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Trekking ed escursioni in Russia sui campi di battaglia della Seconda Guerra Mondiale
Danilo Dolcini - Phone 349.6472823 - Email danilo.dolcini@gmail.com - FB Un italiano in Russia
domenica 27 dicembre 2020
ARMIR - L'ultima marcia
La campagna di Russia raccontata dai cinegiornali dell'epoca e attraverso le testimonianze dei reduci.
sabato 26 dicembre 2020
Relazione del Tenente Boldoni, parte 3
Relazione sui Carabinieri della Divisione Torino del Generale Attilio Boldoni nel 1942 Sottotenente Comandante della 66a Sezione Carabinieri sul fronte russo, terza parte.
I russi, durante la notte, concentrano il fuoco con armi automatiche, mortai, cannoni, sul facile bersaglio della massa dei nostri soldati costretti a stare all'aperto perché tutte le case erano state occupate dai tedeschi nei giorni precedenti. Il comando della divisione è all'addiaccio sotto il tiro incessante di tutte le armi nemiche. Il bombardamento è intensissimo. Mortai da 120, katiusce, colpi di artiglieria di grosso calibro cadono ovunque. I russi sparano da tutte le parti. Si scavano buche, ci si abbarbica al terreno. Gli italiani - allo scoperto - subiscono immani perdite. Al centro cade più preciso un colpo di mortaio da 120: il Colonnello S.M. Di Gennaro, comandante dell'82° fanteria, che è stato l'estensore del vecchio meraviglioso regolamento di disciplina ha la testa tagliata.
Il Colonnello Rosati, ha le gambe troncate, ma è ancora vivo. Il Colonnello Santini, comandante dell'81°, ferito gravemente. Un solo colpo ha spazzato tre magnifici comandanti e con essi numerosi soldati. Il colonnello Rosati morirà più tardi dopo essere stato colpito nuovamente. Il comandante della 66a sezione sente uno schianto al piede. Una scheggia è penetrata nel suo valenco e grazie allo spessore dello speciale calzare è leggermente ferito. La sua ordinanza - caro e buon Quintilio Bargagni - piange. Ha visto il piede dell'ufficiale e teme per lui... Il destino continua ad essere avverso. Un aereo tedesco sorvola i valorosi della «valle della morte». Lancia un contenitore con armi leggere e benzina che esplode provocando nuove vittime.
Si chiedono armi e arrivano pacchi dono per Natale con marmellata... Il «Führer li manda ai suoi soldati» che non hanno nemmeno il tempo di scartarli perché la morte li ha già ghermiti. Si continua a combattere. Per sfamarsi attaccano anche posizioni prossime ad un alveare che possa fornire alcuni telai di miele e cera od una isba con l'illusione di racimolare qualche pesce salato o qualche manciata di crauti. Si guarda se i morti hanno conservato qualcosa da mangiare. Scatolette di acciughe portoghesi, qualche lettera in italiano; forse hanno fatto anch'essi lo stesso, forse ritenevano di portare a casa un cimelio. Continua a nevicare. La temperatura è proibitiva.
Durante la notte si cerca di ricomporre i reparti. Al mattino successivo si verificano mille e mille episodi eroici, leggendari per la spontaneità con cui sono stati compiuti. Muore durante un assalto il carabiniere Dino Solbani ed il carabiniere Donato Spinelli rimane gravemente ferito. Il comandante della divisione, Generale Roberto Lerici - nella sua relazione sui fatti d'arme - riferisce di aver visto, tra l'altro, un militare che per trascinare i propri all'assalto, monta su un cavallo e con una bandiera tricolore va verso il nemico che viene messo in fuga. Ma chi scrive può riferire più dettagliatamente, perché dell' episodio fu diretto testimone.
Esso si svolse mentre attaccava un caposaldo con i suoi carabinieri della 66a sezione. A questo punto avviene un fatto portentoso, incredibile, della cui realtà, chi scrive, pur essendo stato testimone, si sente ancora istintivamente indotto a dubitare, né riesce a parlarne se non in prima persona, come se nel rievocarlo, risorgesse in lui la suggestione di quel momento indimenticabile: tutt'a un tratto, alle nostre spalle, vediamo avanzare a cavallo un giovane che va risolutamente verso il nemico, agitando una bandiera tricolore e incitando i compagni a un estremo e supremo sforzo di vita o di morte. Chi è quel giovane pressoché imberbe, di cui nessuno conosce il nome, ma che tutti riconosciamo subito come un fratello maggiore e migliore, come un esempio, una guida, un antesignano, un trascinatore? È il carabiniere Giuseppe Plado Mosca: un nome che abbiamo appreso in seguito, che resterà inciso per sempre nei fasti più luminosi dell'Arma. Ma in quel momento egli non può avere alcun nome, perché nulla di personale, circoscritto, di anagraficamente definito è in lui. Egli è assai più che un determinato individuo, che una singola persona, che un qualsiasi mortale il cui fato stia per compiersi: è il simbolo, la personificazione sovrumana, l'ideale sublimazione dell'ultimo anelito invitto in tutti noi; o forse è un essere sovrannaturale, che, invocato dalle preghiere, dalle lacrime delle nostre mamme lontane, «è disceso dal cielo a guidarci verso la salvezza...».
In realtà lo vediamo passare tra noi come una di quelle figure allegoriche, di quegli eroi leggendari e romanzeschi, che già eccitarono la nostra fantasia di fanciulli. Sul bavero del suo lacero pastrano, brillano gli alamari d'argento dei carabinieri e anche quello sembra un segno simbolico. Eretto sul cavallo, egli avanza con slancio crescente, imperturbato, tra gli scoppi delle granate e le raffiche delle mitragliatrici. Avanza come se fosse sospinto da una forza incoercibile, come se nulla possa più arrestarlo. Sopravvenuto alle nostre spalle, ci supera in un baleno, raggiunge la prima linea, scompare verso il nemico. Al suo passaggio ciascuno di noi sente risorgere le proprie forze, ognuno ha la sensazione precisa che il proprio destino non è ancora compiuto: carabinieri, fanti, artiglieri e soldati d'ogni arma e servizio si levano in piedi, come attratti da una suggestione irresistibile, pervasi, ad un tratto, da un incontenibile ardore; tutti si slanciano di corsa Su per l'erta, senza rispettare né vincoli organici, né prudenziali formazioni di combattimento.
Di fronte a tanta subitanea furia ch'esso è ben lungi dall'aspettarsi, l'avversario, ad onta della sua schiacciante preponderanza numerica, non può fare a meno di cedere terreno, di allentare temporaneamente la stretta, sopraffatto da una comprensibile crisi di sgomento che lo induce a ritirarsi dinanzi a noi, abbandonando nelle nostre mani gli ultimi prigionieri catturati, armi, viveri e rifornimenti di vario genere. Il fronte nemico è cosi respinto su tutta la linea e il raggio dell'assedio è allargato. Poco dopo, placatasi la furia di quell'improvviso e paradossale combattimento, ci accorgiamo, ad un tratto, che il cavallo del nostro salvatore, ferito e sanguinante da più parti, sta rientrando faticosamente nelle nostre linee; unica traccia rimasta del suo leggendario cavaliere solo le chiazze di sangue sulla groppa. Ma quel sanguinoso mistero a noi sembra racchiudere il segreto, più che di una morte sconosciuta, d'una vita sovrumana e imperitura: l'invisibile presenza dell'assente è infatti prodigiosamente viva intorno a noi, e ci anima e ci conforta, ingenerando forza, fiducia, speranza nel cuore di ognuno, dal generale comandante al più modesto e lacero soldato, che si regge in piedi con uno sforzo di cui egli Stesso, appena qualche ora prima, si sarebbe ritenuto incapace. Solo in virtù di tale portento, quella massa di uomini disperati e stremati può riuscire a sostenere un'altra intera giornata di combattimenti, ed infine, ad aprirsi un varco verso Tscherkowo.
DA ARBUSOW A TSCHERKOWO.
La sera del 23 dicembre, il generale Lerici ordina la distruzione delle bandiere. Alle 21,30 altro attacco violentissimo dei russi. Ogni combattente prega e affida l'anima a Dio. Ma il contrattacco dell'avanguardia tedesca riesce a rompere in direzione sud-ovest. Si sente di nuovo gridare... La 298a con il suo abile comandante, ten. Col. Michaelis, ha trovato un sentiero. Si riparte. In silenzio si sfila in mezzo alla neve alta mentre i russi, che tutto il giorno avevano ininterrottamente attaccato con reparti scelti al grido «Za Stalinu! Za Rodinu!» (Per Stalin! Per la Patria) riposano, certi di concludere al mattino successivo l'odissea degli italiani. Si marcia - le gambe si allungano - il pericolo si allontana. Dei fari e il rombo caratteristico di autocarri che sopraggiungono verso i nostri reparti. Qualche grido, qualche colpo di pistola e un carico di pagnotte fresche ai soldati affamati. Si riparte.
Nonostante la neve alta e la temperatura discesa a 40° sotto zero, la sanguinante massa di uomini, il 24, raggiunge Sideroski e Gussew, girando poi su Poltawa e Chonodow. Si segue la ferrovia verso nord combattendo con la fanteria, con gli aerei e con il freddo atroce. Da molti giorni non si mangia. Molti impazziscono, rimangono indietro, per il fatale errore si fermano qualche attimo, rimangono assiderati nella steppa come statue di ghiaccio. Il silenzio assoluto, allucinante, è rotto solo dallo scricchiolare del ghiaccio, pestato da fantasmi alla ricerca di un tetto mentre case e castelli appaiono ai loro occhi stralunati. Rari i colpi di pistola... è la disperazione! Fa molto freddo, forse 35°, 40° sotto zero. Il fiato si gela sui baffi, il gavettino rimane incollato sulle labbra e nello staccarlo le fa sanguinare... Si cammina in silenzio... Volontà eccezionale di vivere per raccontare, vivere per pregare, vivere per insegnare a vivere e non a morire.
È la notte di Natale, si spara dappertutto. Si prega, si grida disperatamente, muoiono i feriti, si addormentano lentamente, stretti dal ghiaccio, non gridano più; guardano verso il cielo e con essi il v.b. Gino Antonelli. Alle ore 7,00 del 25 la colonna raggiunge Chodonow e poi Scheptukowka. Si sosta. Aerei russi bombardano. Si marcia tutto il giorno. Non si sente più sparare. Il nemico è lontano... riaffiora una speranza: arrivare in un posto sicuro. Forse si mangia... È di nuovo notte, tutti annaspano, delirano, ogni tanto un grido di meraviglia, un castello, una casa, il mare. Nulla, solo visioni fantastiche. Sembra l'arrivo di una maratona; non sono atleti ma uomini piegati nel loro sforzo, piagati, feriti, sotto il braccio di un amico, soli, stringono i denti. Il vento gelidissimo fischia ed il sibilo si alterna con il calpestio quasi metallico dei passi sul ghiaccio. Tutto è bianco, tutto è squallido... I più stanchi si sdraiano e non si rialzano. Sono statue nell'infinito intorno a loro...
I russi, durante la notte, concentrano il fuoco con armi automatiche, mortai, cannoni, sul facile bersaglio della massa dei nostri soldati costretti a stare all'aperto perché tutte le case erano state occupate dai tedeschi nei giorni precedenti. Il comando della divisione è all'addiaccio sotto il tiro incessante di tutte le armi nemiche. Il bombardamento è intensissimo. Mortai da 120, katiusce, colpi di artiglieria di grosso calibro cadono ovunque. I russi sparano da tutte le parti. Si scavano buche, ci si abbarbica al terreno. Gli italiani - allo scoperto - subiscono immani perdite. Al centro cade più preciso un colpo di mortaio da 120: il Colonnello S.M. Di Gennaro, comandante dell'82° fanteria, che è stato l'estensore del vecchio meraviglioso regolamento di disciplina ha la testa tagliata.
Il Colonnello Rosati, ha le gambe troncate, ma è ancora vivo. Il Colonnello Santini, comandante dell'81°, ferito gravemente. Un solo colpo ha spazzato tre magnifici comandanti e con essi numerosi soldati. Il colonnello Rosati morirà più tardi dopo essere stato colpito nuovamente. Il comandante della 66a sezione sente uno schianto al piede. Una scheggia è penetrata nel suo valenco e grazie allo spessore dello speciale calzare è leggermente ferito. La sua ordinanza - caro e buon Quintilio Bargagni - piange. Ha visto il piede dell'ufficiale e teme per lui... Il destino continua ad essere avverso. Un aereo tedesco sorvola i valorosi della «valle della morte». Lancia un contenitore con armi leggere e benzina che esplode provocando nuove vittime.
Si chiedono armi e arrivano pacchi dono per Natale con marmellata... Il «Führer li manda ai suoi soldati» che non hanno nemmeno il tempo di scartarli perché la morte li ha già ghermiti. Si continua a combattere. Per sfamarsi attaccano anche posizioni prossime ad un alveare che possa fornire alcuni telai di miele e cera od una isba con l'illusione di racimolare qualche pesce salato o qualche manciata di crauti. Si guarda se i morti hanno conservato qualcosa da mangiare. Scatolette di acciughe portoghesi, qualche lettera in italiano; forse hanno fatto anch'essi lo stesso, forse ritenevano di portare a casa un cimelio. Continua a nevicare. La temperatura è proibitiva.
Durante la notte si cerca di ricomporre i reparti. Al mattino successivo si verificano mille e mille episodi eroici, leggendari per la spontaneità con cui sono stati compiuti. Muore durante un assalto il carabiniere Dino Solbani ed il carabiniere Donato Spinelli rimane gravemente ferito. Il comandante della divisione, Generale Roberto Lerici - nella sua relazione sui fatti d'arme - riferisce di aver visto, tra l'altro, un militare che per trascinare i propri all'assalto, monta su un cavallo e con una bandiera tricolore va verso il nemico che viene messo in fuga. Ma chi scrive può riferire più dettagliatamente, perché dell' episodio fu diretto testimone.
Esso si svolse mentre attaccava un caposaldo con i suoi carabinieri della 66a sezione. A questo punto avviene un fatto portentoso, incredibile, della cui realtà, chi scrive, pur essendo stato testimone, si sente ancora istintivamente indotto a dubitare, né riesce a parlarne se non in prima persona, come se nel rievocarlo, risorgesse in lui la suggestione di quel momento indimenticabile: tutt'a un tratto, alle nostre spalle, vediamo avanzare a cavallo un giovane che va risolutamente verso il nemico, agitando una bandiera tricolore e incitando i compagni a un estremo e supremo sforzo di vita o di morte. Chi è quel giovane pressoché imberbe, di cui nessuno conosce il nome, ma che tutti riconosciamo subito come un fratello maggiore e migliore, come un esempio, una guida, un antesignano, un trascinatore? È il carabiniere Giuseppe Plado Mosca: un nome che abbiamo appreso in seguito, che resterà inciso per sempre nei fasti più luminosi dell'Arma. Ma in quel momento egli non può avere alcun nome, perché nulla di personale, circoscritto, di anagraficamente definito è in lui. Egli è assai più che un determinato individuo, che una singola persona, che un qualsiasi mortale il cui fato stia per compiersi: è il simbolo, la personificazione sovrumana, l'ideale sublimazione dell'ultimo anelito invitto in tutti noi; o forse è un essere sovrannaturale, che, invocato dalle preghiere, dalle lacrime delle nostre mamme lontane, «è disceso dal cielo a guidarci verso la salvezza...».
In realtà lo vediamo passare tra noi come una di quelle figure allegoriche, di quegli eroi leggendari e romanzeschi, che già eccitarono la nostra fantasia di fanciulli. Sul bavero del suo lacero pastrano, brillano gli alamari d'argento dei carabinieri e anche quello sembra un segno simbolico. Eretto sul cavallo, egli avanza con slancio crescente, imperturbato, tra gli scoppi delle granate e le raffiche delle mitragliatrici. Avanza come se fosse sospinto da una forza incoercibile, come se nulla possa più arrestarlo. Sopravvenuto alle nostre spalle, ci supera in un baleno, raggiunge la prima linea, scompare verso il nemico. Al suo passaggio ciascuno di noi sente risorgere le proprie forze, ognuno ha la sensazione precisa che il proprio destino non è ancora compiuto: carabinieri, fanti, artiglieri e soldati d'ogni arma e servizio si levano in piedi, come attratti da una suggestione irresistibile, pervasi, ad un tratto, da un incontenibile ardore; tutti si slanciano di corsa Su per l'erta, senza rispettare né vincoli organici, né prudenziali formazioni di combattimento.
Di fronte a tanta subitanea furia ch'esso è ben lungi dall'aspettarsi, l'avversario, ad onta della sua schiacciante preponderanza numerica, non può fare a meno di cedere terreno, di allentare temporaneamente la stretta, sopraffatto da una comprensibile crisi di sgomento che lo induce a ritirarsi dinanzi a noi, abbandonando nelle nostre mani gli ultimi prigionieri catturati, armi, viveri e rifornimenti di vario genere. Il fronte nemico è cosi respinto su tutta la linea e il raggio dell'assedio è allargato. Poco dopo, placatasi la furia di quell'improvviso e paradossale combattimento, ci accorgiamo, ad un tratto, che il cavallo del nostro salvatore, ferito e sanguinante da più parti, sta rientrando faticosamente nelle nostre linee; unica traccia rimasta del suo leggendario cavaliere solo le chiazze di sangue sulla groppa. Ma quel sanguinoso mistero a noi sembra racchiudere il segreto, più che di una morte sconosciuta, d'una vita sovrumana e imperitura: l'invisibile presenza dell'assente è infatti prodigiosamente viva intorno a noi, e ci anima e ci conforta, ingenerando forza, fiducia, speranza nel cuore di ognuno, dal generale comandante al più modesto e lacero soldato, che si regge in piedi con uno sforzo di cui egli Stesso, appena qualche ora prima, si sarebbe ritenuto incapace. Solo in virtù di tale portento, quella massa di uomini disperati e stremati può riuscire a sostenere un'altra intera giornata di combattimenti, ed infine, ad aprirsi un varco verso Tscherkowo.
DA ARBUSOW A TSCHERKOWO.
La sera del 23 dicembre, il generale Lerici ordina la distruzione delle bandiere. Alle 21,30 altro attacco violentissimo dei russi. Ogni combattente prega e affida l'anima a Dio. Ma il contrattacco dell'avanguardia tedesca riesce a rompere in direzione sud-ovest. Si sente di nuovo gridare... La 298a con il suo abile comandante, ten. Col. Michaelis, ha trovato un sentiero. Si riparte. In silenzio si sfila in mezzo alla neve alta mentre i russi, che tutto il giorno avevano ininterrottamente attaccato con reparti scelti al grido «Za Stalinu! Za Rodinu!» (Per Stalin! Per la Patria) riposano, certi di concludere al mattino successivo l'odissea degli italiani. Si marcia - le gambe si allungano - il pericolo si allontana. Dei fari e il rombo caratteristico di autocarri che sopraggiungono verso i nostri reparti. Qualche grido, qualche colpo di pistola e un carico di pagnotte fresche ai soldati affamati. Si riparte.
Nonostante la neve alta e la temperatura discesa a 40° sotto zero, la sanguinante massa di uomini, il 24, raggiunge Sideroski e Gussew, girando poi su Poltawa e Chonodow. Si segue la ferrovia verso nord combattendo con la fanteria, con gli aerei e con il freddo atroce. Da molti giorni non si mangia. Molti impazziscono, rimangono indietro, per il fatale errore si fermano qualche attimo, rimangono assiderati nella steppa come statue di ghiaccio. Il silenzio assoluto, allucinante, è rotto solo dallo scricchiolare del ghiaccio, pestato da fantasmi alla ricerca di un tetto mentre case e castelli appaiono ai loro occhi stralunati. Rari i colpi di pistola... è la disperazione! Fa molto freddo, forse 35°, 40° sotto zero. Il fiato si gela sui baffi, il gavettino rimane incollato sulle labbra e nello staccarlo le fa sanguinare... Si cammina in silenzio... Volontà eccezionale di vivere per raccontare, vivere per pregare, vivere per insegnare a vivere e non a morire.
È la notte di Natale, si spara dappertutto. Si prega, si grida disperatamente, muoiono i feriti, si addormentano lentamente, stretti dal ghiaccio, non gridano più; guardano verso il cielo e con essi il v.b. Gino Antonelli. Alle ore 7,00 del 25 la colonna raggiunge Chodonow e poi Scheptukowka. Si sosta. Aerei russi bombardano. Si marcia tutto il giorno. Non si sente più sparare. Il nemico è lontano... riaffiora una speranza: arrivare in un posto sicuro. Forse si mangia... È di nuovo notte, tutti annaspano, delirano, ogni tanto un grido di meraviglia, un castello, una casa, il mare. Nulla, solo visioni fantastiche. Sembra l'arrivo di una maratona; non sono atleti ma uomini piegati nel loro sforzo, piagati, feriti, sotto il braccio di un amico, soli, stringono i denti. Il vento gelidissimo fischia ed il sibilo si alterna con il calpestio quasi metallico dei passi sul ghiaccio. Tutto è bianco, tutto è squallido... I più stanchi si sdraiano e non si rialzano. Sono statue nell'infinito intorno a loro...
Le mappe dello CSIR e dell'ARMIR 6
Le mappe delle operazioni del CSIR e dell'ARMIR dal giugno 1941 all'ottobre 1942 - Il contributo della Divisione Pasubio nella Battaglia dei due fiumi Dnjestr-Bug (10-12 Agosto 1941).
venerdì 25 dicembre 2020
Campi di prigionia e fosse comuni, parte 6
Grazie al permesso ottenuto dai vertici di U.N.I.R.R. Unione Nazionale Italiana Reduci di Russia, di cui faccio orgogliosamente parte, pubblico la sesta parte di questo interessantissimo documento relativo ai "campi di prigionia e fosse comuni dello CSIR e dell'ARMIR": la scheda dei campi di Basianovka, Bekabad, Belaia Kholuniza, Berezniki e Bistriaghi.
La battaglia di Natale 1941, parte 2
Tutto il materiale proposto fa riferimento all'articolo 70 comma 1 della legge numero 633 del 22 Aprile 1941 che cita "Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l'utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali".
Natale 1941, continua il racconto di Don Biasutti, cappellano della Legione Tagliamento impegnata nello scontro che passerà alla storia come la Battaglia di Natale.
Episodi del martirio di Novaja.
A Novaja, per piegare l'ostinata resistenza dei nostri, i russi subirono gravi perdite. I pochi civili rimasti sul luogo mi dichiararono che i morti e feriti russi erano stati numerosissimi. Ma il nostro presidio locale venne quasi distrutto. Il 27 trovai quattro soli morti, dei nostri. Ne trovammo molti altri due mesi dopo, sotto la neve, in una fossa comune a nord del paese. Ed altri molti ne rinvenni dispersi qua e là sotto la neve, quando venne lo sgelo. In tutto raccogliemmo le salme di quarantadue Caduti. Da parecchi chiari indizi potemmo constatare che i feriti erano stati tutti uccisi.
Lo stesso, del resto, accadde ad Ivanovka, per i bersaglieri feriti, di cui uno solo si salvò. Mi raccontarono che la sera del Natale alcuni russi entrarono in una casa, dove giacevano alcuni bersaglieri. E cominciarono a porlarli fuori ad uno ad uno. Quel tale, a cui ho accennato, sentiva li fuori, di volta in volta, dei colpi d'arma da fuoco. Era ferito al dorso, ma le gambe le aveva sane. Quando capitò il suo turno, si lasciò condurre, fingendosi debole. Ma d'improvviso si gettò contro il russo che lo accompagnava e lo atterrò; e quindi si precipitò, in mutande ed a piedi scalzi, giù per la collina, inseguito subito dopo da raffiche di mitra, che fortunatamente non lo raggiunsero. E riuscì ad arrivare, stremato e congelato, nel caposaldo di Mikailowka.
Certo una simile sorte toccò al nostro Ernesto Zarotti a Novaja. Ferito al capo, era stato trascinato in un'aula delle scuole; ed un civile russo era accorso a portargli da bere. Io lo trovai il 27, ucciso da un colpo a bruciapelo al cuore; mentre il borghese russo, che mi si disse fucilato dai suoi connazionali, giaceva esanime contro il muro di un capannone poco fuori di li. Qualcuno aveva rovistato nelle tasche di Zarotti; intorno a lui giacevano disperse le povere cose del suo portafoglio e proprio sul petto c'era uno di quei «Cuori di Gesù» in stoffa che si usan portare a forma di scapolare. Un folto gruppo dei nostri risultò disperso; se non erro 72, che vennero fatti prigionieri. Di essi ritornarono in cinque: due legionari di Reggio Emilia nel 1946, il C.m. Codeluppi con gli ufficiali, e nel 1951 altri due legionari, uno dell'Emilia ed uno dei mitraglieri di Cuneo.
Poco dopo gli aerei russi ci piovvero spesso addosso dei volantini di propaganda, in cui figuravano - tra i nomi di altri prigionieri italiani - anche quelli di alcuni dei nostri. Io non ero, l'ho detto, a Novaja. Gli episodi di eroismo e di reciproca dedizione che vi fiorirono in quella mattina mortale non si contano: ogni superstite ne narra a non finire. Ne ricorderò solo alcuni. Il caposquadra Pelati Ezio era rimasto ferito all'apice polmonare destro. Il suo amico Giuliano Palmieri, che gli era anche coinquilino e compagno di lavoro nella vita civile, gli fu al fianco con fedelissima amicizia. E quando verso le ore 11, Tonolini diede l'ordine di sfollare i feriti, se possibile, verso Ivanovka o Mikailowka, il Palmieri si avviò verso est sorreggendo il Pelati. Riuscirono ad attraversare il boschetto, ma poco dopo caddero entrambi. Io li ritrovai due mesi dopo, quasi abbracciati in un eterno abbraccio. Nel 1943 tenni in Correggio una conferenza sui miei Caduti; e raccontai, tra l'altro, questo episodio di amicizia fino alla morte. Alla fine della conferenza mi si appressarono due giovani donne vestite a lutto. «Chi siete?». Mi risposero: «Siamo le mogli di Pelati e di Palmieri». Mi si strinse il cuore. Non so perché, mi sentii dire: «E vi volete bene?». Allora si gettarono piangendo l'una nelle braccia dell'altra e dissero: «Come loro!».
Codogni Virginio era rimasto ferito alle gambe, e gli si eran dovuti togliere i pantaloni e le mutande per praticare la prima mediazione. Cosi, con gli arti inferiori ignudi, era stato messo a giacere su poca paglia entro una casa. Quando la furia della battaglia investi anche quella casa, un compagno, di cui non si sa il nome, se lo caricò sulle spalle e si avviò verso Mikailowka, nel tentativo di portarlo all'infermeria del Battaglione. Quel pietoso soccorritore riuscì a passare il boschetto; ma subito dopo una raffica gli uccise sulle spalle il ferito, che scivolò al suolo. Non sappiamo che cosa sia avvenuto dopo. Ma io trovai il Codogni ben composto nella neve: e sulle gambe ignude era stesa un'altra giacca, quella del soccorritore, come se avesse voluto vincere il freddo della stagione e della morte col caldo dono dell'amicizia. Pensate un po' a quello sconosciuto legionario, che se ne va in prigionia in maniche di camicia per un gesto squisito di carità verso il cadavere dell'amico caduto!...
E che dire del buon Mario Losi? Anche lui s'era avviato verso Mikailowka, sorreggendo un ferito. Se fosse stato un pavido od un egoista, si sarebbe salvato. Invece, per quella sua dedizione fraterna, mori. Il ferito, che egli portava, si salvò. Ed il povero Losi rimase fulminato nella neve. Ma, a proposito di dedizione per i feriti, non posso non parlare di un portaferiti della 2a Cp., il «baffuto» Martini Agostino. Ecco che cosa ne scrivevo, lassù, poco dopo averlo ritrovato esanime nella tragica fossa di Novaia. Erano certamente, i suoi, i baffi più belli di tutta la Legione ed egli fierissimamente li portava. Due cespugli biondi che si ergevano superbi, all'«umberta», verso due occhi chiari e virili. Un portaferiti eroico.
Sordo alle mitragliate ed alle cannonate nemiche, sentiva soltanto il richiamo dei compagni colpiti. E una e due e sette volte corse dalla linea al posto di medicazione, trasportando a spalle i camerati che grondavano di sangue generoso. Quando per l'ennesima volta si lanciò senza timore e senza riposo, a compiere il pietoso dovere, la morte lo fermò. Solo la morte lo poteva fermare. Un giorno vidi due baffi biondi come i suoi e ristetti a guardare, quasi sperando ch'egli fosse risorto. Il legionario che possedeva quei baffi dovette leggermi nel pensiero la folle speranza, perché mi disse: - Signor cappellano, ho ereditato io i baffi di Martini. E ne sentii una cocente tristezza. Allora capii che il mio biondo «baffone» era veramente morto.
Ma non la finirei più se volessi tutto raccontare. Permettetemi, tuttavia, che vi riferisca due ultimi fatti, che a mio parere hanno qualcosa di sublime. Uno lo trovo descritto cosi, nelle mie note di allora. Non posso assicurarvi la veridicità dell'episodio che sto per narrare, poiché so quanto è facile alla fantasia del soldato ricamare di leggenda un convulso momento di battaglia. Ma la tragica bellezza di quella mano, che s'agita per dire: «Non venite, non venite!», si è talmente scolpita nella mente che non so e non posso tacere. Ecco, dunque, quanto m'hanno raccontato alcuni legionari, mentre ce n'andavamo nel febbraio del '42 alla ricerca dei Caduti nei gloriosi combattimenti del Natale.
«Vedete, signor Cappellano. Parecchi dei nostri sono discesi per questo canalone nell'intento di raggiungere il villaggio di Mikailowka. Scendevamo in ordine sparso per salvarci quanto più possibile dal tiro dei mortai russi. Una bufera infernale c'investiva da ogni parte cosicché non era difficile smarrire la via. E, quel ch'è peggio, non si sapeva più esattamente dov'erano gli italiani e dove i russi. Accadde perciò che qualcuno fini tra i nemici credendo di arrivare tra i nostri. «Quando giungemmo qui, allo sfociare del canalone, vedemmo gente muoversi su quella groppa di là della balka. Vedete: erano proprio là, ov'è quel gruppo di case, che ora sono note a tutti sotto il nome di Kolkos del miele, poiché vi trovammo miele a quintali.
«Qualcuno gridò: "Sono i bersaglieri". «Ma qualche altro, più cauto, disse: "No. Fate attenzione che sono russi". «In realtà non si poteva discernere bene chi fossero. Ci appiattammo, quindi, tra i cespugli e stemmo ad osservare. «Anche dall'altra parte erano incerti. Ma infine, dalle grida, dal modo di gestire e dal colore dell'uniforme, dopo alcuni momenti d'incertezza, potemmo capire che erano russi per davvero. «Erano russi: ma, credendo che non li avessimo riconosciuti, ci facevano cenni di richiamo, quasi per invitarci a passare il ruscello, come se fossero dei nostri. «Ma allora vedemmo qualcosa che ci mise un brivido nelle vene. «C'era tra loro uno che aveva un'uniforme diversa... Si, era certamente un legionario. Intorno gli stavano quattro o cinque di quegli altri.
«Ed eccolo levare una mano ed agitarla per ammonire. "Non venite, non venite!". Due o tre volte la mano si mosse disperatamente da destra a sinistra. Poi ci parve che quell'ignoto eroe venisse colpito da una pugnalata; e lo vedemmo precipitare a mani tese nella neve. «Allora scaricammo tutte le nostre armi contro quel gruppo di nemici: chi non cadde fuggi e noi, sgombrata la via, potemmo raggiungere per di qui il reparto». Molte volte ripassai, dopo la vittoria, per il «Kolkos del miele»; e sempre mi fermai in stupita attesa, quasi mi fosse dato di vedere risorgere sul colle un gigante che agitasse la mano ad ammonire: «Non venite, non venite!». Ed ecco il secondo fatto, fragrante di quella istintiva umanità che accomuna i sofferenti e gli umili di là d'ogni barriera.
Uno dei nostri feriti di Novaja, s'avviò solo verso Mikailowka. Ma i russi, avevano ormai tagliata la strada che conduceva a quel caposaldo. Perciò accadde che ad un certo momento la camicia nera venne a trovarsi sotto il tiro d'un gruppetto di nemici nascosto dietro un pagliaio. Il legionario si vide perduto: ma ecco sorgergli accanto dalla neve un russo - dico un soldato russo - il quale facendogli scudo del proprio corpo e prendendolo sottobraccio, gli fece capire con gesti che doveva imboccare un'altra via per salvarsi. E se ne andarono cosi, camicia nera e soldato russo, attraverso la bianca steppa. Quando eran quasi giunti alla meta, una raffica che veniva dai suoi, colpi il russo, che s'accasciò al suolo. Il legionario si chinò su di lui per soccorrerlo, ma quegli insisteva perché lo lasciasse al suo destino e per conto proprio si mettesse in salvo nelle nostre linee ormai vicine. Allora il legionario, che sapeva di dover la vita a quell'infelice, benché fosse stremato anche lui, se lo caricò a viva forza sulle spalle. Ed entrarono cosi l'italiano ed il russo, nell'infermeria di Mikailowka, sorreggendosi fraternamente a vicenda.
Natale 1941, continua il racconto di Don Biasutti, cappellano della Legione Tagliamento impegnata nello scontro che passerà alla storia come la Battaglia di Natale.
Episodi del martirio di Novaja.
A Novaja, per piegare l'ostinata resistenza dei nostri, i russi subirono gravi perdite. I pochi civili rimasti sul luogo mi dichiararono che i morti e feriti russi erano stati numerosissimi. Ma il nostro presidio locale venne quasi distrutto. Il 27 trovai quattro soli morti, dei nostri. Ne trovammo molti altri due mesi dopo, sotto la neve, in una fossa comune a nord del paese. Ed altri molti ne rinvenni dispersi qua e là sotto la neve, quando venne lo sgelo. In tutto raccogliemmo le salme di quarantadue Caduti. Da parecchi chiari indizi potemmo constatare che i feriti erano stati tutti uccisi.
Lo stesso, del resto, accadde ad Ivanovka, per i bersaglieri feriti, di cui uno solo si salvò. Mi raccontarono che la sera del Natale alcuni russi entrarono in una casa, dove giacevano alcuni bersaglieri. E cominciarono a porlarli fuori ad uno ad uno. Quel tale, a cui ho accennato, sentiva li fuori, di volta in volta, dei colpi d'arma da fuoco. Era ferito al dorso, ma le gambe le aveva sane. Quando capitò il suo turno, si lasciò condurre, fingendosi debole. Ma d'improvviso si gettò contro il russo che lo accompagnava e lo atterrò; e quindi si precipitò, in mutande ed a piedi scalzi, giù per la collina, inseguito subito dopo da raffiche di mitra, che fortunatamente non lo raggiunsero. E riuscì ad arrivare, stremato e congelato, nel caposaldo di Mikailowka.
Certo una simile sorte toccò al nostro Ernesto Zarotti a Novaja. Ferito al capo, era stato trascinato in un'aula delle scuole; ed un civile russo era accorso a portargli da bere. Io lo trovai il 27, ucciso da un colpo a bruciapelo al cuore; mentre il borghese russo, che mi si disse fucilato dai suoi connazionali, giaceva esanime contro il muro di un capannone poco fuori di li. Qualcuno aveva rovistato nelle tasche di Zarotti; intorno a lui giacevano disperse le povere cose del suo portafoglio e proprio sul petto c'era uno di quei «Cuori di Gesù» in stoffa che si usan portare a forma di scapolare. Un folto gruppo dei nostri risultò disperso; se non erro 72, che vennero fatti prigionieri. Di essi ritornarono in cinque: due legionari di Reggio Emilia nel 1946, il C.m. Codeluppi con gli ufficiali, e nel 1951 altri due legionari, uno dell'Emilia ed uno dei mitraglieri di Cuneo.
Poco dopo gli aerei russi ci piovvero spesso addosso dei volantini di propaganda, in cui figuravano - tra i nomi di altri prigionieri italiani - anche quelli di alcuni dei nostri. Io non ero, l'ho detto, a Novaja. Gli episodi di eroismo e di reciproca dedizione che vi fiorirono in quella mattina mortale non si contano: ogni superstite ne narra a non finire. Ne ricorderò solo alcuni. Il caposquadra Pelati Ezio era rimasto ferito all'apice polmonare destro. Il suo amico Giuliano Palmieri, che gli era anche coinquilino e compagno di lavoro nella vita civile, gli fu al fianco con fedelissima amicizia. E quando verso le ore 11, Tonolini diede l'ordine di sfollare i feriti, se possibile, verso Ivanovka o Mikailowka, il Palmieri si avviò verso est sorreggendo il Pelati. Riuscirono ad attraversare il boschetto, ma poco dopo caddero entrambi. Io li ritrovai due mesi dopo, quasi abbracciati in un eterno abbraccio. Nel 1943 tenni in Correggio una conferenza sui miei Caduti; e raccontai, tra l'altro, questo episodio di amicizia fino alla morte. Alla fine della conferenza mi si appressarono due giovani donne vestite a lutto. «Chi siete?». Mi risposero: «Siamo le mogli di Pelati e di Palmieri». Mi si strinse il cuore. Non so perché, mi sentii dire: «E vi volete bene?». Allora si gettarono piangendo l'una nelle braccia dell'altra e dissero: «Come loro!».
Codogni Virginio era rimasto ferito alle gambe, e gli si eran dovuti togliere i pantaloni e le mutande per praticare la prima mediazione. Cosi, con gli arti inferiori ignudi, era stato messo a giacere su poca paglia entro una casa. Quando la furia della battaglia investi anche quella casa, un compagno, di cui non si sa il nome, se lo caricò sulle spalle e si avviò verso Mikailowka, nel tentativo di portarlo all'infermeria del Battaglione. Quel pietoso soccorritore riuscì a passare il boschetto; ma subito dopo una raffica gli uccise sulle spalle il ferito, che scivolò al suolo. Non sappiamo che cosa sia avvenuto dopo. Ma io trovai il Codogni ben composto nella neve: e sulle gambe ignude era stesa un'altra giacca, quella del soccorritore, come se avesse voluto vincere il freddo della stagione e della morte col caldo dono dell'amicizia. Pensate un po' a quello sconosciuto legionario, che se ne va in prigionia in maniche di camicia per un gesto squisito di carità verso il cadavere dell'amico caduto!...
E che dire del buon Mario Losi? Anche lui s'era avviato verso Mikailowka, sorreggendo un ferito. Se fosse stato un pavido od un egoista, si sarebbe salvato. Invece, per quella sua dedizione fraterna, mori. Il ferito, che egli portava, si salvò. Ed il povero Losi rimase fulminato nella neve. Ma, a proposito di dedizione per i feriti, non posso non parlare di un portaferiti della 2a Cp., il «baffuto» Martini Agostino. Ecco che cosa ne scrivevo, lassù, poco dopo averlo ritrovato esanime nella tragica fossa di Novaia. Erano certamente, i suoi, i baffi più belli di tutta la Legione ed egli fierissimamente li portava. Due cespugli biondi che si ergevano superbi, all'«umberta», verso due occhi chiari e virili. Un portaferiti eroico.
Sordo alle mitragliate ed alle cannonate nemiche, sentiva soltanto il richiamo dei compagni colpiti. E una e due e sette volte corse dalla linea al posto di medicazione, trasportando a spalle i camerati che grondavano di sangue generoso. Quando per l'ennesima volta si lanciò senza timore e senza riposo, a compiere il pietoso dovere, la morte lo fermò. Solo la morte lo poteva fermare. Un giorno vidi due baffi biondi come i suoi e ristetti a guardare, quasi sperando ch'egli fosse risorto. Il legionario che possedeva quei baffi dovette leggermi nel pensiero la folle speranza, perché mi disse: - Signor cappellano, ho ereditato io i baffi di Martini. E ne sentii una cocente tristezza. Allora capii che il mio biondo «baffone» era veramente morto.
Ma non la finirei più se volessi tutto raccontare. Permettetemi, tuttavia, che vi riferisca due ultimi fatti, che a mio parere hanno qualcosa di sublime. Uno lo trovo descritto cosi, nelle mie note di allora. Non posso assicurarvi la veridicità dell'episodio che sto per narrare, poiché so quanto è facile alla fantasia del soldato ricamare di leggenda un convulso momento di battaglia. Ma la tragica bellezza di quella mano, che s'agita per dire: «Non venite, non venite!», si è talmente scolpita nella mente che non so e non posso tacere. Ecco, dunque, quanto m'hanno raccontato alcuni legionari, mentre ce n'andavamo nel febbraio del '42 alla ricerca dei Caduti nei gloriosi combattimenti del Natale.
«Vedete, signor Cappellano. Parecchi dei nostri sono discesi per questo canalone nell'intento di raggiungere il villaggio di Mikailowka. Scendevamo in ordine sparso per salvarci quanto più possibile dal tiro dei mortai russi. Una bufera infernale c'investiva da ogni parte cosicché non era difficile smarrire la via. E, quel ch'è peggio, non si sapeva più esattamente dov'erano gli italiani e dove i russi. Accadde perciò che qualcuno fini tra i nemici credendo di arrivare tra i nostri. «Quando giungemmo qui, allo sfociare del canalone, vedemmo gente muoversi su quella groppa di là della balka. Vedete: erano proprio là, ov'è quel gruppo di case, che ora sono note a tutti sotto il nome di Kolkos del miele, poiché vi trovammo miele a quintali.
«Qualcuno gridò: "Sono i bersaglieri". «Ma qualche altro, più cauto, disse: "No. Fate attenzione che sono russi". «In realtà non si poteva discernere bene chi fossero. Ci appiattammo, quindi, tra i cespugli e stemmo ad osservare. «Anche dall'altra parte erano incerti. Ma infine, dalle grida, dal modo di gestire e dal colore dell'uniforme, dopo alcuni momenti d'incertezza, potemmo capire che erano russi per davvero. «Erano russi: ma, credendo che non li avessimo riconosciuti, ci facevano cenni di richiamo, quasi per invitarci a passare il ruscello, come se fossero dei nostri. «Ma allora vedemmo qualcosa che ci mise un brivido nelle vene. «C'era tra loro uno che aveva un'uniforme diversa... Si, era certamente un legionario. Intorno gli stavano quattro o cinque di quegli altri.
«Ed eccolo levare una mano ed agitarla per ammonire. "Non venite, non venite!". Due o tre volte la mano si mosse disperatamente da destra a sinistra. Poi ci parve che quell'ignoto eroe venisse colpito da una pugnalata; e lo vedemmo precipitare a mani tese nella neve. «Allora scaricammo tutte le nostre armi contro quel gruppo di nemici: chi non cadde fuggi e noi, sgombrata la via, potemmo raggiungere per di qui il reparto». Molte volte ripassai, dopo la vittoria, per il «Kolkos del miele»; e sempre mi fermai in stupita attesa, quasi mi fosse dato di vedere risorgere sul colle un gigante che agitasse la mano ad ammonire: «Non venite, non venite!». Ed ecco il secondo fatto, fragrante di quella istintiva umanità che accomuna i sofferenti e gli umili di là d'ogni barriera.
Uno dei nostri feriti di Novaja, s'avviò solo verso Mikailowka. Ma i russi, avevano ormai tagliata la strada che conduceva a quel caposaldo. Perciò accadde che ad un certo momento la camicia nera venne a trovarsi sotto il tiro d'un gruppetto di nemici nascosto dietro un pagliaio. Il legionario si vide perduto: ma ecco sorgergli accanto dalla neve un russo - dico un soldato russo - il quale facendogli scudo del proprio corpo e prendendolo sottobraccio, gli fece capire con gesti che doveva imboccare un'altra via per salvarsi. E se ne andarono cosi, camicia nera e soldato russo, attraverso la bianca steppa. Quando eran quasi giunti alla meta, una raffica che veniva dai suoi, colpi il russo, che s'accasciò al suolo. Il legionario si chinò su di lui per soccorrerlo, ma quegli insisteva perché lo lasciasse al suo destino e per conto proprio si mettesse in salvo nelle nostre linee ormai vicine. Allora il legionario, che sapeva di dover la vita a quell'infelice, benché fosse stremato anche lui, se lo caricò a viva forza sulle spalle. Ed entrarono cosi l'italiano ed il russo, nell'infermeria di Mikailowka, sorreggendosi fraternamente a vicenda.
giovedì 24 dicembre 2020
Natale 1942
Natale 1942, le parole di Peppino Prisco; il mio omaggio a tutti i caduti, i dispersi ed i reduci della Campagna di Russia.
La battaglia di Natale 1941, parte 1
Tutto il materiale proposto fa riferimento all'articolo 70 comma 1 della legge numero 633 del 22 Aprile 1941 che cita "Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l'utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali".
Associare il periodo di Natale alla Russia porta inevitabilmente a pensare e ricordare l'anno 1942, quando tutto l'ARMIR era schierato sul Don e gran parte delle divisioni erano fortemente impegnate dalle forze sovietiche, ma... quello non fu l'unico Natale per le nostre truppe in Russia; nel 1941 parte dello CSIR, la Divisione Celere e la Legione Tagliamento, furono impegnate nella famosa Battaglia di Natale. Lasciamo che sia il cappellano della Tagliamento, Don Biasutti, a ricordare i tragici fatti di quei giorni.
La battaglia di Natale.
La vigilia del Natale, a Crestowka, dove aveva sede il Comando della Legione, ci si mise a fare un po' di pulizia in uno stanzone buio e pidocchioso, per la Messa di mezzanotte, mentre il cappellano in un angolo attendeva a quell'altra pulizia, confessando. Si preparò un modesto altarino, vennero confezionati sei lumi a nafta con sei scatolette da carne e si scovò persino un «harmonium» per accompagnare con qualche motivo musicale la cerimonia sacra. I nostri legionari, i nostri fanti mortaisti e cannonieri e gli artiglieri delle batterie aggregate affollammo, nell'ora sacra al mistero di Betlem, l'umile stanza che somigliava molto alla stalla in cui nacque Gesù.
Davanti all'altare, come Saul che di tutta la testa si ergeva sul suo esercito, circondato da tutti gli ufficiali, c'era l'alta figura del Comandante la Legione. La luce fumosa delle sei scatolette schiariva soltanto la bandiera tricolore, messa a fondo dell'altare, e, sul bianco di essa, la Croce ed uno di quei piccoli presepi-cartolina, che s'aprono ad armonica, arrivato dall'Italia con la posta del giorno prima. Distribuii la S. Comunione a quasi tutti i presenti e rivolsi alla fine del rito alcune parole d'augurio al Comandante ed a tutti i nostri combattenti. La Messa riuscì tanto altamente suggestiva che ne rimanemmo commossi. «É stata la Messa più bella a cui abbia mai assistito in vita mia - mi dissero molti - meglio che in una cattedrale!».
Noi ci aspettavamo che i russi avrebbero approfittato della notte del Natale, sacra alla nostra fede, per attaccarci. Ed infatti, alle 0,30 del 25 una formazione russa attaccò il caposaldo di Malo Orlowka, ma venne decisamente respinta. Nove prigionieri diranno che, per l'errore di un ufficiale, le truppe destinale alla grande offensiva non s'erano incontrate all'ora prevista, e cioè alla mezzanotte del 24. L'attacco in forze fu quindi rinviato alle prime luci del 23. M'ero gettato, vestito, sulla brandina da campo, quando alle 6 del 25 le artiglierie di Crestowka cominciarono a tuonare. Seppi che Malo era investita da un furioso assalto. Mi precipitai lassù ed assistetti all'ultima fase del combattimento.
Mentre correvo di postazione in postazione per controllare se ci fossero dei feriti e per dire una parola di fede, i legionari volgendo il capo per vedere chi passasse, mi lanciavano un gioioso «Buon Natale, signor Cappellano», e si riconcentravano subito sulle armi. Il ten. Pregelio, ardito e scanzonato, mi invitava a vedere come tirava con l'alzo a zero sul boschetto Tre Croci, coi suoi cannoni anticarro. Verso le 9 parve che dinanzi alle postazioni fosse ormai silenzio. Ed io ottenni dal cent. Mutti di uscire a raccogliere i feriti russi rimasti sul terreno. Ma dal boschetto una raffica di mitra mi costrinse a rientrare. Il fuoco riprese e cessò del tutto verso le 10. Il prigioniero Simeon Sacko dirà: «Ho visto cadere almeno una settantina di miei compagni, tra cui parecchi sottufficiali». Ed altri sei prigionieri dichiareranno che il 50 od il 60 per cento degli attaccanti era stato messo fuori combattimento. Noi a Malo avemmo solo alcuni feriti, di cui l'unico grave il caro Siro Cisilino, che morirà giorni dopo all'ospedale da campo 837. Verso la sera del 25 un russo, rimasto tutto il giorno nella neve, riuscì a trascinarsi presso ad una nostra postazione ed a lanciarvi una bomba a mano che ferì - non gravemente - una delle nostre più vecchie ghirbe, già pratico di guerra. Anche il russo ebbe una gamba spezzata da una raffica di mitragliatore. Mentre il medico gli curava la ferita, io gli mondavo la imboccatura delle maniche, che erano un blocco di ghiaccio, e sfregandogli con la neve le mani congelate, lo rimproveravo dolcemente perché non si fosse arreso prima: «Noi siamo italiani - gli dicevo - e gli italiani sono buoni. Vedi come ti trattiamo».
Mi rispose: «Jesli ja ransce snall» (Se l'avessi saputo prima!). E poco dopo, al ten. Pappalepore, che si avvicinava a vedere come stava, diceva con calore: «Tovarish doctor, spassiba!» (Compagno dottore, grazie!). L'attacco russo del Natale, che investi tutto il settore della Celere, mirava a penetrare a cuneo per la vallata di Alexeievo Orlowo. Bisognava, perciò, scardinare soprattutto i capisaldi di prima linea di Novaja, tenuto dalla 2a Cp. del 79° Btg. con due plotoni di mortaisti e di cannonieri del 63° AA., e di Ivanovka, tenuto dal 18° Btg. del 3° Rgt. Bersaglieri. A Ivanovka i bersaglieri combatterono a lungo eroicamente, ripiegando poi su Michailowka. Lasciarono nelle isbe una trentina di feriti, che trovammo tutti uccisi il giorno 28, quando riconquistammo quel caposaldo. Ne benedirò io il Cimitero il (5 gennaio, sotto la neve; ed il col. Carretto chiamerà ad uno ad uno i nomi dei suoi Caduti con la voce rotta dalla commozione.
A Novaja Orlowka noi avevamo meno di 200 uomini, tra camicie nere e soldati delle Armi Accompagnamento. Li comandavano il cent. Mengoli, i Cm. Tonolini, Codeluppi, Monelli e Barale ed i sottoten. Micale e Zangrande. L'attacco cominciò alle 6 del mattino. I russi erano certi che ne avrebbero avuto ragione d'impeto, o con poca fatica. Il ten. russo Michael Ilia Semionovic, che catturammo il 28 a Woroscilova e che mi si affezionò nelle due notti che passammo assieme, confidava: «Sapevamo che a Novaia eravate pochi; ma ci accorgemmo subito che dovevate aver ricevuto rinforzi, perché la resistenza fu assai maggiore di quanto ci aspettassimo e spezzò l'impeto dei nostri, compromettendo tutti i nostri piani». Di rinforzi, invece, non ce n'erano stati affatto. Circa 900 uomini della 962a Divisione di Fanteria russa irruppero contro il nostro caposaldo e l'avvolsero anche alle spalle. Alle 8 le comunicazioni telefoniche erano già tagliate. Il cent. Mengoli aveva fatto appena a tempo a telefonare: «I russi sono moltissimi. Intensificare il tiro delle artiglierie. Noi ci difenderemo fino all'ultimo».
Poco dopo doveva gettarsi fuori dalla casa, dove aveva sede il Comando, per ricacciare a bombe a mano i russi, che in quel punto riuscivano già ad infiltrarsi. Poi corse, insieme col suo portaordini, ad ordinare lo spostamento di un'arma pesante per tamponare quella falla dello schieramento. Ma nel ritorno rimaneva colpito da una fucilata al petto e cadeva al suolo sui margini della strada. Il fedele portaordini si chinò subito su di lui per soccorrerlo, ma il centurione gli disse: «Non preoccupatevi di me. Per me è finita. Corri dal Cm. Tonolini e digli che si assuma il comando. E di agli ufficiali che resistano fino all'ultimo». Il portaordini andò a portare l'estrema comunicazione del comandante e poi si mosse per ritornare in suo soccorso. Ma intorno a lui che giaceva ferito al suolo c'era già un nucleo di russi. Allora i nostri, ritirandosi dalle case più avanzate, fecero quadrato verso est una prima ed una seconda volta, e continuarono a contendere il passo al nemico casa per casa. Fu una lotta terribile e tragica.
Quando, verso le 11, essendo esaurite le munizioni, venne dato l'ordine di dirigersi verso Michailowka o Ivanovka, ed i superstiti sotto il tiro dei mortai e delle mitragliatrici russe, nel freddo e nella bufera, iniziarono quella che doveva restare famosa come la «via crucis» del dì di Natale, nell'ultima casa rimase a proteggere il ripiegamento il capomanipolo Tonolini Vittorio con alcuni pochi. Il sottotenente Zangrande Girolamo, intanto, s'affannava a portare in salvo i suoi feriti, e per quel pietoso indugio restava preso nella morsa. Dalla casetta si scaricavano sul nemico le ultime cartucce. Poi si fece, d'improvviso, un eloquente silenzio. E qui cedo la parola ad una donna russa che affermò d'aver visto la scena di persona.
«Poiché dalla casa degli italiani non tiravano più, un ufficiale sovietico si avanzò da quest'altra verso di essa, attraverso l'orto, e d'albero in albero. Nessuno sparò. Quando fu a pochi passi si apri la soglia e ne uscì il vostro ufficiale, un giovane alto, senza cappello e con le mani aperte, come per dire che non aveva più "patrone" (cartucce). Allora l'ufficiale russo gli si avvicinò, gli batté la destra sulla spalla in segno di ammirazione e, presolo a braccetto, se n'andò via con lui». Cosi si chiudeva, col riconoscimento dello stesso nemico, l'eroica resistenza di Novaia Orlowka, di cui la Legione «Tagliamento» si coprì di gloria come di un fatto d'armi sublime, anche se sfortunato. Quel giovane senza cappello, era il mio carissimo amico c.man. Tonolini, un «mugugnatore» di temperamento, con cui avevo stretto cordialissimi rapporti nelle sabbie del Dnieper.
I pochi superstiti di quella eroica avventura narrano di lui: «Egli era dappertutto; alle mitragliatrici e tra i feriti; dava ordini agli ufficiali, incoraggiava i combattenti, organizzava due volte il quadrato difensivo, faceva innalzare barricate, spostava le squadre secondo il bisogno, scagliava bombe a mano; aveva perduto l'elmetto e correva da un punto all'altro a capo scoperto, calmo, terribile, invulnerabile». Era suo attendente un vecchio combattente mantovano, di nome Ghiselli, che aveva fatto da ordinanza anche a me, dal 18 al 23, allorché ero stato a Novaia per l'anticipato Natale. Ferito anche lui, nella prima ora di combattimento, sarebbe voluto restare, ma il Tonolini volle che partisse verso Michailowka; tuttavia prima di lasciarlo lo baciò affettuosamente.
Quando più tardi il buon Ghiselli viene a sapere che il suo ufficiale non è rientrato, si leva dalla paglia e dice: « Voglio andar a morire col mio tenente». E brancola verso l'uscita. I camerati accorrono per fermarlo, ma lui è già caduto a terra. Lo portano di nuovo sul suo giaciglio di paglia. E li si mette a piangere come un bambino. «Chissà dov'è il mio tenente! Non lo dovevo lasciare. Dovevo morire con lui». Il Tonolini mori tre anni dopo, in prigionia; nel campo n° 74, colpito a sua volta dal tifo petecchiale, dopo essersi prodigato nell'assistenza dei prigionieri ammalati prima di lui. Cosi mi raccontò don Carlo Caneva, cappellano della «Julia» e fondatore del Tempio dei Caduti in Russia a Cargnacco. Ed una delle cose più dolci della mia povera vita è la testimonianza di don Caneva, che Tonolini mi ricordò a lui in quel triste luogo con memore, cordiale amicizia.
Due o tre chilometri alle spalle di Ivanowka e di Novaia Orlowka, nel fondo della valle, c'era - come ho detto - il caposaldo di seconda linea di Mikailowka, dove c'era il resto del 79° Btg. al comando del 1° sen. Patroncini, il gruppo d'artiglieria del maggiore Borghini ed il Comando di settore. I russi cominciarono a piovere da tutte le parti: dalla balka tra Scevcenko e Novaia, dalla balka di Ivanovka e dalle balze ad est. Mikailowka doveva essere espugnata ed espugnata subito, perché era la posizione chiave di tutta la valle. Ma non venne presa mai. Legionari, fanti ed artiglieri - i quali, quando non poterono più usare dei cannoni, si mescolarono agli altri nelle postazioni - formarono una barriera invalicabile.
Di quella gloriosa resistenza io ricorderò solamente l'episodio della morte del cent. Mario Gentile, comandante della Compagnia mitraglieri di Cuneo, cosi come me lo raccontò il nostro indimenticabile «Peder», cioè il medico del 79°, dott. Pietro Azzolini, trucidato poi a Vetto nel 1945. Il Gentile era corso a disinceppare personalmente una delle sue mitragliatrici e fu ferito mentre stava orientandone il tiro quasi allo scoperto, per poter meglio arrestare i russi che dilagavano giù dalle quote verso Mikailowka. Appena colpito, non si preoccupa di sé, ma ai suoi mitraglieri che accorrono sgomenti dice: - State tranquilli, ragazzi, e resistete sempre. È portato al posto di medicazione. E non ha un lamento. Sorride anzi. Dopo due mesi riesumandone la salma per una migliore sepoltura, ritroverò quel sorriso intatto come se fosse qualcosa d'incorruttibile ed eterno, e mi fermerò stupefatto a contemplarlo.
Io non ero presente alla sua morte, poiché mi trovavo a Malo Orlowka. Fu il medico che, con grande senso cristiano, gli suggerì parole di fede. Ed il buon centurione, sollevando lentamente la mano, si fece un ampio segno di croce. (Cinque giorni prima me n'andavo a celebrare la S. Messa in una casa russa, ove erano di stanza alcuni legionari. - Dove vai, cappellano? - mi chiese. Gli dissi dove. E lui: - Aspettami. Vengo anch'io. Venne infatti. E li, fra le camicie nere, assistette devotamente a quella che doveva essere la sua ultima Messa). La ferita era gravissima, tanto che il centurione cadde presto in quello stato di assopimento che poco più morte. Ma se ne risvegliò due volte. La prima fu per invocare i suoi due bambini, e fare loro, da tanto lungi, l'ultima più soave esortazione: - Diddy!... Pucci!... - disse - Buoni'... Buoni!... E mentre parlava cosi, muoveva le mani a carezzare, come se fossero li, come se sentisse al contatto delle dita le due testine care. La seconda volta, si riscosse per dire: - Mitraglieri. Poi tacque per sempre. Il medico rievoca quell'istante con queste eloquenti parole: - Mi parve trasfigurato e luminoso come un santo d'altare!
Un racconto a parte meriterebbe l'azione compiuta il giorno del Natale della 2a Cp. del 63°, di stanza nel villaggio di Scevcenko Ftoroi, dedicato alla memoria del grande poeta ucraino. Quella Compagnia era comandata da una delle più tipiche figure della Legione, il cent. De Appollonia, «mugugnatore» ed antiretorico per eccellenza ed insieme di un singolare e freddo senso del dovere. Quel che fece coi suoi uomini è forse un po' lasciato in ombra, proprio per la sua natura, schiva di esibizionismi. Ma fu, a mio parere, un'azione intelligente ed efficacissima. Ricevuto l'ordine di accorrere in soccorso della 2a Cp. del 79° a Novaja, il De Appollonia vi si mosse con la sua Compagnia. Ma i russi riempivano la balca tra lui e Novaja. Egli allora andò controllando e disturbando i movimenti russi dall'alto, con una insistenza ed una audacia che costò delle sensibili perdite, anche per il mitragliamento e lo spezzonamento degli aeroplani russi. Infine, con una manovra perfetta arrivò nei pressi di Crestowka e protesse la ritirata del Comando della Legione.
Ma forse il più efficace rapporto di quella azione traspare dal diario del mitragliere caduto, che si trovava appunto con quella Compagnia. «25 Dicembre - Montato di guardia ore 21,30. Ore 1,30 alla mitraglia. Dormito un po' vestito. Ore 7 dobbiamo spostarci. Mitragliati e spezzonati due volte. Visto aggiramento 79° Btg.; 200 tra morti, feriti, dispersi, fra i quali Dormi e Gatti. Due Divisioni russe... Nevica e non si può stare riparati causa pericolo di accerchiamento. Seguitato tutto il giorno a fare spostamenti. Legione tutta ritirata. Noi invece ancora al paese (intende a Crestowka), a causa 4 camion. Dobbiamo proteggere ritirata. Siamo un 30 uomini. Venuti i russi fin davanti la mitraglia. Fatto prigioniero allungando la mano. Venuta pattuglia russa. Ripiegamento tutta fretta. Sono tutto sfinito e bagnato. Ho due dita nere... Ore 22: andati di nuovo in postazione. Attaccato».
A Crestowka tutto il presidio del comando - legionari, fanti ed artiglieri - combatterono fino al pomeriggio. Verso le 2 o 3 si ritirarono ordinatamente a nord, nel caposaldo di Malo, rimasto intatto. Ricordo che c'era una nebbia insidiosa. Io uscii da Malo e mi arrampicai su uno dei pali di controllo dei lavori agricoli per vedere se i nostri avevano la via libera. Grazie a Dio, tutto procedette bene. E la sera del Natale il Comando Legione era al riparo nell'indomato caposaldo di Malo Orlowka. In quell'azione morirono Pregnolato Luigi e Ronutti Giovanni e rimase ferito gravemente Mauro Vittorio che spirava giorni dopo a Rikowo.
Associare il periodo di Natale alla Russia porta inevitabilmente a pensare e ricordare l'anno 1942, quando tutto l'ARMIR era schierato sul Don e gran parte delle divisioni erano fortemente impegnate dalle forze sovietiche, ma... quello non fu l'unico Natale per le nostre truppe in Russia; nel 1941 parte dello CSIR, la Divisione Celere e la Legione Tagliamento, furono impegnate nella famosa Battaglia di Natale. Lasciamo che sia il cappellano della Tagliamento, Don Biasutti, a ricordare i tragici fatti di quei giorni.
La battaglia di Natale.
La vigilia del Natale, a Crestowka, dove aveva sede il Comando della Legione, ci si mise a fare un po' di pulizia in uno stanzone buio e pidocchioso, per la Messa di mezzanotte, mentre il cappellano in un angolo attendeva a quell'altra pulizia, confessando. Si preparò un modesto altarino, vennero confezionati sei lumi a nafta con sei scatolette da carne e si scovò persino un «harmonium» per accompagnare con qualche motivo musicale la cerimonia sacra. I nostri legionari, i nostri fanti mortaisti e cannonieri e gli artiglieri delle batterie aggregate affollammo, nell'ora sacra al mistero di Betlem, l'umile stanza che somigliava molto alla stalla in cui nacque Gesù.
Davanti all'altare, come Saul che di tutta la testa si ergeva sul suo esercito, circondato da tutti gli ufficiali, c'era l'alta figura del Comandante la Legione. La luce fumosa delle sei scatolette schiariva soltanto la bandiera tricolore, messa a fondo dell'altare, e, sul bianco di essa, la Croce ed uno di quei piccoli presepi-cartolina, che s'aprono ad armonica, arrivato dall'Italia con la posta del giorno prima. Distribuii la S. Comunione a quasi tutti i presenti e rivolsi alla fine del rito alcune parole d'augurio al Comandante ed a tutti i nostri combattenti. La Messa riuscì tanto altamente suggestiva che ne rimanemmo commossi. «É stata la Messa più bella a cui abbia mai assistito in vita mia - mi dissero molti - meglio che in una cattedrale!».
Noi ci aspettavamo che i russi avrebbero approfittato della notte del Natale, sacra alla nostra fede, per attaccarci. Ed infatti, alle 0,30 del 25 una formazione russa attaccò il caposaldo di Malo Orlowka, ma venne decisamente respinta. Nove prigionieri diranno che, per l'errore di un ufficiale, le truppe destinale alla grande offensiva non s'erano incontrate all'ora prevista, e cioè alla mezzanotte del 24. L'attacco in forze fu quindi rinviato alle prime luci del 23. M'ero gettato, vestito, sulla brandina da campo, quando alle 6 del 25 le artiglierie di Crestowka cominciarono a tuonare. Seppi che Malo era investita da un furioso assalto. Mi precipitai lassù ed assistetti all'ultima fase del combattimento.
Mentre correvo di postazione in postazione per controllare se ci fossero dei feriti e per dire una parola di fede, i legionari volgendo il capo per vedere chi passasse, mi lanciavano un gioioso «Buon Natale, signor Cappellano», e si riconcentravano subito sulle armi. Il ten. Pregelio, ardito e scanzonato, mi invitava a vedere come tirava con l'alzo a zero sul boschetto Tre Croci, coi suoi cannoni anticarro. Verso le 9 parve che dinanzi alle postazioni fosse ormai silenzio. Ed io ottenni dal cent. Mutti di uscire a raccogliere i feriti russi rimasti sul terreno. Ma dal boschetto una raffica di mitra mi costrinse a rientrare. Il fuoco riprese e cessò del tutto verso le 10. Il prigioniero Simeon Sacko dirà: «Ho visto cadere almeno una settantina di miei compagni, tra cui parecchi sottufficiali». Ed altri sei prigionieri dichiareranno che il 50 od il 60 per cento degli attaccanti era stato messo fuori combattimento. Noi a Malo avemmo solo alcuni feriti, di cui l'unico grave il caro Siro Cisilino, che morirà giorni dopo all'ospedale da campo 837. Verso la sera del 25 un russo, rimasto tutto il giorno nella neve, riuscì a trascinarsi presso ad una nostra postazione ed a lanciarvi una bomba a mano che ferì - non gravemente - una delle nostre più vecchie ghirbe, già pratico di guerra. Anche il russo ebbe una gamba spezzata da una raffica di mitragliatore. Mentre il medico gli curava la ferita, io gli mondavo la imboccatura delle maniche, che erano un blocco di ghiaccio, e sfregandogli con la neve le mani congelate, lo rimproveravo dolcemente perché non si fosse arreso prima: «Noi siamo italiani - gli dicevo - e gli italiani sono buoni. Vedi come ti trattiamo».
Mi rispose: «Jesli ja ransce snall» (Se l'avessi saputo prima!). E poco dopo, al ten. Pappalepore, che si avvicinava a vedere come stava, diceva con calore: «Tovarish doctor, spassiba!» (Compagno dottore, grazie!). L'attacco russo del Natale, che investi tutto il settore della Celere, mirava a penetrare a cuneo per la vallata di Alexeievo Orlowo. Bisognava, perciò, scardinare soprattutto i capisaldi di prima linea di Novaja, tenuto dalla 2a Cp. del 79° Btg. con due plotoni di mortaisti e di cannonieri del 63° AA., e di Ivanovka, tenuto dal 18° Btg. del 3° Rgt. Bersaglieri. A Ivanovka i bersaglieri combatterono a lungo eroicamente, ripiegando poi su Michailowka. Lasciarono nelle isbe una trentina di feriti, che trovammo tutti uccisi il giorno 28, quando riconquistammo quel caposaldo. Ne benedirò io il Cimitero il (5 gennaio, sotto la neve; ed il col. Carretto chiamerà ad uno ad uno i nomi dei suoi Caduti con la voce rotta dalla commozione.
A Novaja Orlowka noi avevamo meno di 200 uomini, tra camicie nere e soldati delle Armi Accompagnamento. Li comandavano il cent. Mengoli, i Cm. Tonolini, Codeluppi, Monelli e Barale ed i sottoten. Micale e Zangrande. L'attacco cominciò alle 6 del mattino. I russi erano certi che ne avrebbero avuto ragione d'impeto, o con poca fatica. Il ten. russo Michael Ilia Semionovic, che catturammo il 28 a Woroscilova e che mi si affezionò nelle due notti che passammo assieme, confidava: «Sapevamo che a Novaia eravate pochi; ma ci accorgemmo subito che dovevate aver ricevuto rinforzi, perché la resistenza fu assai maggiore di quanto ci aspettassimo e spezzò l'impeto dei nostri, compromettendo tutti i nostri piani». Di rinforzi, invece, non ce n'erano stati affatto. Circa 900 uomini della 962a Divisione di Fanteria russa irruppero contro il nostro caposaldo e l'avvolsero anche alle spalle. Alle 8 le comunicazioni telefoniche erano già tagliate. Il cent. Mengoli aveva fatto appena a tempo a telefonare: «I russi sono moltissimi. Intensificare il tiro delle artiglierie. Noi ci difenderemo fino all'ultimo».
Poco dopo doveva gettarsi fuori dalla casa, dove aveva sede il Comando, per ricacciare a bombe a mano i russi, che in quel punto riuscivano già ad infiltrarsi. Poi corse, insieme col suo portaordini, ad ordinare lo spostamento di un'arma pesante per tamponare quella falla dello schieramento. Ma nel ritorno rimaneva colpito da una fucilata al petto e cadeva al suolo sui margini della strada. Il fedele portaordini si chinò subito su di lui per soccorrerlo, ma il centurione gli disse: «Non preoccupatevi di me. Per me è finita. Corri dal Cm. Tonolini e digli che si assuma il comando. E di agli ufficiali che resistano fino all'ultimo». Il portaordini andò a portare l'estrema comunicazione del comandante e poi si mosse per ritornare in suo soccorso. Ma intorno a lui che giaceva ferito al suolo c'era già un nucleo di russi. Allora i nostri, ritirandosi dalle case più avanzate, fecero quadrato verso est una prima ed una seconda volta, e continuarono a contendere il passo al nemico casa per casa. Fu una lotta terribile e tragica.
Quando, verso le 11, essendo esaurite le munizioni, venne dato l'ordine di dirigersi verso Michailowka o Ivanovka, ed i superstiti sotto il tiro dei mortai e delle mitragliatrici russe, nel freddo e nella bufera, iniziarono quella che doveva restare famosa come la «via crucis» del dì di Natale, nell'ultima casa rimase a proteggere il ripiegamento il capomanipolo Tonolini Vittorio con alcuni pochi. Il sottotenente Zangrande Girolamo, intanto, s'affannava a portare in salvo i suoi feriti, e per quel pietoso indugio restava preso nella morsa. Dalla casetta si scaricavano sul nemico le ultime cartucce. Poi si fece, d'improvviso, un eloquente silenzio. E qui cedo la parola ad una donna russa che affermò d'aver visto la scena di persona.
«Poiché dalla casa degli italiani non tiravano più, un ufficiale sovietico si avanzò da quest'altra verso di essa, attraverso l'orto, e d'albero in albero. Nessuno sparò. Quando fu a pochi passi si apri la soglia e ne uscì il vostro ufficiale, un giovane alto, senza cappello e con le mani aperte, come per dire che non aveva più "patrone" (cartucce). Allora l'ufficiale russo gli si avvicinò, gli batté la destra sulla spalla in segno di ammirazione e, presolo a braccetto, se n'andò via con lui». Cosi si chiudeva, col riconoscimento dello stesso nemico, l'eroica resistenza di Novaia Orlowka, di cui la Legione «Tagliamento» si coprì di gloria come di un fatto d'armi sublime, anche se sfortunato. Quel giovane senza cappello, era il mio carissimo amico c.man. Tonolini, un «mugugnatore» di temperamento, con cui avevo stretto cordialissimi rapporti nelle sabbie del Dnieper.
I pochi superstiti di quella eroica avventura narrano di lui: «Egli era dappertutto; alle mitragliatrici e tra i feriti; dava ordini agli ufficiali, incoraggiava i combattenti, organizzava due volte il quadrato difensivo, faceva innalzare barricate, spostava le squadre secondo il bisogno, scagliava bombe a mano; aveva perduto l'elmetto e correva da un punto all'altro a capo scoperto, calmo, terribile, invulnerabile». Era suo attendente un vecchio combattente mantovano, di nome Ghiselli, che aveva fatto da ordinanza anche a me, dal 18 al 23, allorché ero stato a Novaia per l'anticipato Natale. Ferito anche lui, nella prima ora di combattimento, sarebbe voluto restare, ma il Tonolini volle che partisse verso Michailowka; tuttavia prima di lasciarlo lo baciò affettuosamente.
Quando più tardi il buon Ghiselli viene a sapere che il suo ufficiale non è rientrato, si leva dalla paglia e dice: « Voglio andar a morire col mio tenente». E brancola verso l'uscita. I camerati accorrono per fermarlo, ma lui è già caduto a terra. Lo portano di nuovo sul suo giaciglio di paglia. E li si mette a piangere come un bambino. «Chissà dov'è il mio tenente! Non lo dovevo lasciare. Dovevo morire con lui». Il Tonolini mori tre anni dopo, in prigionia; nel campo n° 74, colpito a sua volta dal tifo petecchiale, dopo essersi prodigato nell'assistenza dei prigionieri ammalati prima di lui. Cosi mi raccontò don Carlo Caneva, cappellano della «Julia» e fondatore del Tempio dei Caduti in Russia a Cargnacco. Ed una delle cose più dolci della mia povera vita è la testimonianza di don Caneva, che Tonolini mi ricordò a lui in quel triste luogo con memore, cordiale amicizia.
Due o tre chilometri alle spalle di Ivanowka e di Novaia Orlowka, nel fondo della valle, c'era - come ho detto - il caposaldo di seconda linea di Mikailowka, dove c'era il resto del 79° Btg. al comando del 1° sen. Patroncini, il gruppo d'artiglieria del maggiore Borghini ed il Comando di settore. I russi cominciarono a piovere da tutte le parti: dalla balka tra Scevcenko e Novaia, dalla balka di Ivanovka e dalle balze ad est. Mikailowka doveva essere espugnata ed espugnata subito, perché era la posizione chiave di tutta la valle. Ma non venne presa mai. Legionari, fanti ed artiglieri - i quali, quando non poterono più usare dei cannoni, si mescolarono agli altri nelle postazioni - formarono una barriera invalicabile.
Di quella gloriosa resistenza io ricorderò solamente l'episodio della morte del cent. Mario Gentile, comandante della Compagnia mitraglieri di Cuneo, cosi come me lo raccontò il nostro indimenticabile «Peder», cioè il medico del 79°, dott. Pietro Azzolini, trucidato poi a Vetto nel 1945. Il Gentile era corso a disinceppare personalmente una delle sue mitragliatrici e fu ferito mentre stava orientandone il tiro quasi allo scoperto, per poter meglio arrestare i russi che dilagavano giù dalle quote verso Mikailowka. Appena colpito, non si preoccupa di sé, ma ai suoi mitraglieri che accorrono sgomenti dice: - State tranquilli, ragazzi, e resistete sempre. È portato al posto di medicazione. E non ha un lamento. Sorride anzi. Dopo due mesi riesumandone la salma per una migliore sepoltura, ritroverò quel sorriso intatto come se fosse qualcosa d'incorruttibile ed eterno, e mi fermerò stupefatto a contemplarlo.
Io non ero presente alla sua morte, poiché mi trovavo a Malo Orlowka. Fu il medico che, con grande senso cristiano, gli suggerì parole di fede. Ed il buon centurione, sollevando lentamente la mano, si fece un ampio segno di croce. (Cinque giorni prima me n'andavo a celebrare la S. Messa in una casa russa, ove erano di stanza alcuni legionari. - Dove vai, cappellano? - mi chiese. Gli dissi dove. E lui: - Aspettami. Vengo anch'io. Venne infatti. E li, fra le camicie nere, assistette devotamente a quella che doveva essere la sua ultima Messa). La ferita era gravissima, tanto che il centurione cadde presto in quello stato di assopimento che poco più morte. Ma se ne risvegliò due volte. La prima fu per invocare i suoi due bambini, e fare loro, da tanto lungi, l'ultima più soave esortazione: - Diddy!... Pucci!... - disse - Buoni'... Buoni!... E mentre parlava cosi, muoveva le mani a carezzare, come se fossero li, come se sentisse al contatto delle dita le due testine care. La seconda volta, si riscosse per dire: - Mitraglieri. Poi tacque per sempre. Il medico rievoca quell'istante con queste eloquenti parole: - Mi parve trasfigurato e luminoso come un santo d'altare!
Un racconto a parte meriterebbe l'azione compiuta il giorno del Natale della 2a Cp. del 63°, di stanza nel villaggio di Scevcenko Ftoroi, dedicato alla memoria del grande poeta ucraino. Quella Compagnia era comandata da una delle più tipiche figure della Legione, il cent. De Appollonia, «mugugnatore» ed antiretorico per eccellenza ed insieme di un singolare e freddo senso del dovere. Quel che fece coi suoi uomini è forse un po' lasciato in ombra, proprio per la sua natura, schiva di esibizionismi. Ma fu, a mio parere, un'azione intelligente ed efficacissima. Ricevuto l'ordine di accorrere in soccorso della 2a Cp. del 79° a Novaja, il De Appollonia vi si mosse con la sua Compagnia. Ma i russi riempivano la balca tra lui e Novaja. Egli allora andò controllando e disturbando i movimenti russi dall'alto, con una insistenza ed una audacia che costò delle sensibili perdite, anche per il mitragliamento e lo spezzonamento degli aeroplani russi. Infine, con una manovra perfetta arrivò nei pressi di Crestowka e protesse la ritirata del Comando della Legione.
Ma forse il più efficace rapporto di quella azione traspare dal diario del mitragliere caduto, che si trovava appunto con quella Compagnia. «25 Dicembre - Montato di guardia ore 21,30. Ore 1,30 alla mitraglia. Dormito un po' vestito. Ore 7 dobbiamo spostarci. Mitragliati e spezzonati due volte. Visto aggiramento 79° Btg.; 200 tra morti, feriti, dispersi, fra i quali Dormi e Gatti. Due Divisioni russe... Nevica e non si può stare riparati causa pericolo di accerchiamento. Seguitato tutto il giorno a fare spostamenti. Legione tutta ritirata. Noi invece ancora al paese (intende a Crestowka), a causa 4 camion. Dobbiamo proteggere ritirata. Siamo un 30 uomini. Venuti i russi fin davanti la mitraglia. Fatto prigioniero allungando la mano. Venuta pattuglia russa. Ripiegamento tutta fretta. Sono tutto sfinito e bagnato. Ho due dita nere... Ore 22: andati di nuovo in postazione. Attaccato».
A Crestowka tutto il presidio del comando - legionari, fanti ed artiglieri - combatterono fino al pomeriggio. Verso le 2 o 3 si ritirarono ordinatamente a nord, nel caposaldo di Malo, rimasto intatto. Ricordo che c'era una nebbia insidiosa. Io uscii da Malo e mi arrampicai su uno dei pali di controllo dei lavori agricoli per vedere se i nostri avevano la via libera. Grazie a Dio, tutto procedette bene. E la sera del Natale il Comando Legione era al riparo nell'indomato caposaldo di Malo Orlowka. In quell'azione morirono Pregnolato Luigi e Ronutti Giovanni e rimase ferito gravemente Mauro Vittorio che spirava giorni dopo a Rikowo.
mercoledì 23 dicembre 2020
Relazione del Tenente Boldoni, parte 2
Relazione sui Carabinieri della Divisione Torino del Generale Attilio Boldoni nel 1942 Sottotenente Comandante della 66a Sezione Carabinieri sul fronte russo, seconda parte.
Alle ore 9,20 il generale Lerici espone al comandante del XXIX C. d'A. - via filo - la grave situazione in cui si trova la divisione. Unità corazzate russe sono in procinto di accerchiare la divisione. La strada dell'«avvicendamento» Karascew-Kranzow-Mankowo è tagliata. Il comandante del Corpo d'Armata tedesco dal quale la divisione dipendeva, generale von Obstfelder, risponde «È chiaro che occorre resistere». Alle ore 11 la Pasubio comunica che i russi sparano su Getreide e si trovano a Nowa Bjt Nord. Alle ore 11,10 un ufficiale del comando, inviato in ricognizione, riferisce che vi sono forti infiltrazioni tra Meschoff e Kalmikow. Si ode distintamente il cannoneggiare, il cielo è rosso per gli incendi.
Alle ore 13,30 dopo una telefonata drammatica con il comando del XXIX C. d'A. vengono diramati gli ordini di ripiegamento lungo la linea Kalmikow-Meschoff. Alle ore 16,00 giunge il Comandante del XXXV C.A. Gen. Zingales. Sorge la speranza che si fermi. Invece prosegue. Vuol raggiungere i suoi reparti. Alle ore 21,30 il XXIX C. d'A., modifica la direzione di marcia: sud-ovest, per un possibile ripiegamento. Alle ore 24,00 si interrompe l'ultimo collegamento telefonico. Alle insistenze di un ultimo definitivo ordine di ripiegamento il Gen. Von Obstfelder non risponde... È chiaro che il comando tedesco mira a protrarre la resistenza della Torino per completare il ripiegamento dei suoi reparti.
Da questo momento la Torino perde il collegamento con il proprio C. d'A. anche perché l'unica radio in grado di collegarsi con esso era stata distrutta dal Ten. Bômm, capo nucleo collegamento. Tale atto produrrà gravi ripercussioni sullo svolgimento delle successive operazioni. Alle ore 1,00 del 20, d'accordo con il gruppo Panzer, maggiore Hoffman, la Torino assume il gravoso compito di retroguardia di tutta la colonna. Viene subito disposta la riduzione del numero degli automezzi per dare maggiore autonomia a quelli che rimangono. In colonna, nel massimo ordine, i reparti si muovono. I reggimenti con le loro bandiere, con accanto i carabinieri. Sembra una normale esercitazione...
Già nella ritirata napoleonica le truppe italiane furono le sole Che riportarono le loro insegne in patria. Il Generale Lulli nel 1848, ancora con il cuore fremente per quei ricordi, consegnava, con nobile lettera, quelle insegne a Carlo Alberto. Ma questa volta verranno distrutte col fuoco... Sulla piana di Popowka giungono reparti della 298a tedesca, della Pasubio, della Ravenna e della Celere e servizi di C. d'A. Numerosi gli sbandati. File interminabili di automezzi e di carriaggi. L'81° fanteria, al comando del Col. Santini, giunge contemporaneamente a numerosi soldati di altri reparti. Il primo contatto è agghiacciante. Su una piana sterminata, interrotta da qualche piccola collina, i reparti sostano. Si deve proseguire a sud-est. Un colonnello d'artiglieria, quasi maestoso, in quadrato, dà l'ordine di rendere inservibili i 149/40 di cui l'esercito italiano disponeva solo due gruppi: uno in Russia e l'altro in Africa.
La sua voce trema, i suoi ordini sono precisi. Poi improvvisamente, sbucati dal nulla, carri armati russi T 34 attaccano. Contemporaneamente, piovono colpi di artiglieria e di mortai da 120. Sorpresa, seguita dalla ferma decisione di reagire come si può. Il comandante della 66a sezione con il Capo di S.M., maggiore Turrini, si porta verso l'inizio della colonna, superando difficoltà di ogni genere. Qualcuno si disorienta, piovono colpi di mortaio e granate... Si muore dappertutto. Viva l'Italia!!! si sente gridare. Un brigadiere agita una bandiera tricolore, grida, incita e anche lui muore. È un momento paradossale. Tutti sono decisi a combattere ed a proseguire, ma gli ordini non arrivano. Il generale non si trova perché è con la retroguardia. Finalmente l'incontro, un abbraccio, una lacrima e quindi ordini precisi e di nuovo si passa. La batteria del 52° artiglieria era comandata dal capitano Giorgio Bacchelli, fratello del famoso scrittore.
A Popowka è solo, spara sul nemico; un colonnello gli chiede: «Bacchelli? Siete quello de Il mulino del Po?» «No - risponde - Sono quello del mulo del Don!». Per mancanza di carburante non aveva più alcun trattore... Alzo zero, ordina Bacchelli. Già scorge le facce dei desantij (truppe d'assalto sovietiche) che tra le filacce di nebbia scompaiono sfracellate dalle sue granate. Spara fino all'ultimo pezzo che ricarica e spara. Nel guardare la colonna che sfila, si piega. La sua fronte si è spaccata. Poi da Popowka verso Posnjakow. Tutti gli ufficiali del comando si prodigano, con la pistola in pugno, a superare ogni ostacolo.
Alle ore 7 del 21, violento scontro a Posnjakow per superare uno sbarramento. Carri armati fanno carosello intorno alla colonna, ma vengono tenuti a debita distanza dal gruppo controcarro germanico e dai pezzi anticarro della divisione. Alla balza di Ssmirnowsky nuovo e violento scontro durato un'ora e mezza. Mentre si combatte alla testa, la coda della colonna è nuovamente assalita da fanteria e carri russi. Finalmente alle ore 20 si giunge ad Arbusow. Ma la strada verso sud-ovest è sbarrata. Miriadi di traccianti, come gran festa, coprono il cielo facendo sentire più vicina la presenza di Dio. Si fa il censimento delle artiglierie: solo 3 pezzi da 75/27. Tutto il resto è rimasto sulla strada...
AD ARBUSOW «LA VALLE DELLA MORTE».
Il vero calvario della Torino è iniziato bruscamente col trasferimento da Popowka ad Arbusow, durante il quale anche le sezioni 66a e 56a dei carabinieri devono impegnarsi a fondo, e assai duramente per contenere il nemico, sempre più imbaldanzito e dilagante. L'aspro combattimento di retroguardia, sostenuto da reparti scelti della divisione, si svolge sulle alture della riva sinistra del Tichaja ed impone ai difensori gravissime perdite ma consente al grosso della colonna di sfilare protetto. La disparità delle forze è spaventosa, schiacciante. I carabinieri sono fermamente decisi ad affrontare qualsiasi pericolo, ed accettare in silenzio qualunque sacrificio, con imperturbato e disciplinato fervore. Cadono cosi, nel vortice della battaglia e della tormenta i più puri e silenziosi eroi del dovere e anche molti di quelli che sopravvivono all'offesa delle armi nemiche sono ben presto ghermiti dalla stretta graduale, ma inesorabile, dell'assideramento e della fame. Il gelido candore d'una sterminata coltre di neve ricopre rapidamente numero imprecisabile di corpi umani abbattuti, di carogne di quadrupedi, di armi e di materiali d'ogni genere, sommergendo e cancellando ogni traccia di guerra, di movimento, di vita...
Intanto, alla sera dello stesso giorno 21 dicembre, la colonna principale - anch'essa ormai decimata e stremata - di quella che già fu l'invitta Divisione Torino riesce a trascinarsi fino alla conca di Arbusow, «la valle della morte». Quivi già stazionavano alcuni elementi germanici dello stesso XXIX Corpo d'Armata i quali, sebbene in perfette condizioni di efficienza - perché regolarmente vettovagliati con rancio caldo avevano avuto il compito, assai meno gravoso, di aprire la marcia alla colonna. Mentre sopraggiungono gli ultimi superstiti delle durissime azioni ritardatrici affidate al fior fiore della Torino, la posizione viene ad un tratto investita dal nemico e serrata, in breve evolvere di tempo, in una micidiale morsa di ferro e di fuoco. A far fronte alla tremenda minaccia essenzialmente devono provvedere, ancora una volta, i nostri combattenti, i quali, benché già spossati dalle vicende della giornata affamati e ormai sprovvisti di munizioni, ritrovano ancora la forza di resistere agli attacchi, ora più vigorosi e soverchianti, dei russi che sembrano proprio decisi a fare di quella sciagurata conca la tomba di quanti osino continuare ad opporsi ai travolgenti sviluppi della loro marcia inesorabile.
Per due intere giornate la colonna rimane assediata nella conca di Arbusow, subendo sempre più dappresso l'attacco di agguerrite unità nemiche, le quali, senza posa, tentano d'annientarla. Fin dal mattino del 22 dicembre, la situazione si fa tanto insostenibile che il comando della Torino, d'intesa col comando tedesco, decide di tentare un ultimo disperato sforzo per allargare il cerchio, cosi da ridare un po' di respiro alla difesa. Dovrebbe essere un contrattacco generale delle truppe italo-germaniche, irradiantesi nelle varie direzioni più redditizie, dal centro, dove saranno riunite per l'accompagnamento dell'azione, le armi pesanti ancora utilizzabili (cannoni, mortai e mitragliatrici).
Per questa prova suprema, i superstiti della Torino vengono suddivisi in piccoli gruppi al comando dei pochi ufficiali, sottufficiali e graduati più validi, cosi da poter tentare l'estremo assalto in diverse direzioni convergendo, subito dopo, verso quella dove si fosse, verificato un principio di cedimento avversario, onde sfruttarlo senza perdere tempo. Ma i reparti germanici sembrano tutt'altro che disposti ad impegnarsi a fondo, ed è tale lo sfinimento di quasi tutti gli italiani e la disparità delle forze che il tentativo appare agli stessi suoi organizzatori e comandanti, ineluttabilmente condannato all'insuccesso. Arbusow è una località situata al centro di alture che erano dominate dai russi. Questa località, verrà indicata come «Alcazar degli italiani» per i loro atti di eroismo.
Alle ore 9,20 il generale Lerici espone al comandante del XXIX C. d'A. - via filo - la grave situazione in cui si trova la divisione. Unità corazzate russe sono in procinto di accerchiare la divisione. La strada dell'«avvicendamento» Karascew-Kranzow-Mankowo è tagliata. Il comandante del Corpo d'Armata tedesco dal quale la divisione dipendeva, generale von Obstfelder, risponde «È chiaro che occorre resistere». Alle ore 11 la Pasubio comunica che i russi sparano su Getreide e si trovano a Nowa Bjt Nord. Alle ore 11,10 un ufficiale del comando, inviato in ricognizione, riferisce che vi sono forti infiltrazioni tra Meschoff e Kalmikow. Si ode distintamente il cannoneggiare, il cielo è rosso per gli incendi.
Alle ore 13,30 dopo una telefonata drammatica con il comando del XXIX C. d'A. vengono diramati gli ordini di ripiegamento lungo la linea Kalmikow-Meschoff. Alle ore 16,00 giunge il Comandante del XXXV C.A. Gen. Zingales. Sorge la speranza che si fermi. Invece prosegue. Vuol raggiungere i suoi reparti. Alle ore 21,30 il XXIX C. d'A., modifica la direzione di marcia: sud-ovest, per un possibile ripiegamento. Alle ore 24,00 si interrompe l'ultimo collegamento telefonico. Alle insistenze di un ultimo definitivo ordine di ripiegamento il Gen. Von Obstfelder non risponde... È chiaro che il comando tedesco mira a protrarre la resistenza della Torino per completare il ripiegamento dei suoi reparti.
Da questo momento la Torino perde il collegamento con il proprio C. d'A. anche perché l'unica radio in grado di collegarsi con esso era stata distrutta dal Ten. Bômm, capo nucleo collegamento. Tale atto produrrà gravi ripercussioni sullo svolgimento delle successive operazioni. Alle ore 1,00 del 20, d'accordo con il gruppo Panzer, maggiore Hoffman, la Torino assume il gravoso compito di retroguardia di tutta la colonna. Viene subito disposta la riduzione del numero degli automezzi per dare maggiore autonomia a quelli che rimangono. In colonna, nel massimo ordine, i reparti si muovono. I reggimenti con le loro bandiere, con accanto i carabinieri. Sembra una normale esercitazione...
Già nella ritirata napoleonica le truppe italiane furono le sole Che riportarono le loro insegne in patria. Il Generale Lulli nel 1848, ancora con il cuore fremente per quei ricordi, consegnava, con nobile lettera, quelle insegne a Carlo Alberto. Ma questa volta verranno distrutte col fuoco... Sulla piana di Popowka giungono reparti della 298a tedesca, della Pasubio, della Ravenna e della Celere e servizi di C. d'A. Numerosi gli sbandati. File interminabili di automezzi e di carriaggi. L'81° fanteria, al comando del Col. Santini, giunge contemporaneamente a numerosi soldati di altri reparti. Il primo contatto è agghiacciante. Su una piana sterminata, interrotta da qualche piccola collina, i reparti sostano. Si deve proseguire a sud-est. Un colonnello d'artiglieria, quasi maestoso, in quadrato, dà l'ordine di rendere inservibili i 149/40 di cui l'esercito italiano disponeva solo due gruppi: uno in Russia e l'altro in Africa.
La sua voce trema, i suoi ordini sono precisi. Poi improvvisamente, sbucati dal nulla, carri armati russi T 34 attaccano. Contemporaneamente, piovono colpi di artiglieria e di mortai da 120. Sorpresa, seguita dalla ferma decisione di reagire come si può. Il comandante della 66a sezione con il Capo di S.M., maggiore Turrini, si porta verso l'inizio della colonna, superando difficoltà di ogni genere. Qualcuno si disorienta, piovono colpi di mortaio e granate... Si muore dappertutto. Viva l'Italia!!! si sente gridare. Un brigadiere agita una bandiera tricolore, grida, incita e anche lui muore. È un momento paradossale. Tutti sono decisi a combattere ed a proseguire, ma gli ordini non arrivano. Il generale non si trova perché è con la retroguardia. Finalmente l'incontro, un abbraccio, una lacrima e quindi ordini precisi e di nuovo si passa. La batteria del 52° artiglieria era comandata dal capitano Giorgio Bacchelli, fratello del famoso scrittore.
A Popowka è solo, spara sul nemico; un colonnello gli chiede: «Bacchelli? Siete quello de Il mulino del Po?» «No - risponde - Sono quello del mulo del Don!». Per mancanza di carburante non aveva più alcun trattore... Alzo zero, ordina Bacchelli. Già scorge le facce dei desantij (truppe d'assalto sovietiche) che tra le filacce di nebbia scompaiono sfracellate dalle sue granate. Spara fino all'ultimo pezzo che ricarica e spara. Nel guardare la colonna che sfila, si piega. La sua fronte si è spaccata. Poi da Popowka verso Posnjakow. Tutti gli ufficiali del comando si prodigano, con la pistola in pugno, a superare ogni ostacolo.
Alle ore 7 del 21, violento scontro a Posnjakow per superare uno sbarramento. Carri armati fanno carosello intorno alla colonna, ma vengono tenuti a debita distanza dal gruppo controcarro germanico e dai pezzi anticarro della divisione. Alla balza di Ssmirnowsky nuovo e violento scontro durato un'ora e mezza. Mentre si combatte alla testa, la coda della colonna è nuovamente assalita da fanteria e carri russi. Finalmente alle ore 20 si giunge ad Arbusow. Ma la strada verso sud-ovest è sbarrata. Miriadi di traccianti, come gran festa, coprono il cielo facendo sentire più vicina la presenza di Dio. Si fa il censimento delle artiglierie: solo 3 pezzi da 75/27. Tutto il resto è rimasto sulla strada...
AD ARBUSOW «LA VALLE DELLA MORTE».
Il vero calvario della Torino è iniziato bruscamente col trasferimento da Popowka ad Arbusow, durante il quale anche le sezioni 66a e 56a dei carabinieri devono impegnarsi a fondo, e assai duramente per contenere il nemico, sempre più imbaldanzito e dilagante. L'aspro combattimento di retroguardia, sostenuto da reparti scelti della divisione, si svolge sulle alture della riva sinistra del Tichaja ed impone ai difensori gravissime perdite ma consente al grosso della colonna di sfilare protetto. La disparità delle forze è spaventosa, schiacciante. I carabinieri sono fermamente decisi ad affrontare qualsiasi pericolo, ed accettare in silenzio qualunque sacrificio, con imperturbato e disciplinato fervore. Cadono cosi, nel vortice della battaglia e della tormenta i più puri e silenziosi eroi del dovere e anche molti di quelli che sopravvivono all'offesa delle armi nemiche sono ben presto ghermiti dalla stretta graduale, ma inesorabile, dell'assideramento e della fame. Il gelido candore d'una sterminata coltre di neve ricopre rapidamente numero imprecisabile di corpi umani abbattuti, di carogne di quadrupedi, di armi e di materiali d'ogni genere, sommergendo e cancellando ogni traccia di guerra, di movimento, di vita...
Intanto, alla sera dello stesso giorno 21 dicembre, la colonna principale - anch'essa ormai decimata e stremata - di quella che già fu l'invitta Divisione Torino riesce a trascinarsi fino alla conca di Arbusow, «la valle della morte». Quivi già stazionavano alcuni elementi germanici dello stesso XXIX Corpo d'Armata i quali, sebbene in perfette condizioni di efficienza - perché regolarmente vettovagliati con rancio caldo avevano avuto il compito, assai meno gravoso, di aprire la marcia alla colonna. Mentre sopraggiungono gli ultimi superstiti delle durissime azioni ritardatrici affidate al fior fiore della Torino, la posizione viene ad un tratto investita dal nemico e serrata, in breve evolvere di tempo, in una micidiale morsa di ferro e di fuoco. A far fronte alla tremenda minaccia essenzialmente devono provvedere, ancora una volta, i nostri combattenti, i quali, benché già spossati dalle vicende della giornata affamati e ormai sprovvisti di munizioni, ritrovano ancora la forza di resistere agli attacchi, ora più vigorosi e soverchianti, dei russi che sembrano proprio decisi a fare di quella sciagurata conca la tomba di quanti osino continuare ad opporsi ai travolgenti sviluppi della loro marcia inesorabile.
Per due intere giornate la colonna rimane assediata nella conca di Arbusow, subendo sempre più dappresso l'attacco di agguerrite unità nemiche, le quali, senza posa, tentano d'annientarla. Fin dal mattino del 22 dicembre, la situazione si fa tanto insostenibile che il comando della Torino, d'intesa col comando tedesco, decide di tentare un ultimo disperato sforzo per allargare il cerchio, cosi da ridare un po' di respiro alla difesa. Dovrebbe essere un contrattacco generale delle truppe italo-germaniche, irradiantesi nelle varie direzioni più redditizie, dal centro, dove saranno riunite per l'accompagnamento dell'azione, le armi pesanti ancora utilizzabili (cannoni, mortai e mitragliatrici).
Per questa prova suprema, i superstiti della Torino vengono suddivisi in piccoli gruppi al comando dei pochi ufficiali, sottufficiali e graduati più validi, cosi da poter tentare l'estremo assalto in diverse direzioni convergendo, subito dopo, verso quella dove si fosse, verificato un principio di cedimento avversario, onde sfruttarlo senza perdere tempo. Ma i reparti germanici sembrano tutt'altro che disposti ad impegnarsi a fondo, ed è tale lo sfinimento di quasi tutti gli italiani e la disparità delle forze che il tentativo appare agli stessi suoi organizzatori e comandanti, ineluttabilmente condannato all'insuccesso. Arbusow è una località situata al centro di alture che erano dominate dai russi. Questa località, verrà indicata come «Alcazar degli italiani» per i loro atti di eroismo.
domenica 20 dicembre 2020
Andare...
Cos'è il "mal di Russia"? Nostalgia, uno stato dell'anima prima ancora che mentale, il respiro che manca all'improvviso e quella struggente malinconia che ti coglie...
Libri: "MEDAGLIE ORIGINALI"
In questo libro ogni medaglia è fotografata a colori al dritto ed al rovescio e numerosi ingrandimenti permettono al collezionista di distinguere la medaglia “originale” da un “riconio o imitazione”. Per ogni medaglia vengono specificati il peso, il diametro, l’autore del conio e la ditta produttrice. Viene proposta inoltre una descrizione sintetica di quanto raffigurato nella medaglia: sul dritto viene rappresentato uno o più elementi significativi degli Alpini e della città ospitante e sul rovescio il logo dell’ANA, lo stemma della città e la data dell’evento. E’ inoltre specificato il metallo impiegato per il conio. Per quanto possibile sono state catalogate anche le medaglie argentate o in argento degli anni Venti; dal 1983 (Adunata di Udine) fino all’Adunata Nazionale di Milano 2019 sono state catalogate le medaglie in argento numerate. Sono state pubblicate anche le foto relative alle medaglie degli anniversari del Corpo degli Alpini e dell’Associazione Nazionale Alpini.
Il testo è acquistabile al seguente link https://www.editorialedelfino.it/medaglie-originali-delle-adunate-nazionali-degli-alpini.html.
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