieri, ritorna e poi sparisce nel nulla. I corazzati tedeschi sono vicini, avanzano, domani arrivano e poi... Più nessuna speranza, occorre uscire di forza da soli. Il generale Lerici tiene rapporto agli ufficiali per annunciare che i panzer non arrivano. Tutti gli ufficiali sono attenti alle sue parole sempre pronunciate con garbo, con arguzia, con quella sua innata signorilità, con quel fascino di comandante di altri tempi. Poi, all'improvviso, uno schianto, un sibilo e un crollo. Un colpo anticarro ha attraversato la stanza sulle teste di tutti ed è scoppiato all'esterno senza danni.
Quintilio Bargagni, carabiniere, - ordinanza del comandante della 66a sezione - che in quei giorni aveva perso un fratello pure carabiniere, promosso sul campo appuntato per il suo valore, ha rinunciato a vivere. Vuole riposare nel cosiddetto «ospedale» di Tscherkowo. L'ufficiale lo sollecita, lo scuote, lo prega di seguirlo. Non vuole più soffrire e si avvia lentamente con gli altri feriti. Guarda con commozione il suo comandante che ha seguito con devozione ed affetto; la sua bocca si apre, vuole parlare, si scusa, prega e grida ancora qualcosa. Le sue parole si perdono tra il sibilo del vento: «Mia madre, i miei fratelli, la patria, la pace e Iddio...».
SORTITA DA TSCHERKOWO. MARCIA VERSO LA SALVEZZA.
Si radunano quelli che possono camminare. I superstiti dovranno tutti giungere nelle linee italiane, questo è l'impegno del comandante. È notte, sono le 20 del 15 gennaio. Un gruppo di uomini silenziosi è riunito. Si porta quello che si può: armi individuali, qualche mitra russo, bombe a mano, qualche galletta, il proprio onore... Dietro, la piccola slitta. Su di essa: il capitano Fazzi gravemente malato; l'appuntato Nazzareno Palmieri, ferito da schegge e congelato; un altro ferito. A piedi, guida la slitta il comandante della 66a sezione, con una mano il quadrupede e con l'altra alla pistola per imporre la sua volontà ai superstiti: tutti devono camminare e sperare nella salvezza! Sono pronti ad uscire: 1.600 della Torino; 2.000 della Pasubio; 400 della Ravenna e della Celere; 500 della difesa di Tscherkowo.
Il silenzio viene rotto improvvisamente dal fuoco concentrato e simultaneo degli ultimi 4 semoventi tedeschi, dei pochi pezzi di artiglieria e delle armi automatiche. E diventato giorno, tutto è assordante e nello stesso tempo celestiale. È il fuoco imposto dai disperati difensori ai russi che, sbigottiti e sorpresi dall'azione cedono di schianto. È una fiumana di uomini che corre; sembra che essi abbiano ritrovato le loro forze; poi il silenzio e solo scalpitio dei passi e qualche grido di gioia o di disperazione. Dopo circa 40 chilometri, alle 11, i russi attaccano con violentissimi tiri di mortaio, di katiuscie e d'artiglieria. Con i carri tagliano la coda, il centro e la testa della colonna. Le narici del mulo dei carabinieri vengono trapassate da un colpo mitra. Il nobile animale, però, resiste per morire più tardi, sulla neve bianca, dopo aver compiuto il suo dovere. Si transita per Yeshatschyn, paese in fiamme.
Gli scoppi delle granate, delle katiuscie e delle artiglierie creano uno spettacolo apocalittico. Si giunge a Losowaja all'alba del 16 e si prosegue per Beresowo dove c'è un primo scontro diretto con i carri. Si devia per Petrovskj dove le forze corazzate avversarie sono più numerose e si fanno più baldanzose, avvicinandosi sensibilmente alle colonne e provocando sensibili perdite. I controcarri tedeschi fanno quello che possono. Poi, finalmente, il ricamo degli stukas. A quota 114 di Strezolwka si ha un tempo di arresto: quindi di nuovo in marcia. I superstiti salutano due aerei che passano: sono stukas? No, è di nuovo morte e dolore. Chi può si butta tra le fiamme delle isbe e si rialza dopo aver udito l'ultimo interminabile sgranare delle mitragliere dei due super Rata. La neve ha una striscia, rossa di sangue, per 2, 3 chilometri. È uno spettacolo orrendo.
Ancora di nuovo mortai e colpi di artiglieria. Da lontano, infine, le linee amiche. Si sta per giungere. Arriva invece un colpo di katiuscia che prende in pieno la colonna. Un puzzo dolciastro: è carne umana che brucia... Braccia tese verso la vita. La salvezza ed invece di nuovo la morte. I russi hanno cosi salutato gli italiani! Il comandante della 66a, con la pistola in pugno, grida, incita e minaccia e i sopravvissuti di Tscherkowo sono finalmente al sicuro, il merito è in gran parte suo. Sulla slitta c'è ancora segno di vita. Arrivano a Belowodsk i carabinieri superstiti. L'ufficiale è lieto di aver adempiuto il suo dovere. Il mulo crolla e muore e anche lui merita di essere ricordato. Si prosegue sino a Starobelsk e qui si dividono i feriti per i vari ospedali.
La Torino si scioglie e con essa la 66a sezione di formazione. Pochi i superstiti, tutti feriti, congelati o malati. Un saluto, un abbraccio e un addio. Il comandante della 66a è solo! Prosegue a piedi verso Karkov in cerca di quello che non trova: un ordine, un letto, un pezzo di pane. E con questi pensieri cammina anch'egli meditando su quello che sembra storia e leggenda, certo di aver vissuto un'epopea nella quale i carabinieri hanno scritto con il loro sangue uno dei capitoli più belli.
VERSO KARKOV.
Solo, con i suoi ricordi e con il suo dolore, dopo giorni e giorni di duri combattimenti, senza cibo e senza acqua ancora una volta non vuole arrendersi al destino avverso. Decide di proseguire verso nord-ovest in direzione di Karkov ove spera di ricongiungersi al comando dell'8a Armata per essere utile ancora e riorganizzare un altro reparto. Sono sentimenti che animano la giovinezza di quel tempo passato. I dolori alla gamba ormai rigida, il gonfiore opprimente dei piedi e le fitte non contano. Si può continuare a camminare ai bordi della strada tra il fango e la neve. Passano veloci gli autocarri stracarichi di soldati tedeschi e di feriti italiani. Nessuno si accorge di lui che si trascina nel freddo intenso, nel vento tagliente coi suoi baffi di ghiaccio. Sembra quasi un «tricheco» e puzza anch'egli d pesce ormai per le aringhe mangiate che rappresentavano l'unico raro pasto.
Poi incontra due ufficiali della Torino: il capitano Cesare Pavoni ed il capitano Federico Punzo entrambi del comando della divisione esistente ormai solo nel ricordo. E con essi procede a fatica, a sbalzi, lentamente o a bordo degli autocarri stracarichi per tratti. Poi finalmente si mangia. Un pollo intero, solo spennato, e del burro, una tazza di verde tè preparati da una delle tante buone contadine. Sulla lunga ed interminabile arteria che porta al centro di Karkov appare una città tetra, grandi palazzi di marmo scuro o cemento, vuoto e distruzione... Ancora 12 chilometri per arrivare al centro. In lontananza si accentuano i colpi in arrivo. Sono i russi che premono sulle truppe tedesche e sui valorosi alpini che svolgono in modo mirabile la loro manovra ritardatrice.
Si cerca di mangiare: solo qualche pasta dolce a caro prezzo. Si spendono gli ultimi rubli. E poi un pasto ad una mensa che sta per sgomberare e la ricerca di un posto in treno verso Gomel per raggiungere le retrovie. Si dorme vestiti in un grande palazzo vicino alla stazione. Trascorrono tre giorni e poi nell'aprire gli occhi, mentre è ancora seduto sul giaciglio rappresentato da una poltrona, con la mano sulla pistola si accorge che 4, 5 persone sono curve su di lui. È un attimo: comprende che stanno decidendo la sua fine. Oramai i russi sono in arrivo già verso il centro della città. Si odono cannonate e lo sgranare delle armi automatiche. Nella casa nessuna traccia dei due compagni di ritirata. Non li rivedrà più.
In un attimo decide la sua sorte. Si alza, non ha esitazione, muove prima lentamente le gambe, non batte ciglio, imbocca l'uscita mentre tutti lo guardano quasi impauriti dal fantasma che si erge. Prende le scale ed a razzo discende. Ancora una volta è salvo, ma con il cuore in gola. Cammina ancora in cerca di altri reparti e poi finalmente incontra alcuni autocarri di commilitoni. Sente la vita tornare. Li saluta e raggiunge finalmente l'ospedale che in quel momento stava sgomberando: è il 23 gennaio 1943. Accolto affettuosamente viene subito trasportato con centinaia di feriti sull'ultimo treno ospedale in partenza per la Polonia.
In effetti erano circa 20 carri piatti con un po' di paglia pieni di morti, che venivano scaricati ogni volta che si effettuava una sosta; è un tragico carico di uomini che continuava a soffrire per il freddo intensissimo, senza cure e senza mangiare. Ogni tanto una sosta, qualche piatto di miglio, grida di dolore. Si scaricano i morti; poi finalmente la Polonia ed un ospedale accogliente.
RIENTRO IN ITALIA.
Lentamente, a fatica, arriva a Leopoli il lungo treno carico di dolore, di speranze e di ricordi. Una rapida visita, una doccia calda ristoratrice sulla pelle martoriata dai pidocchi e finalmente in un letto tra le lenzuola. Dorme di schianto ed al mattino stenta a ritrovarsi, crede di essere chissà dove, sente ancora giungere al suo orecchio i colpi di Arbusow e Tscherkowo. Sta per arrivare il treno dell'Ordine di Malta. ln serata si parte per l'Italia. Si alza, scende nella neve per riprendere la divisa uscita dall'autoclave e non la trova. Per tanti e tanti giorni indossata cara e onorata divisa, con i suoi alamari e con i suoi gradi anch'essa nel nulla! Arrivare in Italia in camicia non era possibile. Prende la prima uniforme e poi gli adattamenti per gli alamari ed i gradi. Al fianco la vecchia e gloriosa pistola, quella che gli era servita anche per il giuramento alla Scuola Centrale di Firenze. Ai piedi ancora i valenchi con il buco provocato dalla scheggia di mortaio.
Il 5 febbraio finalmente in Italia ed al mattino a Trento. Salgono sorelle della CRI. Chiede di avvertire la famiglia che da oltre tre mesi attende qualche notizia. E a Chiavari, nel tepore primaverile, termina questa terribile esperienza di guerra. Potremmo fare qualche commento su quello che era accaduto, su ciò che si poteva fare per evitare tanta tragedia. Ce ne asteniamo e preferiamo lasciarlo al lettore. Quasi tutte le bandiere dei reparti che avevano combattuto sul fronte russo furono decorate. A quella dell'Arma mancò il riconoscimento per il valore dei suoi eroici carabinieri. Solo e per tanti anni il silenzio, quasi assoluto, quello di Russia, rotto dallo scricchiolare del ghiaccio pestato da fantasmi che si addormentarono dolcemente sulla neve. Fischia il vento gelido ed il sibilo si alterna, quasi metallico, con i passi sul terreno ormai marmo. Suona lenta una campana, piccola, argentea, ripete i suoi rintocchi, richiama gli spiriti dei carabinieri caduti rimasti per tanti anni lontani dalla Patria, attraversa con i suoi rintocchi monti, valli, pianure, fiumi, quei «placidi fiumi», ed innalza verso il cielo una canzone di amore e di pace.
Resta solo sulla parete della cappella della Legione di Bolzano una campana ed una lapide che ricorda l'eroismo di mille Carabinieri: «NEL QUARANTENNALE DEI FATTI D'ARME I CARABINIERI AFFIDANO A QUESTO MARMO IMPERITURO IL RICORDO DEI COMMILITONI Dl OGNI GRADO CHE, SUL LONTANO FRONTE RUSSO, COMPIRONO IL LORO DOVERE FINO AL SACRIFICIO SUPREMO» 1942 -1982.
Sottotenente Attilio Boldoni, Comandante della 66a Sezione Carabinieri.
lunedì 28 dicembre 2020
Ancora una volta sugli scarponi
Ritorno ancora una volta su un argomento a me caro, quale i famosissimi "scarponi di cartone", e ci ritorno grazie ad un bel post presente su Facebook nella pagina di "Italica Virtus - Rievocazione Storica Regio Esercito Italiano", post che mi è stato permesso condividere. Potete trovare l'originale al seguente link https://www.facebook.com/481641728528766/posts/5577752915584263/; post al quale direi non c'è niente altro da aggiungere, se non ringraziare gli estensori per la chiarezza sul tema.
Oggi vi ri-parliamo di un argomento che dibattiamo da oltre dieci anni. Troppe volte si leggono post, considerazioni, elucubrazioni molto fantasiose su questo argomento ed il fatto che sia una moda tutta italiana quella di denigrare il nostro Esercito lo sappiamo ma, certe bufale che vanno avanti da anni proprio non le sopportiamo più.
Unendo il materiale del nostro archivio con quello di Stefano Spazzini e di Mattia Uboldi (i quali ringraziamo per avercene concesso l’utilizzo) nonché citando le fonti dell’Ufficio Storico dello Stato Maggiore speriamo, una volta per tutte, di aprire certe menti ancora ottenebrate sull’argomento scarponi. Vorremmo inoltre invitare voi che ci seguite, a distinguere le varie fasi della campagna di Russia. Poiché la maggior parte dei problemi si riscontrarono quasi esclusivamente durante la ritirata, quando il fronte cedette e tutta l'organizzazione logistica collassò; non prima.
NASCITA DELLA FAVOLA.
La favola delle scarpe di cartone nasce “ufficialmente” nel secondo dopoguerra, per dipingere il soldato italiano come quello che venne mandato a fare la guerra con materiale scadente quando, in realtà, il suo equipaggiamento era uguale se non superiore a quello degli altri eserciti coinvolti all'inizio del conflitto. Prendendo spunto dalla triste ritirata di Russia, evento raccontato da alcuni romanzetti e qualche film che nulla hanno di storico, la favola venne portata avanti con decisione da una ben nota parte politica italiana (è ora di dire certe cose), all’epoca molto in imbarazzo per i prigionieri italiani ancora trattenuti in Unione Sovietica. Stessa parte politica che era molto preoccupata delle elezioni e dell’opinione pubblica e che trovò dunque molto comodo attaccare l’Esercito e quella sciagurata campagna di guerra per soli scopi politici.
La favola del “cartone” inizia durante la tragica ritirata di Russia, dopo lo sfondamento del fronte, quando il pericolo di congelamento si ripresentò prepotentemente. Essendo costretti a marce forzate lunghe fino a 40 chilometri al giorno in condizioni proibitive e senza possibilità di fruire di logistica adeguata, i soldati cominciarono a subire il deperimento legato alla scarsità di viveri e al gelo. Le stesse dotazioni personali cominciarono a non offrire più una protezione sufficiente (da non fraintendere poiché qui si parla di situazione straordinaria data dal cedimento del fronte).
Caso emblematico fu quello degli scarponi: non potendo essere ingrassati adeguatamente o mandati nelle retrovie per poter essere riparati, in molti casi si indurirono e, quando dopo aver percorso molti chilometri, il proprietario entrava in un’isba e li toglieva per trovare sollievo vicino alla stufa, al momento di rimettersi in marcia non era più in grado di calzarli perché i piedi si erano gonfiati per lo sforzo e perché le calzature non nutrite spesso diventavano tanto rigide da rompersi, come fossero fatte di cartone, sotto lo sforzo esercitato nel tentativo di calzarle nuovamente.
Ecco perché molti, nell’avvicinare i piedi, decisero di non togliersi lo scarpone poiché avrebbe altrimenti significato sofferenza aggiuntiva e la probabile non riuscita del re-inserimento dello stesso. Questo procedimento continuo non giovava sicuramente alla calzatura, perché in quei frangenti, l’ultima cosa che si pensa è ingrassare e aver cura dello scarpone.
La chiodatura, altro elemento di discordia, si rivelò indubbiamente inadatta alle condizioni climatiche invernali russe ma, quello era il sistema adoperato all’epoca da tutti gli eserciti coinvolti nel conflitto. Strabiliante il fatto di come le critiche vengano mosse riferendosi esclusivamente al secondo periodo invernale, 42/43, dimenticandosi del resto dell’anno e dell’inverno precedente (nonché degli altri fronti),dove la chiodatura non diede nessun tipo di problema poiché in condizioni di uso “normale” e quotidiano, dal chiodo non filtrava nessun tipo di umidità all’interno dello scarpone.
Citiamo, per dovere di cronaca, la relazione dei fatti d’arme relativi al Corpo d’Armata Alpino, dal 14 al 31 gennaio 1943 - XXI, redatta dal suo comandante Gen. Gabriele NASCI e pubblicata per intero sul libro “Trans Limes”, pagina 161, di Mattia UBOLDI. Pagina 12; punto 3)
"L’equipaggiamento della truppa non era adatto a lunghi trasferimenti nella stagione invernale, poiché le scarpe bagnate facilitano enormemente i congelamenti ed i soldati, che si portavano parecchi giorni di viveri, molte munizioni, non potevano portare anche le coperte loro necessarie per ripararsi durante la notte". Come si evince dalla stessa relazione di Nasci, non ci sono critiche alla calzatura di per se, ma all’inadeguatezza dell’uso a quelle latitudini, cosa peraltro comune a tutti gli scarponi usati dagli altri Eserciti.
Non va dimenticato che in Italia le medesime non procurarono mai problemi durante le esercitazioni invernali in quota, a parecchie e decine di gradi sotto lo zero e con umidità superiore a quella presente nelle lande sovietiche. L’unico “inconveniente” era costituito proprio dal fatto che richiedevano una certa manutenzione. Gli scarponi chiodati infatti, non solo dovevano essere periodicamente ingrassati - suola compresa - per ammorbidirli/nutrirli e cerarli per l’impermeabilizzazione, ma avevano bisogno anche di saltuarie riparazione e/o sostituzioni, che venivano effettuate di norma dai servizi preposti nelle retrovie. Per questo ogni soldato aveva almeno due paia di scarponi.
Inoltre, in assenza della debita cura, la differenza termica tra le piste calcate e la temperatura corporea portava gli scarponi a inumidirsi tre le cuciture e le giunte della suola logore, ivi compresi i fori della chiodatura, fino ad arrivare alla tomaia. Con temperature che arrivavano anche ai 45 gradi sotto lo zero, quell’umidità, unitamente al sudore, formavano sotto i piedi una vera e propria lastra di ghiaccio. In questo caso non restava che avvolgere gli arti inferiori in pezze di pano rimediate con ogni espediente, una soluzione che certo non garantiva una protezione pari a quella di scarponi ancora perfettamente efficienti.
Oggi vi ri-parliamo di un argomento che dibattiamo da oltre dieci anni. Troppe volte si leggono post, considerazioni, elucubrazioni molto fantasiose su questo argomento ed il fatto che sia una moda tutta italiana quella di denigrare il nostro Esercito lo sappiamo ma, certe bufale che vanno avanti da anni proprio non le sopportiamo più.
Unendo il materiale del nostro archivio con quello di Stefano Spazzini e di Mattia Uboldi (i quali ringraziamo per avercene concesso l’utilizzo) nonché citando le fonti dell’Ufficio Storico dello Stato Maggiore speriamo, una volta per tutte, di aprire certe menti ancora ottenebrate sull’argomento scarponi. Vorremmo inoltre invitare voi che ci seguite, a distinguere le varie fasi della campagna di Russia. Poiché la maggior parte dei problemi si riscontrarono quasi esclusivamente durante la ritirata, quando il fronte cedette e tutta l'organizzazione logistica collassò; non prima.
NASCITA DELLA FAVOLA.
La favola delle scarpe di cartone nasce “ufficialmente” nel secondo dopoguerra, per dipingere il soldato italiano come quello che venne mandato a fare la guerra con materiale scadente quando, in realtà, il suo equipaggiamento era uguale se non superiore a quello degli altri eserciti coinvolti all'inizio del conflitto. Prendendo spunto dalla triste ritirata di Russia, evento raccontato da alcuni romanzetti e qualche film che nulla hanno di storico, la favola venne portata avanti con decisione da una ben nota parte politica italiana (è ora di dire certe cose), all’epoca molto in imbarazzo per i prigionieri italiani ancora trattenuti in Unione Sovietica. Stessa parte politica che era molto preoccupata delle elezioni e dell’opinione pubblica e che trovò dunque molto comodo attaccare l’Esercito e quella sciagurata campagna di guerra per soli scopi politici.
La favola del “cartone” inizia durante la tragica ritirata di Russia, dopo lo sfondamento del fronte, quando il pericolo di congelamento si ripresentò prepotentemente. Essendo costretti a marce forzate lunghe fino a 40 chilometri al giorno in condizioni proibitive e senza possibilità di fruire di logistica adeguata, i soldati cominciarono a subire il deperimento legato alla scarsità di viveri e al gelo. Le stesse dotazioni personali cominciarono a non offrire più una protezione sufficiente (da non fraintendere poiché qui si parla di situazione straordinaria data dal cedimento del fronte).
Caso emblematico fu quello degli scarponi: non potendo essere ingrassati adeguatamente o mandati nelle retrovie per poter essere riparati, in molti casi si indurirono e, quando dopo aver percorso molti chilometri, il proprietario entrava in un’isba e li toglieva per trovare sollievo vicino alla stufa, al momento di rimettersi in marcia non era più in grado di calzarli perché i piedi si erano gonfiati per lo sforzo e perché le calzature non nutrite spesso diventavano tanto rigide da rompersi, come fossero fatte di cartone, sotto lo sforzo esercitato nel tentativo di calzarle nuovamente.
Ecco perché molti, nell’avvicinare i piedi, decisero di non togliersi lo scarpone poiché avrebbe altrimenti significato sofferenza aggiuntiva e la probabile non riuscita del re-inserimento dello stesso. Questo procedimento continuo non giovava sicuramente alla calzatura, perché in quei frangenti, l’ultima cosa che si pensa è ingrassare e aver cura dello scarpone.
La chiodatura, altro elemento di discordia, si rivelò indubbiamente inadatta alle condizioni climatiche invernali russe ma, quello era il sistema adoperato all’epoca da tutti gli eserciti coinvolti nel conflitto. Strabiliante il fatto di come le critiche vengano mosse riferendosi esclusivamente al secondo periodo invernale, 42/43, dimenticandosi del resto dell’anno e dell’inverno precedente (nonché degli altri fronti),dove la chiodatura non diede nessun tipo di problema poiché in condizioni di uso “normale” e quotidiano, dal chiodo non filtrava nessun tipo di umidità all’interno dello scarpone.
Citiamo, per dovere di cronaca, la relazione dei fatti d’arme relativi al Corpo d’Armata Alpino, dal 14 al 31 gennaio 1943 - XXI, redatta dal suo comandante Gen. Gabriele NASCI e pubblicata per intero sul libro “Trans Limes”, pagina 161, di Mattia UBOLDI. Pagina 12; punto 3)
"L’equipaggiamento della truppa non era adatto a lunghi trasferimenti nella stagione invernale, poiché le scarpe bagnate facilitano enormemente i congelamenti ed i soldati, che si portavano parecchi giorni di viveri, molte munizioni, non potevano portare anche le coperte loro necessarie per ripararsi durante la notte". Come si evince dalla stessa relazione di Nasci, non ci sono critiche alla calzatura di per se, ma all’inadeguatezza dell’uso a quelle latitudini, cosa peraltro comune a tutti gli scarponi usati dagli altri Eserciti.
Non va dimenticato che in Italia le medesime non procurarono mai problemi durante le esercitazioni invernali in quota, a parecchie e decine di gradi sotto lo zero e con umidità superiore a quella presente nelle lande sovietiche. L’unico “inconveniente” era costituito proprio dal fatto che richiedevano una certa manutenzione. Gli scarponi chiodati infatti, non solo dovevano essere periodicamente ingrassati - suola compresa - per ammorbidirli/nutrirli e cerarli per l’impermeabilizzazione, ma avevano bisogno anche di saltuarie riparazione e/o sostituzioni, che venivano effettuate di norma dai servizi preposti nelle retrovie. Per questo ogni soldato aveva almeno due paia di scarponi.
Inoltre, in assenza della debita cura, la differenza termica tra le piste calcate e la temperatura corporea portava gli scarponi a inumidirsi tre le cuciture e le giunte della suola logore, ivi compresi i fori della chiodatura, fino ad arrivare alla tomaia. Con temperature che arrivavano anche ai 45 gradi sotto lo zero, quell’umidità, unitamente al sudore, formavano sotto i piedi una vera e propria lastra di ghiaccio. In questo caso non restava che avvolgere gli arti inferiori in pezze di pano rimediate con ogni espediente, una soluzione che certo non garantiva una protezione pari a quella di scarponi ancora perfettamente efficienti.
domenica 27 dicembre 2020
La Campagna di Russia, parte 4
La quarta ed ultima parte del documentario trasmesso su Rai Tre per la serie "La storia siamo noi" dedicato alla Campagna di Russia.
ARMIR - L'ultima marcia
La campagna di Russia raccontata dai cinegiornali dell'epoca e attraverso le testimonianze dei reduci.
sabato 26 dicembre 2020
Relazione del Tenente Boldoni, parte 3
Relazione sui Carabinieri della Divisione Torino del Generale Attilio Boldoni nel 1942 Sottotenente Comandante della 66a Sezione Carabinieri sul fronte russo, terza parte.
I russi, durante la notte, concentrano il fuoco con armi automatiche, mortai, cannoni, sul facile bersaglio della massa dei nostri soldati costretti a stare all'aperto perché tutte le case erano state occupate dai tedeschi nei giorni precedenti. Il comando della divisione è all'addiaccio sotto il tiro incessante di tutte le armi nemiche. Il bombardamento è intensissimo. Mortai da 120, katiusce, colpi di artiglieria di grosso calibro cadono ovunque. I russi sparano da tutte le parti. Si scavano buche, ci si abbarbica al terreno. Gli italiani - allo scoperto - subiscono immani perdite. Al centro cade più preciso un colpo di mortaio da 120: il Colonnello S.M. Di Gennaro, comandante dell'82° fanteria, che è stato l'estensore del vecchio meraviglioso regolamento di disciplina ha la testa tagliata.
Il Colonnello Rosati, ha le gambe troncate, ma è ancora vivo. Il Colonnello Santini, comandante dell'81°, ferito gravemente. Un solo colpo ha spazzato tre magnifici comandanti e con essi numerosi soldati. Il colonnello Rosati morirà più tardi dopo essere stato colpito nuovamente. Il comandante della 66a sezione sente uno schianto al piede. Una scheggia è penetrata nel suo valenco e grazie allo spessore dello speciale calzare è leggermente ferito. La sua ordinanza - caro e buon Quintilio Bargagni - piange. Ha visto il piede dell'ufficiale e teme per lui... Il destino continua ad essere avverso. Un aereo tedesco sorvola i valorosi della «valle della morte». Lancia un contenitore con armi leggere e benzina che esplode provocando nuove vittime.
Si chiedono armi e arrivano pacchi dono per Natale con marmellata... Il «Führer li manda ai suoi soldati» che non hanno nemmeno il tempo di scartarli perché la morte li ha già ghermiti. Si continua a combattere. Per sfamarsi attaccano anche posizioni prossime ad un alveare che possa fornire alcuni telai di miele e cera od una isba con l'illusione di racimolare qualche pesce salato o qualche manciata di crauti. Si guarda se i morti hanno conservato qualcosa da mangiare. Scatolette di acciughe portoghesi, qualche lettera in italiano; forse hanno fatto anch'essi lo stesso, forse ritenevano di portare a casa un cimelio. Continua a nevicare. La temperatura è proibitiva.
Durante la notte si cerca di ricomporre i reparti. Al mattino successivo si verificano mille e mille episodi eroici, leggendari per la spontaneità con cui sono stati compiuti. Muore durante un assalto il carabiniere Dino Solbani ed il carabiniere Donato Spinelli rimane gravemente ferito. Il comandante della divisione, Generale Roberto Lerici - nella sua relazione sui fatti d'arme - riferisce di aver visto, tra l'altro, un militare che per trascinare i propri all'assalto, monta su un cavallo e con una bandiera tricolore va verso il nemico che viene messo in fuga. Ma chi scrive può riferire più dettagliatamente, perché dell' episodio fu diretto testimone.
Esso si svolse mentre attaccava un caposaldo con i suoi carabinieri della 66a sezione. A questo punto avviene un fatto portentoso, incredibile, della cui realtà, chi scrive, pur essendo stato testimone, si sente ancora istintivamente indotto a dubitare, né riesce a parlarne se non in prima persona, come se nel rievocarlo, risorgesse in lui la suggestione di quel momento indimenticabile: tutt'a un tratto, alle nostre spalle, vediamo avanzare a cavallo un giovane che va risolutamente verso il nemico, agitando una bandiera tricolore e incitando i compagni a un estremo e supremo sforzo di vita o di morte. Chi è quel giovane pressoché imberbe, di cui nessuno conosce il nome, ma che tutti riconosciamo subito come un fratello maggiore e migliore, come un esempio, una guida, un antesignano, un trascinatore? È il carabiniere Giuseppe Plado Mosca: un nome che abbiamo appreso in seguito, che resterà inciso per sempre nei fasti più luminosi dell'Arma. Ma in quel momento egli non può avere alcun nome, perché nulla di personale, circoscritto, di anagraficamente definito è in lui. Egli è assai più che un determinato individuo, che una singola persona, che un qualsiasi mortale il cui fato stia per compiersi: è il simbolo, la personificazione sovrumana, l'ideale sublimazione dell'ultimo anelito invitto in tutti noi; o forse è un essere sovrannaturale, che, invocato dalle preghiere, dalle lacrime delle nostre mamme lontane, «è disceso dal cielo a guidarci verso la salvezza...».
In realtà lo vediamo passare tra noi come una di quelle figure allegoriche, di quegli eroi leggendari e romanzeschi, che già eccitarono la nostra fantasia di fanciulli. Sul bavero del suo lacero pastrano, brillano gli alamari d'argento dei carabinieri e anche quello sembra un segno simbolico. Eretto sul cavallo, egli avanza con slancio crescente, imperturbato, tra gli scoppi delle granate e le raffiche delle mitragliatrici. Avanza come se fosse sospinto da una forza incoercibile, come se nulla possa più arrestarlo. Sopravvenuto alle nostre spalle, ci supera in un baleno, raggiunge la prima linea, scompare verso il nemico. Al suo passaggio ciascuno di noi sente risorgere le proprie forze, ognuno ha la sensazione precisa che il proprio destino non è ancora compiuto: carabinieri, fanti, artiglieri e soldati d'ogni arma e servizio si levano in piedi, come attratti da una suggestione irresistibile, pervasi, ad un tratto, da un incontenibile ardore; tutti si slanciano di corsa Su per l'erta, senza rispettare né vincoli organici, né prudenziali formazioni di combattimento.
Di fronte a tanta subitanea furia ch'esso è ben lungi dall'aspettarsi, l'avversario, ad onta della sua schiacciante preponderanza numerica, non può fare a meno di cedere terreno, di allentare temporaneamente la stretta, sopraffatto da una comprensibile crisi di sgomento che lo induce a ritirarsi dinanzi a noi, abbandonando nelle nostre mani gli ultimi prigionieri catturati, armi, viveri e rifornimenti di vario genere. Il fronte nemico è cosi respinto su tutta la linea e il raggio dell'assedio è allargato. Poco dopo, placatasi la furia di quell'improvviso e paradossale combattimento, ci accorgiamo, ad un tratto, che il cavallo del nostro salvatore, ferito e sanguinante da più parti, sta rientrando faticosamente nelle nostre linee; unica traccia rimasta del suo leggendario cavaliere solo le chiazze di sangue sulla groppa. Ma quel sanguinoso mistero a noi sembra racchiudere il segreto, più che di una morte sconosciuta, d'una vita sovrumana e imperitura: l'invisibile presenza dell'assente è infatti prodigiosamente viva intorno a noi, e ci anima e ci conforta, ingenerando forza, fiducia, speranza nel cuore di ognuno, dal generale comandante al più modesto e lacero soldato, che si regge in piedi con uno sforzo di cui egli Stesso, appena qualche ora prima, si sarebbe ritenuto incapace. Solo in virtù di tale portento, quella massa di uomini disperati e stremati può riuscire a sostenere un'altra intera giornata di combattimenti, ed infine, ad aprirsi un varco verso Tscherkowo.
DA ARBUSOW A TSCHERKOWO.
La sera del 23 dicembre, il generale Lerici ordina la distruzione delle bandiere. Alle 21,30 altro attacco violentissimo dei russi. Ogni combattente prega e affida l'anima a Dio. Ma il contrattacco dell'avanguardia tedesca riesce a rompere in direzione sud-ovest. Si sente di nuovo gridare... La 298a con il suo abile comandante, ten. Col. Michaelis, ha trovato un sentiero. Si riparte. In silenzio si sfila in mezzo alla neve alta mentre i russi, che tutto il giorno avevano ininterrottamente attaccato con reparti scelti al grido «Za Stalinu! Za Rodinu!» (Per Stalin! Per la Patria) riposano, certi di concludere al mattino successivo l'odissea degli italiani. Si marcia - le gambe si allungano - il pericolo si allontana. Dei fari e il rombo caratteristico di autocarri che sopraggiungono verso i nostri reparti. Qualche grido, qualche colpo di pistola e un carico di pagnotte fresche ai soldati affamati. Si riparte.
Nonostante la neve alta e la temperatura discesa a 40° sotto zero, la sanguinante massa di uomini, il 24, raggiunge Sideroski e Gussew, girando poi su Poltawa e Chonodow. Si segue la ferrovia verso nord combattendo con la fanteria, con gli aerei e con il freddo atroce. Da molti giorni non si mangia. Molti impazziscono, rimangono indietro, per il fatale errore si fermano qualche attimo, rimangono assiderati nella steppa come statue di ghiaccio. Il silenzio assoluto, allucinante, è rotto solo dallo scricchiolare del ghiaccio, pestato da fantasmi alla ricerca di un tetto mentre case e castelli appaiono ai loro occhi stralunati. Rari i colpi di pistola... è la disperazione! Fa molto freddo, forse 35°, 40° sotto zero. Il fiato si gela sui baffi, il gavettino rimane incollato sulle labbra e nello staccarlo le fa sanguinare... Si cammina in silenzio... Volontà eccezionale di vivere per raccontare, vivere per pregare, vivere per insegnare a vivere e non a morire.
È la notte di Natale, si spara dappertutto. Si prega, si grida disperatamente, muoiono i feriti, si addormentano lentamente, stretti dal ghiaccio, non gridano più; guardano verso il cielo e con essi il v.b. Gino Antonelli. Alle ore 7,00 del 25 la colonna raggiunge Chodonow e poi Scheptukowka. Si sosta. Aerei russi bombardano. Si marcia tutto il giorno. Non si sente più sparare. Il nemico è lontano... riaffiora una speranza: arrivare in un posto sicuro. Forse si mangia... È di nuovo notte, tutti annaspano, delirano, ogni tanto un grido di meraviglia, un castello, una casa, il mare. Nulla, solo visioni fantastiche. Sembra l'arrivo di una maratona; non sono atleti ma uomini piegati nel loro sforzo, piagati, feriti, sotto il braccio di un amico, soli, stringono i denti. Il vento gelidissimo fischia ed il sibilo si alterna con il calpestio quasi metallico dei passi sul ghiaccio. Tutto è bianco, tutto è squallido... I più stanchi si sdraiano e non si rialzano. Sono statue nell'infinito intorno a loro...
I russi, durante la notte, concentrano il fuoco con armi automatiche, mortai, cannoni, sul facile bersaglio della massa dei nostri soldati costretti a stare all'aperto perché tutte le case erano state occupate dai tedeschi nei giorni precedenti. Il comando della divisione è all'addiaccio sotto il tiro incessante di tutte le armi nemiche. Il bombardamento è intensissimo. Mortai da 120, katiusce, colpi di artiglieria di grosso calibro cadono ovunque. I russi sparano da tutte le parti. Si scavano buche, ci si abbarbica al terreno. Gli italiani - allo scoperto - subiscono immani perdite. Al centro cade più preciso un colpo di mortaio da 120: il Colonnello S.M. Di Gennaro, comandante dell'82° fanteria, che è stato l'estensore del vecchio meraviglioso regolamento di disciplina ha la testa tagliata.
Il Colonnello Rosati, ha le gambe troncate, ma è ancora vivo. Il Colonnello Santini, comandante dell'81°, ferito gravemente. Un solo colpo ha spazzato tre magnifici comandanti e con essi numerosi soldati. Il colonnello Rosati morirà più tardi dopo essere stato colpito nuovamente. Il comandante della 66a sezione sente uno schianto al piede. Una scheggia è penetrata nel suo valenco e grazie allo spessore dello speciale calzare è leggermente ferito. La sua ordinanza - caro e buon Quintilio Bargagni - piange. Ha visto il piede dell'ufficiale e teme per lui... Il destino continua ad essere avverso. Un aereo tedesco sorvola i valorosi della «valle della morte». Lancia un contenitore con armi leggere e benzina che esplode provocando nuove vittime.
Si chiedono armi e arrivano pacchi dono per Natale con marmellata... Il «Führer li manda ai suoi soldati» che non hanno nemmeno il tempo di scartarli perché la morte li ha già ghermiti. Si continua a combattere. Per sfamarsi attaccano anche posizioni prossime ad un alveare che possa fornire alcuni telai di miele e cera od una isba con l'illusione di racimolare qualche pesce salato o qualche manciata di crauti. Si guarda se i morti hanno conservato qualcosa da mangiare. Scatolette di acciughe portoghesi, qualche lettera in italiano; forse hanno fatto anch'essi lo stesso, forse ritenevano di portare a casa un cimelio. Continua a nevicare. La temperatura è proibitiva.
Durante la notte si cerca di ricomporre i reparti. Al mattino successivo si verificano mille e mille episodi eroici, leggendari per la spontaneità con cui sono stati compiuti. Muore durante un assalto il carabiniere Dino Solbani ed il carabiniere Donato Spinelli rimane gravemente ferito. Il comandante della divisione, Generale Roberto Lerici - nella sua relazione sui fatti d'arme - riferisce di aver visto, tra l'altro, un militare che per trascinare i propri all'assalto, monta su un cavallo e con una bandiera tricolore va verso il nemico che viene messo in fuga. Ma chi scrive può riferire più dettagliatamente, perché dell' episodio fu diretto testimone.
Esso si svolse mentre attaccava un caposaldo con i suoi carabinieri della 66a sezione. A questo punto avviene un fatto portentoso, incredibile, della cui realtà, chi scrive, pur essendo stato testimone, si sente ancora istintivamente indotto a dubitare, né riesce a parlarne se non in prima persona, come se nel rievocarlo, risorgesse in lui la suggestione di quel momento indimenticabile: tutt'a un tratto, alle nostre spalle, vediamo avanzare a cavallo un giovane che va risolutamente verso il nemico, agitando una bandiera tricolore e incitando i compagni a un estremo e supremo sforzo di vita o di morte. Chi è quel giovane pressoché imberbe, di cui nessuno conosce il nome, ma che tutti riconosciamo subito come un fratello maggiore e migliore, come un esempio, una guida, un antesignano, un trascinatore? È il carabiniere Giuseppe Plado Mosca: un nome che abbiamo appreso in seguito, che resterà inciso per sempre nei fasti più luminosi dell'Arma. Ma in quel momento egli non può avere alcun nome, perché nulla di personale, circoscritto, di anagraficamente definito è in lui. Egli è assai più che un determinato individuo, che una singola persona, che un qualsiasi mortale il cui fato stia per compiersi: è il simbolo, la personificazione sovrumana, l'ideale sublimazione dell'ultimo anelito invitto in tutti noi; o forse è un essere sovrannaturale, che, invocato dalle preghiere, dalle lacrime delle nostre mamme lontane, «è disceso dal cielo a guidarci verso la salvezza...».
In realtà lo vediamo passare tra noi come una di quelle figure allegoriche, di quegli eroi leggendari e romanzeschi, che già eccitarono la nostra fantasia di fanciulli. Sul bavero del suo lacero pastrano, brillano gli alamari d'argento dei carabinieri e anche quello sembra un segno simbolico. Eretto sul cavallo, egli avanza con slancio crescente, imperturbato, tra gli scoppi delle granate e le raffiche delle mitragliatrici. Avanza come se fosse sospinto da una forza incoercibile, come se nulla possa più arrestarlo. Sopravvenuto alle nostre spalle, ci supera in un baleno, raggiunge la prima linea, scompare verso il nemico. Al suo passaggio ciascuno di noi sente risorgere le proprie forze, ognuno ha la sensazione precisa che il proprio destino non è ancora compiuto: carabinieri, fanti, artiglieri e soldati d'ogni arma e servizio si levano in piedi, come attratti da una suggestione irresistibile, pervasi, ad un tratto, da un incontenibile ardore; tutti si slanciano di corsa Su per l'erta, senza rispettare né vincoli organici, né prudenziali formazioni di combattimento.
Di fronte a tanta subitanea furia ch'esso è ben lungi dall'aspettarsi, l'avversario, ad onta della sua schiacciante preponderanza numerica, non può fare a meno di cedere terreno, di allentare temporaneamente la stretta, sopraffatto da una comprensibile crisi di sgomento che lo induce a ritirarsi dinanzi a noi, abbandonando nelle nostre mani gli ultimi prigionieri catturati, armi, viveri e rifornimenti di vario genere. Il fronte nemico è cosi respinto su tutta la linea e il raggio dell'assedio è allargato. Poco dopo, placatasi la furia di quell'improvviso e paradossale combattimento, ci accorgiamo, ad un tratto, che il cavallo del nostro salvatore, ferito e sanguinante da più parti, sta rientrando faticosamente nelle nostre linee; unica traccia rimasta del suo leggendario cavaliere solo le chiazze di sangue sulla groppa. Ma quel sanguinoso mistero a noi sembra racchiudere il segreto, più che di una morte sconosciuta, d'una vita sovrumana e imperitura: l'invisibile presenza dell'assente è infatti prodigiosamente viva intorno a noi, e ci anima e ci conforta, ingenerando forza, fiducia, speranza nel cuore di ognuno, dal generale comandante al più modesto e lacero soldato, che si regge in piedi con uno sforzo di cui egli Stesso, appena qualche ora prima, si sarebbe ritenuto incapace. Solo in virtù di tale portento, quella massa di uomini disperati e stremati può riuscire a sostenere un'altra intera giornata di combattimenti, ed infine, ad aprirsi un varco verso Tscherkowo.
DA ARBUSOW A TSCHERKOWO.
La sera del 23 dicembre, il generale Lerici ordina la distruzione delle bandiere. Alle 21,30 altro attacco violentissimo dei russi. Ogni combattente prega e affida l'anima a Dio. Ma il contrattacco dell'avanguardia tedesca riesce a rompere in direzione sud-ovest. Si sente di nuovo gridare... La 298a con il suo abile comandante, ten. Col. Michaelis, ha trovato un sentiero. Si riparte. In silenzio si sfila in mezzo alla neve alta mentre i russi, che tutto il giorno avevano ininterrottamente attaccato con reparti scelti al grido «Za Stalinu! Za Rodinu!» (Per Stalin! Per la Patria) riposano, certi di concludere al mattino successivo l'odissea degli italiani. Si marcia - le gambe si allungano - il pericolo si allontana. Dei fari e il rombo caratteristico di autocarri che sopraggiungono verso i nostri reparti. Qualche grido, qualche colpo di pistola e un carico di pagnotte fresche ai soldati affamati. Si riparte.
Nonostante la neve alta e la temperatura discesa a 40° sotto zero, la sanguinante massa di uomini, il 24, raggiunge Sideroski e Gussew, girando poi su Poltawa e Chonodow. Si segue la ferrovia verso nord combattendo con la fanteria, con gli aerei e con il freddo atroce. Da molti giorni non si mangia. Molti impazziscono, rimangono indietro, per il fatale errore si fermano qualche attimo, rimangono assiderati nella steppa come statue di ghiaccio. Il silenzio assoluto, allucinante, è rotto solo dallo scricchiolare del ghiaccio, pestato da fantasmi alla ricerca di un tetto mentre case e castelli appaiono ai loro occhi stralunati. Rari i colpi di pistola... è la disperazione! Fa molto freddo, forse 35°, 40° sotto zero. Il fiato si gela sui baffi, il gavettino rimane incollato sulle labbra e nello staccarlo le fa sanguinare... Si cammina in silenzio... Volontà eccezionale di vivere per raccontare, vivere per pregare, vivere per insegnare a vivere e non a morire.
È la notte di Natale, si spara dappertutto. Si prega, si grida disperatamente, muoiono i feriti, si addormentano lentamente, stretti dal ghiaccio, non gridano più; guardano verso il cielo e con essi il v.b. Gino Antonelli. Alle ore 7,00 del 25 la colonna raggiunge Chodonow e poi Scheptukowka. Si sosta. Aerei russi bombardano. Si marcia tutto il giorno. Non si sente più sparare. Il nemico è lontano... riaffiora una speranza: arrivare in un posto sicuro. Forse si mangia... È di nuovo notte, tutti annaspano, delirano, ogni tanto un grido di meraviglia, un castello, una casa, il mare. Nulla, solo visioni fantastiche. Sembra l'arrivo di una maratona; non sono atleti ma uomini piegati nel loro sforzo, piagati, feriti, sotto il braccio di un amico, soli, stringono i denti. Il vento gelidissimo fischia ed il sibilo si alterna con il calpestio quasi metallico dei passi sul ghiaccio. Tutto è bianco, tutto è squallido... I più stanchi si sdraiano e non si rialzano. Sono statue nell'infinito intorno a loro...
Le mappe dello CSIR e dell'ARMIR 6
Le mappe delle operazioni del CSIR e dell'ARMIR dal giugno 1941 all'ottobre 1942 - Il contributo della Divisione Pasubio nella Battaglia dei due fiumi Dnjestr-Bug (10-12 Agosto 1941).
venerdì 25 dicembre 2020
Campi di prigionia e fosse comuni, parte 6
Grazie al permesso ottenuto dai vertici di U.N.I.R.R. Unione Nazionale Italiana Reduci di Russia, di cui faccio orgogliosamente parte, pubblico la sesta parte di questo interessantissimo documento relativo ai "campi di prigionia e fosse comuni dello CSIR e dell'ARMIR": la scheda dei campi di Basianovka, Bekabad, Belaia Kholuniza, Berezniki e Bistriaghi.
La battaglia di Natale 1941, parte 2
Tutto il materiale proposto fa riferimento all'articolo 70 comma 1 della legge numero 633 del 22 Aprile 1941 che cita "Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l'utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali".
Natale 1941, continua il racconto di Don Biasutti, cappellano della Legione Tagliamento impegnata nello scontro che passerà alla storia come la Battaglia di Natale.
Episodi del martirio di Novaja.
A Novaja, per piegare l'ostinata resistenza dei nostri, i russi subirono gravi perdite. I pochi civili rimasti sul luogo mi dichiararono che i morti e feriti russi erano stati numerosissimi. Ma il nostro presidio locale venne quasi distrutto. Il 27 trovai quattro soli morti, dei nostri. Ne trovammo molti altri due mesi dopo, sotto la neve, in una fossa comune a nord del paese. Ed altri molti ne rinvenni dispersi qua e là sotto la neve, quando venne lo sgelo. In tutto raccogliemmo le salme di quarantadue Caduti. Da parecchi chiari indizi potemmo constatare che i feriti erano stati tutti uccisi.
Lo stesso, del resto, accadde ad Ivanovka, per i bersaglieri feriti, di cui uno solo si salvò. Mi raccontarono che la sera del Natale alcuni russi entrarono in una casa, dove giacevano alcuni bersaglieri. E cominciarono a porlarli fuori ad uno ad uno. Quel tale, a cui ho accennato, sentiva li fuori, di volta in volta, dei colpi d'arma da fuoco. Era ferito al dorso, ma le gambe le aveva sane. Quando capitò il suo turno, si lasciò condurre, fingendosi debole. Ma d'improvviso si gettò contro il russo che lo accompagnava e lo atterrò; e quindi si precipitò, in mutande ed a piedi scalzi, giù per la collina, inseguito subito dopo da raffiche di mitra, che fortunatamente non lo raggiunsero. E riuscì ad arrivare, stremato e congelato, nel caposaldo di Mikailowka.
Certo una simile sorte toccò al nostro Ernesto Zarotti a Novaja. Ferito al capo, era stato trascinato in un'aula delle scuole; ed un civile russo era accorso a portargli da bere. Io lo trovai il 27, ucciso da un colpo a bruciapelo al cuore; mentre il borghese russo, che mi si disse fucilato dai suoi connazionali, giaceva esanime contro il muro di un capannone poco fuori di li. Qualcuno aveva rovistato nelle tasche di Zarotti; intorno a lui giacevano disperse le povere cose del suo portafoglio e proprio sul petto c'era uno di quei «Cuori di Gesù» in stoffa che si usan portare a forma di scapolare. Un folto gruppo dei nostri risultò disperso; se non erro 72, che vennero fatti prigionieri. Di essi ritornarono in cinque: due legionari di Reggio Emilia nel 1946, il C.m. Codeluppi con gli ufficiali, e nel 1951 altri due legionari, uno dell'Emilia ed uno dei mitraglieri di Cuneo.
Poco dopo gli aerei russi ci piovvero spesso addosso dei volantini di propaganda, in cui figuravano - tra i nomi di altri prigionieri italiani - anche quelli di alcuni dei nostri. Io non ero, l'ho detto, a Novaja. Gli episodi di eroismo e di reciproca dedizione che vi fiorirono in quella mattina mortale non si contano: ogni superstite ne narra a non finire. Ne ricorderò solo alcuni. Il caposquadra Pelati Ezio era rimasto ferito all'apice polmonare destro. Il suo amico Giuliano Palmieri, che gli era anche coinquilino e compagno di lavoro nella vita civile, gli fu al fianco con fedelissima amicizia. E quando verso le ore 11, Tonolini diede l'ordine di sfollare i feriti, se possibile, verso Ivanovka o Mikailowka, il Palmieri si avviò verso est sorreggendo il Pelati. Riuscirono ad attraversare il boschetto, ma poco dopo caddero entrambi. Io li ritrovai due mesi dopo, quasi abbracciati in un eterno abbraccio. Nel 1943 tenni in Correggio una conferenza sui miei Caduti; e raccontai, tra l'altro, questo episodio di amicizia fino alla morte. Alla fine della conferenza mi si appressarono due giovani donne vestite a lutto. «Chi siete?». Mi risposero: «Siamo le mogli di Pelati e di Palmieri». Mi si strinse il cuore. Non so perché, mi sentii dire: «E vi volete bene?». Allora si gettarono piangendo l'una nelle braccia dell'altra e dissero: «Come loro!».
Codogni Virginio era rimasto ferito alle gambe, e gli si eran dovuti togliere i pantaloni e le mutande per praticare la prima mediazione. Cosi, con gli arti inferiori ignudi, era stato messo a giacere su poca paglia entro una casa. Quando la furia della battaglia investi anche quella casa, un compagno, di cui non si sa il nome, se lo caricò sulle spalle e si avviò verso Mikailowka, nel tentativo di portarlo all'infermeria del Battaglione. Quel pietoso soccorritore riuscì a passare il boschetto; ma subito dopo una raffica gli uccise sulle spalle il ferito, che scivolò al suolo. Non sappiamo che cosa sia avvenuto dopo. Ma io trovai il Codogni ben composto nella neve: e sulle gambe ignude era stesa un'altra giacca, quella del soccorritore, come se avesse voluto vincere il freddo della stagione e della morte col caldo dono dell'amicizia. Pensate un po' a quello sconosciuto legionario, che se ne va in prigionia in maniche di camicia per un gesto squisito di carità verso il cadavere dell'amico caduto!...
E che dire del buon Mario Losi? Anche lui s'era avviato verso Mikailowka, sorreggendo un ferito. Se fosse stato un pavido od un egoista, si sarebbe salvato. Invece, per quella sua dedizione fraterna, mori. Il ferito, che egli portava, si salvò. Ed il povero Losi rimase fulminato nella neve. Ma, a proposito di dedizione per i feriti, non posso non parlare di un portaferiti della 2a Cp., il «baffuto» Martini Agostino. Ecco che cosa ne scrivevo, lassù, poco dopo averlo ritrovato esanime nella tragica fossa di Novaia. Erano certamente, i suoi, i baffi più belli di tutta la Legione ed egli fierissimamente li portava. Due cespugli biondi che si ergevano superbi, all'«umberta», verso due occhi chiari e virili. Un portaferiti eroico.
Sordo alle mitragliate ed alle cannonate nemiche, sentiva soltanto il richiamo dei compagni colpiti. E una e due e sette volte corse dalla linea al posto di medicazione, trasportando a spalle i camerati che grondavano di sangue generoso. Quando per l'ennesima volta si lanciò senza timore e senza riposo, a compiere il pietoso dovere, la morte lo fermò. Solo la morte lo poteva fermare. Un giorno vidi due baffi biondi come i suoi e ristetti a guardare, quasi sperando ch'egli fosse risorto. Il legionario che possedeva quei baffi dovette leggermi nel pensiero la folle speranza, perché mi disse: - Signor cappellano, ho ereditato io i baffi di Martini. E ne sentii una cocente tristezza. Allora capii che il mio biondo «baffone» era veramente morto.
Ma non la finirei più se volessi tutto raccontare. Permettetemi, tuttavia, che vi riferisca due ultimi fatti, che a mio parere hanno qualcosa di sublime. Uno lo trovo descritto cosi, nelle mie note di allora. Non posso assicurarvi la veridicità dell'episodio che sto per narrare, poiché so quanto è facile alla fantasia del soldato ricamare di leggenda un convulso momento di battaglia. Ma la tragica bellezza di quella mano, che s'agita per dire: «Non venite, non venite!», si è talmente scolpita nella mente che non so e non posso tacere. Ecco, dunque, quanto m'hanno raccontato alcuni legionari, mentre ce n'andavamo nel febbraio del '42 alla ricerca dei Caduti nei gloriosi combattimenti del Natale.
«Vedete, signor Cappellano. Parecchi dei nostri sono discesi per questo canalone nell'intento di raggiungere il villaggio di Mikailowka. Scendevamo in ordine sparso per salvarci quanto più possibile dal tiro dei mortai russi. Una bufera infernale c'investiva da ogni parte cosicché non era difficile smarrire la via. E, quel ch'è peggio, non si sapeva più esattamente dov'erano gli italiani e dove i russi. Accadde perciò che qualcuno fini tra i nemici credendo di arrivare tra i nostri. «Quando giungemmo qui, allo sfociare del canalone, vedemmo gente muoversi su quella groppa di là della balka. Vedete: erano proprio là, ov'è quel gruppo di case, che ora sono note a tutti sotto il nome di Kolkos del miele, poiché vi trovammo miele a quintali.
«Qualcuno gridò: "Sono i bersaglieri". «Ma qualche altro, più cauto, disse: "No. Fate attenzione che sono russi". «In realtà non si poteva discernere bene chi fossero. Ci appiattammo, quindi, tra i cespugli e stemmo ad osservare. «Anche dall'altra parte erano incerti. Ma infine, dalle grida, dal modo di gestire e dal colore dell'uniforme, dopo alcuni momenti d'incertezza, potemmo capire che erano russi per davvero. «Erano russi: ma, credendo che non li avessimo riconosciuti, ci facevano cenni di richiamo, quasi per invitarci a passare il ruscello, come se fossero dei nostri. «Ma allora vedemmo qualcosa che ci mise un brivido nelle vene. «C'era tra loro uno che aveva un'uniforme diversa... Si, era certamente un legionario. Intorno gli stavano quattro o cinque di quegli altri.
«Ed eccolo levare una mano ed agitarla per ammonire. "Non venite, non venite!". Due o tre volte la mano si mosse disperatamente da destra a sinistra. Poi ci parve che quell'ignoto eroe venisse colpito da una pugnalata; e lo vedemmo precipitare a mani tese nella neve. «Allora scaricammo tutte le nostre armi contro quel gruppo di nemici: chi non cadde fuggi e noi, sgombrata la via, potemmo raggiungere per di qui il reparto». Molte volte ripassai, dopo la vittoria, per il «Kolkos del miele»; e sempre mi fermai in stupita attesa, quasi mi fosse dato di vedere risorgere sul colle un gigante che agitasse la mano ad ammonire: «Non venite, non venite!». Ed ecco il secondo fatto, fragrante di quella istintiva umanità che accomuna i sofferenti e gli umili di là d'ogni barriera.
Uno dei nostri feriti di Novaja, s'avviò solo verso Mikailowka. Ma i russi, avevano ormai tagliata la strada che conduceva a quel caposaldo. Perciò accadde che ad un certo momento la camicia nera venne a trovarsi sotto il tiro d'un gruppetto di nemici nascosto dietro un pagliaio. Il legionario si vide perduto: ma ecco sorgergli accanto dalla neve un russo - dico un soldato russo - il quale facendogli scudo del proprio corpo e prendendolo sottobraccio, gli fece capire con gesti che doveva imboccare un'altra via per salvarsi. E se ne andarono cosi, camicia nera e soldato russo, attraverso la bianca steppa. Quando eran quasi giunti alla meta, una raffica che veniva dai suoi, colpi il russo, che s'accasciò al suolo. Il legionario si chinò su di lui per soccorrerlo, ma quegli insisteva perché lo lasciasse al suo destino e per conto proprio si mettesse in salvo nelle nostre linee ormai vicine. Allora il legionario, che sapeva di dover la vita a quell'infelice, benché fosse stremato anche lui, se lo caricò a viva forza sulle spalle. Ed entrarono cosi l'italiano ed il russo, nell'infermeria di Mikailowka, sorreggendosi fraternamente a vicenda.
Natale 1941, continua il racconto di Don Biasutti, cappellano della Legione Tagliamento impegnata nello scontro che passerà alla storia come la Battaglia di Natale.
Episodi del martirio di Novaja.
A Novaja, per piegare l'ostinata resistenza dei nostri, i russi subirono gravi perdite. I pochi civili rimasti sul luogo mi dichiararono che i morti e feriti russi erano stati numerosissimi. Ma il nostro presidio locale venne quasi distrutto. Il 27 trovai quattro soli morti, dei nostri. Ne trovammo molti altri due mesi dopo, sotto la neve, in una fossa comune a nord del paese. Ed altri molti ne rinvenni dispersi qua e là sotto la neve, quando venne lo sgelo. In tutto raccogliemmo le salme di quarantadue Caduti. Da parecchi chiari indizi potemmo constatare che i feriti erano stati tutti uccisi.
Lo stesso, del resto, accadde ad Ivanovka, per i bersaglieri feriti, di cui uno solo si salvò. Mi raccontarono che la sera del Natale alcuni russi entrarono in una casa, dove giacevano alcuni bersaglieri. E cominciarono a porlarli fuori ad uno ad uno. Quel tale, a cui ho accennato, sentiva li fuori, di volta in volta, dei colpi d'arma da fuoco. Era ferito al dorso, ma le gambe le aveva sane. Quando capitò il suo turno, si lasciò condurre, fingendosi debole. Ma d'improvviso si gettò contro il russo che lo accompagnava e lo atterrò; e quindi si precipitò, in mutande ed a piedi scalzi, giù per la collina, inseguito subito dopo da raffiche di mitra, che fortunatamente non lo raggiunsero. E riuscì ad arrivare, stremato e congelato, nel caposaldo di Mikailowka.
Certo una simile sorte toccò al nostro Ernesto Zarotti a Novaja. Ferito al capo, era stato trascinato in un'aula delle scuole; ed un civile russo era accorso a portargli da bere. Io lo trovai il 27, ucciso da un colpo a bruciapelo al cuore; mentre il borghese russo, che mi si disse fucilato dai suoi connazionali, giaceva esanime contro il muro di un capannone poco fuori di li. Qualcuno aveva rovistato nelle tasche di Zarotti; intorno a lui giacevano disperse le povere cose del suo portafoglio e proprio sul petto c'era uno di quei «Cuori di Gesù» in stoffa che si usan portare a forma di scapolare. Un folto gruppo dei nostri risultò disperso; se non erro 72, che vennero fatti prigionieri. Di essi ritornarono in cinque: due legionari di Reggio Emilia nel 1946, il C.m. Codeluppi con gli ufficiali, e nel 1951 altri due legionari, uno dell'Emilia ed uno dei mitraglieri di Cuneo.
Poco dopo gli aerei russi ci piovvero spesso addosso dei volantini di propaganda, in cui figuravano - tra i nomi di altri prigionieri italiani - anche quelli di alcuni dei nostri. Io non ero, l'ho detto, a Novaja. Gli episodi di eroismo e di reciproca dedizione che vi fiorirono in quella mattina mortale non si contano: ogni superstite ne narra a non finire. Ne ricorderò solo alcuni. Il caposquadra Pelati Ezio era rimasto ferito all'apice polmonare destro. Il suo amico Giuliano Palmieri, che gli era anche coinquilino e compagno di lavoro nella vita civile, gli fu al fianco con fedelissima amicizia. E quando verso le ore 11, Tonolini diede l'ordine di sfollare i feriti, se possibile, verso Ivanovka o Mikailowka, il Palmieri si avviò verso est sorreggendo il Pelati. Riuscirono ad attraversare il boschetto, ma poco dopo caddero entrambi. Io li ritrovai due mesi dopo, quasi abbracciati in un eterno abbraccio. Nel 1943 tenni in Correggio una conferenza sui miei Caduti; e raccontai, tra l'altro, questo episodio di amicizia fino alla morte. Alla fine della conferenza mi si appressarono due giovani donne vestite a lutto. «Chi siete?». Mi risposero: «Siamo le mogli di Pelati e di Palmieri». Mi si strinse il cuore. Non so perché, mi sentii dire: «E vi volete bene?». Allora si gettarono piangendo l'una nelle braccia dell'altra e dissero: «Come loro!».
Codogni Virginio era rimasto ferito alle gambe, e gli si eran dovuti togliere i pantaloni e le mutande per praticare la prima mediazione. Cosi, con gli arti inferiori ignudi, era stato messo a giacere su poca paglia entro una casa. Quando la furia della battaglia investi anche quella casa, un compagno, di cui non si sa il nome, se lo caricò sulle spalle e si avviò verso Mikailowka, nel tentativo di portarlo all'infermeria del Battaglione. Quel pietoso soccorritore riuscì a passare il boschetto; ma subito dopo una raffica gli uccise sulle spalle il ferito, che scivolò al suolo. Non sappiamo che cosa sia avvenuto dopo. Ma io trovai il Codogni ben composto nella neve: e sulle gambe ignude era stesa un'altra giacca, quella del soccorritore, come se avesse voluto vincere il freddo della stagione e della morte col caldo dono dell'amicizia. Pensate un po' a quello sconosciuto legionario, che se ne va in prigionia in maniche di camicia per un gesto squisito di carità verso il cadavere dell'amico caduto!...
E che dire del buon Mario Losi? Anche lui s'era avviato verso Mikailowka, sorreggendo un ferito. Se fosse stato un pavido od un egoista, si sarebbe salvato. Invece, per quella sua dedizione fraterna, mori. Il ferito, che egli portava, si salvò. Ed il povero Losi rimase fulminato nella neve. Ma, a proposito di dedizione per i feriti, non posso non parlare di un portaferiti della 2a Cp., il «baffuto» Martini Agostino. Ecco che cosa ne scrivevo, lassù, poco dopo averlo ritrovato esanime nella tragica fossa di Novaia. Erano certamente, i suoi, i baffi più belli di tutta la Legione ed egli fierissimamente li portava. Due cespugli biondi che si ergevano superbi, all'«umberta», verso due occhi chiari e virili. Un portaferiti eroico.
Sordo alle mitragliate ed alle cannonate nemiche, sentiva soltanto il richiamo dei compagni colpiti. E una e due e sette volte corse dalla linea al posto di medicazione, trasportando a spalle i camerati che grondavano di sangue generoso. Quando per l'ennesima volta si lanciò senza timore e senza riposo, a compiere il pietoso dovere, la morte lo fermò. Solo la morte lo poteva fermare. Un giorno vidi due baffi biondi come i suoi e ristetti a guardare, quasi sperando ch'egli fosse risorto. Il legionario che possedeva quei baffi dovette leggermi nel pensiero la folle speranza, perché mi disse: - Signor cappellano, ho ereditato io i baffi di Martini. E ne sentii una cocente tristezza. Allora capii che il mio biondo «baffone» era veramente morto.
Ma non la finirei più se volessi tutto raccontare. Permettetemi, tuttavia, che vi riferisca due ultimi fatti, che a mio parere hanno qualcosa di sublime. Uno lo trovo descritto cosi, nelle mie note di allora. Non posso assicurarvi la veridicità dell'episodio che sto per narrare, poiché so quanto è facile alla fantasia del soldato ricamare di leggenda un convulso momento di battaglia. Ma la tragica bellezza di quella mano, che s'agita per dire: «Non venite, non venite!», si è talmente scolpita nella mente che non so e non posso tacere. Ecco, dunque, quanto m'hanno raccontato alcuni legionari, mentre ce n'andavamo nel febbraio del '42 alla ricerca dei Caduti nei gloriosi combattimenti del Natale.
«Vedete, signor Cappellano. Parecchi dei nostri sono discesi per questo canalone nell'intento di raggiungere il villaggio di Mikailowka. Scendevamo in ordine sparso per salvarci quanto più possibile dal tiro dei mortai russi. Una bufera infernale c'investiva da ogni parte cosicché non era difficile smarrire la via. E, quel ch'è peggio, non si sapeva più esattamente dov'erano gli italiani e dove i russi. Accadde perciò che qualcuno fini tra i nemici credendo di arrivare tra i nostri. «Quando giungemmo qui, allo sfociare del canalone, vedemmo gente muoversi su quella groppa di là della balka. Vedete: erano proprio là, ov'è quel gruppo di case, che ora sono note a tutti sotto il nome di Kolkos del miele, poiché vi trovammo miele a quintali.
«Qualcuno gridò: "Sono i bersaglieri". «Ma qualche altro, più cauto, disse: "No. Fate attenzione che sono russi". «In realtà non si poteva discernere bene chi fossero. Ci appiattammo, quindi, tra i cespugli e stemmo ad osservare. «Anche dall'altra parte erano incerti. Ma infine, dalle grida, dal modo di gestire e dal colore dell'uniforme, dopo alcuni momenti d'incertezza, potemmo capire che erano russi per davvero. «Erano russi: ma, credendo che non li avessimo riconosciuti, ci facevano cenni di richiamo, quasi per invitarci a passare il ruscello, come se fossero dei nostri. «Ma allora vedemmo qualcosa che ci mise un brivido nelle vene. «C'era tra loro uno che aveva un'uniforme diversa... Si, era certamente un legionario. Intorno gli stavano quattro o cinque di quegli altri.
«Ed eccolo levare una mano ed agitarla per ammonire. "Non venite, non venite!". Due o tre volte la mano si mosse disperatamente da destra a sinistra. Poi ci parve che quell'ignoto eroe venisse colpito da una pugnalata; e lo vedemmo precipitare a mani tese nella neve. «Allora scaricammo tutte le nostre armi contro quel gruppo di nemici: chi non cadde fuggi e noi, sgombrata la via, potemmo raggiungere per di qui il reparto». Molte volte ripassai, dopo la vittoria, per il «Kolkos del miele»; e sempre mi fermai in stupita attesa, quasi mi fosse dato di vedere risorgere sul colle un gigante che agitasse la mano ad ammonire: «Non venite, non venite!». Ed ecco il secondo fatto, fragrante di quella istintiva umanità che accomuna i sofferenti e gli umili di là d'ogni barriera.
Uno dei nostri feriti di Novaja, s'avviò solo verso Mikailowka. Ma i russi, avevano ormai tagliata la strada che conduceva a quel caposaldo. Perciò accadde che ad un certo momento la camicia nera venne a trovarsi sotto il tiro d'un gruppetto di nemici nascosto dietro un pagliaio. Il legionario si vide perduto: ma ecco sorgergli accanto dalla neve un russo - dico un soldato russo - il quale facendogli scudo del proprio corpo e prendendolo sottobraccio, gli fece capire con gesti che doveva imboccare un'altra via per salvarsi. E se ne andarono cosi, camicia nera e soldato russo, attraverso la bianca steppa. Quando eran quasi giunti alla meta, una raffica che veniva dai suoi, colpi il russo, che s'accasciò al suolo. Il legionario si chinò su di lui per soccorrerlo, ma quegli insisteva perché lo lasciasse al suo destino e per conto proprio si mettesse in salvo nelle nostre linee ormai vicine. Allora il legionario, che sapeva di dover la vita a quell'infelice, benché fosse stremato anche lui, se lo caricò a viva forza sulle spalle. Ed entrarono cosi l'italiano ed il russo, nell'infermeria di Mikailowka, sorreggendosi fraternamente a vicenda.
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