5 SETTEMBRE - Giornata dedicata ad Arbusowka, la "valle della morte: quella che fu probabilmente Arbusowka alta all'epoca dei fatti.
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Trekking ed escursioni in Russia sui campi di battaglia della Seconda Guerra Mondiale
Danilo Dolcini - Phone 349.6472823 - Email danilo.dolcini@gmail.com - FB Un italiano in Russia
venerdì 6 settembre 2019
Diario di viaggio, giorno 5
5 SETTEMBRE - Giornata dedicata ad Arbusowka, la "valle della morte: dal libro “L’aurora a occidente” di Mario Bellini si evinco particolari geografici che ci consentono di capire meglio cosa davvero si verificò ad Arbusovka: “Risalii le file stanche e disarticolate della colonna. I bagliori degli enormi falò che bruciavano nell'abitato di Arbusow, nel nero metallico della notte, coloravano di rosa e di arancione la neve compatta di un vasto pianoro, nel quale come un estuario, si immetteva la strada che stavamo percorrendo. Bruciavano le isbe di un agglomerato di case, mentre era in corso uno scontro fra reparti tedeschi che avevano preso posizione sulla sinistra e forze russe già appostate sulla destra. Dalle traiettorie delle traccianti e dalle parabole dei bengala che partivano dalle contrapposte posizioni riuscii a capire che ci trovavamo in una valletta stesa fra due linee di colline”.
“Mentre il fuoco incrociato delle mitragliatrici continuava, piovvero tra le isbe i proiettili dei mortai. Il fragore delle esplosioni si accompagnava al bagliore accecante delle vampe seguito dalle nuvole di fumo acre color antracite. Cominciò la grande mattanza che andò avanti per due giorni. Ogni volta quelle esplosioni facevano volare come stracci i corpi dei colpiti, uccidendoli o martirizzandoli”. “I feriti, con le membra spezzate e mutilate, venivano trascinati via e affidati ai medici che, senza attrezzatura e con scarsissimi materiali, iniziarono, su questa banchina glaciale, un prodigioso impegno che sarebbe andato avanti fino alla notte del 24 dicembre e che alcuni di loro avrebbero proseguito in prigionia, restando a fianco dei loro sventurati pazienti. Tutti i feriti, da quella sera, iniziarono un vero calvario. I più fortunati furono stivati in fredde isbe. La maggior parte rimase all'addiaccio. Venivano addossati alle pareti esterne delle case o ai pagliai, avvolti in coperte. Molti sarebbero morti assiderati”.
“Il mio cervello lavorava febbrilmente mentre osservavo gli elmetti a campana dei russi che dalla collina alla mia destra stavano scendendo verso di noi. Tutta la valle era piena di vampe, di scoppi e di fumo; ciò rendeva difficile scambiare qualche parola. Molti erano già stati afferrati dal panico che, purtroppo, si stava diffondendo”. “In quel momento, soffocato da una massa di gente terrorizzata e pronta a essere macellata, conobbi la paura. Fui afferrato da una specie di ipnosi. Mi spoglia interiormente di ogni cosa, orgoglio, ideali. Mi sentii incapace di ogni scelta, perfino della libertà di movimento. Ero inerte, più che rassegnato; pronto a essere catturato”. “Senza badare al pericolo, percorremmo lo scenario degli innumerevoli scontri di quel giorno. Ci avviammo lentamente lungo il pendio in leggera salita che da Arbusow bassa porta ad Arbusow alta, l’ultima propaggine della quale era in mano al nemico che da qualche centinaio di metri ci osservava senza difficoltà”.
“Arrivammo alle ultime case del primo agglomerato di Arbusow alta. Cominciava a quel punto il tratto di strada che era terra di nessuno. Più avanti si notavano le chiazze bianche delle isbe occupate dai russi. Là era piazzata la mitragliatrice che continuava a lanciare traccianti le cui traiettorie dividevano a metà la vallata”. “Mano a mano che quella notte terribile aveva scandito il suo tempo malvagio, si erano affievoliti i lamenti dei feriti e dei congelati che, non avendo trovato posto al coperto, erano stati collocati in giacigli di paglia addossati alle pareti esterne delle isbe. Quasi tutti erano morti”. “Ero certo che i tedeschi si erano già concentrati nella direzione sud - sud ovest a immediato contatto con il nemico. Non ne vedevo più nessuno sulle strade del paese. Noi italiani avevamo ancora dei reparti della Torino e di camicie nere efficienti a presidio di qualche caposaldo”.
“Verso le 9 si diffuse l’ordine del comando italiano di concentrarsi nella balca Mensinchina, una valletta defilata che si apriva nel pianoro all'inizio del paese di Arbusow. Ci avviammo in quella direzione con la speranza di sfuggire al massacro. Ci allontanavamo, però, dalla linea di contatto con il nemico, dove la colonna sarebbe dovuta penetrare se si fosse aperto un varco”. “Mi ero avviato lungo una balca parallela: era una fenditura incassata con pareti profonde circa 2-3 metri. Vi erano gruppi di soldati seduti in terra, immobili e silenziosi. Chiesi loro se più avanti vi fossero reparti italiani. Mi risposero che c’erano i tedeschi. Avanzai ancora per qualche centinaio di metri e raggiunsi un incrocio nel quale confluiva una fenditura trasversale che proveniva dall’abitato di Arbusow. La balca da me percorsa proseguiva oltre l’incrocio”.
Queste le testimonianze di alcuni dei protagonisti; ma la tragedia che vissero i nostri soldati nella “valle della morte” la si evince in tutta la sua drammaticità dalle cifre: durante gli scontri che si verificarono nella località dal 21 al 25 dicembre 1942 su circa 25.000 italiani, ben 20.500 furono i morti, i prigionieri ed i feriti; solo 4.500 uomini, oltre ad un certo numero di tedeschi della 298° Divisione di Fanteria germanica, riuscirono a sfondare verso la successiva località di Tscherkowo.
“Mentre il fuoco incrociato delle mitragliatrici continuava, piovvero tra le isbe i proiettili dei mortai. Il fragore delle esplosioni si accompagnava al bagliore accecante delle vampe seguito dalle nuvole di fumo acre color antracite. Cominciò la grande mattanza che andò avanti per due giorni. Ogni volta quelle esplosioni facevano volare come stracci i corpi dei colpiti, uccidendoli o martirizzandoli”. “I feriti, con le membra spezzate e mutilate, venivano trascinati via e affidati ai medici che, senza attrezzatura e con scarsissimi materiali, iniziarono, su questa banchina glaciale, un prodigioso impegno che sarebbe andato avanti fino alla notte del 24 dicembre e che alcuni di loro avrebbero proseguito in prigionia, restando a fianco dei loro sventurati pazienti. Tutti i feriti, da quella sera, iniziarono un vero calvario. I più fortunati furono stivati in fredde isbe. La maggior parte rimase all'addiaccio. Venivano addossati alle pareti esterne delle case o ai pagliai, avvolti in coperte. Molti sarebbero morti assiderati”.
“Il mio cervello lavorava febbrilmente mentre osservavo gli elmetti a campana dei russi che dalla collina alla mia destra stavano scendendo verso di noi. Tutta la valle era piena di vampe, di scoppi e di fumo; ciò rendeva difficile scambiare qualche parola. Molti erano già stati afferrati dal panico che, purtroppo, si stava diffondendo”. “In quel momento, soffocato da una massa di gente terrorizzata e pronta a essere macellata, conobbi la paura. Fui afferrato da una specie di ipnosi. Mi spoglia interiormente di ogni cosa, orgoglio, ideali. Mi sentii incapace di ogni scelta, perfino della libertà di movimento. Ero inerte, più che rassegnato; pronto a essere catturato”. “Senza badare al pericolo, percorremmo lo scenario degli innumerevoli scontri di quel giorno. Ci avviammo lentamente lungo il pendio in leggera salita che da Arbusow bassa porta ad Arbusow alta, l’ultima propaggine della quale era in mano al nemico che da qualche centinaio di metri ci osservava senza difficoltà”.
“Arrivammo alle ultime case del primo agglomerato di Arbusow alta. Cominciava a quel punto il tratto di strada che era terra di nessuno. Più avanti si notavano le chiazze bianche delle isbe occupate dai russi. Là era piazzata la mitragliatrice che continuava a lanciare traccianti le cui traiettorie dividevano a metà la vallata”. “Mano a mano che quella notte terribile aveva scandito il suo tempo malvagio, si erano affievoliti i lamenti dei feriti e dei congelati che, non avendo trovato posto al coperto, erano stati collocati in giacigli di paglia addossati alle pareti esterne delle isbe. Quasi tutti erano morti”. “Ero certo che i tedeschi si erano già concentrati nella direzione sud - sud ovest a immediato contatto con il nemico. Non ne vedevo più nessuno sulle strade del paese. Noi italiani avevamo ancora dei reparti della Torino e di camicie nere efficienti a presidio di qualche caposaldo”.
“Verso le 9 si diffuse l’ordine del comando italiano di concentrarsi nella balca Mensinchina, una valletta defilata che si apriva nel pianoro all'inizio del paese di Arbusow. Ci avviammo in quella direzione con la speranza di sfuggire al massacro. Ci allontanavamo, però, dalla linea di contatto con il nemico, dove la colonna sarebbe dovuta penetrare se si fosse aperto un varco”. “Mi ero avviato lungo una balca parallela: era una fenditura incassata con pareti profonde circa 2-3 metri. Vi erano gruppi di soldati seduti in terra, immobili e silenziosi. Chiesi loro se più avanti vi fossero reparti italiani. Mi risposero che c’erano i tedeschi. Avanzai ancora per qualche centinaio di metri e raggiunsi un incrocio nel quale confluiva una fenditura trasversale che proveniva dall’abitato di Arbusow. La balca da me percorsa proseguiva oltre l’incrocio”.
Queste le testimonianze di alcuni dei protagonisti; ma la tragedia che vissero i nostri soldati nella “valle della morte” la si evince in tutta la sua drammaticità dalle cifre: durante gli scontri che si verificarono nella località dal 21 al 25 dicembre 1942 su circa 25.000 italiani, ben 20.500 furono i morti, i prigionieri ed i feriti; solo 4.500 uomini, oltre ad un certo numero di tedeschi della 298° Divisione di Fanteria germanica, riuscirono a sfondare verso la successiva località di Tscherkowo.
Diario di viaggio, giorno 5
5 SETTEMBRE - Giornata dedicata ad Arbusowka, la "valle della morte: quel che resta di un campo di battaglia.
Diario di viaggio, giorno 5, Arbusowka
5 SETTEMBRE - Giornata dedicata ad Arbusowka, la "valle della morte: giro di orizzonte con le alture tenute dai russi.
Diario di viaggio, giorno 5, Arbusowka
5 SETTEMBRE - Giornata dedicata ad Arbusowka, la "valle della morte: fra i resti delle isbe di Arbusowka bassa; qui vennero improvvisati dei piccoli ospedaletti dove i nostri soldati morirono a centinaia per il freddo e per le ferite.
Diario di viaggio, giorno 5
5 SETTEMBRE - Giornata dedicata ad Arbusowka, la "valle della morte: dal libro “Da i più non ritornano” di Eugenio Corti: “Arbusov si trova in una grande vallata ovale, poco profonda. È costituita essenzialmente da un agglomerato di isbe, poco sopra la base di uno dei due pendii maggiori: se ricordo bene, quello nord. Da tale agglomerato si staccano verso est - mantenendosi sul pendio - numerose casupole sparse, dapprima abbastanza vicine, poi sempre più lontane tra loro e come disperse. Dalla parte opposta, dunque a ovest, esce invece dall'agglomerato una lunghissima fila di isbe che - fiancheggiata da una strada - risale obliquamente il pendio fino ad allargarsi, in alto, in un agglomerato minore. Da questa lunghissima fila si dirama in direzione sud un’altra file di abitazioni piuttosto distanziate fra loro, la quale - tornando per così dire indietro, con un’ampia parabola, attraverso la conca e lungo il piede dell’opposto pendio - tende a riunirsi all'agglomerato maggiore. Non lo si può raggiungere, perché nel fondo valle c’è una palude.
Allora questi acquitrini formavano una caotica distesa di ghiacci impolverati di neve, con grandi banchi di canne palustri secche e incessantemente agitate dal vento, che suggerivano uno straordinario senso di desolazione. Orbene: l’agglomerato maggiore e parte della fila principale di isbe, col pendio soprastante, erano in mano nostra; tutto il resto era del nemico che si annidava specialmente tra le canne del fondo valle, mentre le sue armi pesanti stavano dietro di lui, piazzate oltre la sommità del suo pendio”. “Attacchi alla baionetta! Quel giorno fu memorabile. Non tutti partecipammo agli attacchi. I più, anzi, rimasero in paese, asse scure continuamente in moto e sbandatisi continuamente sotto i colpi di mortaio e di cannone russi. Ciononostante quel giorno il fronte nemico venne dovunque travolto, e le nostre postazioni coronarono nel pomeriggio tutta la vallata in cui era Arbusov. Fu l’ultima grande visione di eroismo italiano.
In quegli attacchi quasi tutti i migliori caddero (non parlo retoricamente, riferisco un dato obiettivo)”. “Dall'alto del costone ero calato nell'appendice est di Arbusov, formata di isbe sparse. Le quali - tutte piccole e molto rustiche - seguivano, irregolarmente distanziate tra loro, i due lati di una strada, o meglio pista, che con qualche curva si prolungava fino a perdersi lontano. C’erano morti, e morti, e morti dappertutto: italiani, russi, poi ancora italiani e italiani. Qua e là, accasciato o seduto nella neve, qualche ferito agli estremi invocava sua madre, oppure urlava per il dolore. Altri feriti venivano accompagnati frettolosamente indietro da uno o due commilitoni: avevano il viso segnato più che dalla sofferenza fisica, dall'ansia per ciò che adesso sarebbe accaduto di loro.
Erano infatti rimasti menomati combattendo per tutti, ma nessuno ora li avrebbe potuti aiutare. Avanti. Le pallottole fischiavano dappertutto”. “L’intera vallata - insisto - appariva disseminata di morti. Anche i feriti erano numerosissimi. Sentivamo con angoscia che non li avremmo potuti curare: erano tutti, o quasi, destinati a morire nel giro di poche ore. Si erano formati alcuni ‘posti di medicazione’: ricordo soprattutto quello dentro Arbusov, intorno alla casetta infermeria. Adesso i due locali di cui la casa si componeva e la stalla erano talmente gremiti, da non potervisi in alcun modo camminare. I feriti stavano addirittura uno sull'altro. Anche fuori si udivano i loro lamenti e le loro grida, così piccole nel gelo tremendo. Quando uno dei pochi soldati che s’erano dedicati alla loro cura, entrava per portare soccorso di un po' d’acqua, ai lamenti si mescolavano le urla e le imprecazioni di quelli che egli involontariamente calpestava. Lo spettacolo più miserando non era dato però dalla casa, ma dal terreno ad essa circostante.
Qui sulla neve era stata allargata un po' di paglia, e sopra la paglia giaceva qualche centinaio di feriti. Erano stati lasciati in tutte le posizioni da coloro che ve li avevano frettolosamente portati. Non tuttavia a contatto uno dell’altro, di modo ch'era possibile camminare tra loro. Questi si mantenevano in genere silenziosi. La temperatura doveva essere di 15-20 gradi sotto zero. Stavano per lo più raggomitolati sotto una misera coperta da campo incrostata di neve, e rigida, al solito, come una lamiera; certuni erano senza coperta, e non avevano altro riparo che il cappotto. Mescolati ai feriti c’erano già dei morti: le loro lacerazioni - alcune mostruose - erano state a malapena fasciate, ed essi non avevano potuto resistere nella lotta tremenda contro la perdita di sangue, il digiuno, e il freddo assommati.
In questo golfo di dolore si aggirava un unico medico il quale, stremato dalla fatica, cercava di prestare le cure che poteva. Sentii confusamente dire che - non so se quel giorno, o nei successivi - egli sarebbe stato ferito ben due volte da schegge nemiche, mentre eseguiva delle amputazioni mediante lamette da barba”. “In tal modo lasciammo la Valle della Morte: il paese era semidistrutto, molte isbe bruciate, e molti civili, vecchi, donne, bambini, uccisi dalla battaglia o dall'odio dei tedeschi. Ci lasciavamo indietro una vallata disseminata dovunque di morti: con i morti tedeschi, apatici, e i russi, in qualche punto fucilati in file regolari di dieci, i nostri morti. I nostri, di gran lunga i più numerosi: uccisi dal bombardamento nemico, o caduti a ondate negli assalti alla baionetta, morti per gli stenti, morti di freddo.
Pensiero forse ancora più angosciante delle migliaia di morti, le centinaia e centinaia di feriti abbandonati sopra la neve, su poca paglia”. “Sottovoce cercammo di ricostruire le fasi dell’azione che aveva rotto il ferreo cerchio stretto dal nemico intorno alla vale di Arbusov. L’ordine di incolonnamento era stato trasmesso dal comando tedesco a quello italiano verso le 21.30. La colonna italiana doveva essere pronta per le 23.30. Gli italiani che, come me, Corti e Candela, giacevano all'addiaccio nelle buche, nei fossati, nei canneti della valle, non erano stati informati dell’ordine di incolonnamento. Alle 23.30 i pochi mezzi corazzati tedeschi e i reparti d’assalto della 298a divisione, con azione fulminea, avevano travolto il munitissimo caposaldo nemico di Arbusov alta e avevano aperto il varco attraverso il quale erano passati gli assediati. La retroguardia, costituita da reparti della divisione Torino, aveva respinto i rabbiosi attacchi dei russi, riorganizzatisi dopo lo sfondamento, e aveva consentito al grosso della colonna italiana di evitare la cattura. Centinaia di nostri feriti, per la mancanza di mezzi di trasporto, erano stati abbandonati nelle isbe, affidati ad alcuni ufficiali medici che si erano offerti volontariamente di assisterli in prigionia”.
Allora questi acquitrini formavano una caotica distesa di ghiacci impolverati di neve, con grandi banchi di canne palustri secche e incessantemente agitate dal vento, che suggerivano uno straordinario senso di desolazione. Orbene: l’agglomerato maggiore e parte della fila principale di isbe, col pendio soprastante, erano in mano nostra; tutto il resto era del nemico che si annidava specialmente tra le canne del fondo valle, mentre le sue armi pesanti stavano dietro di lui, piazzate oltre la sommità del suo pendio”. “Attacchi alla baionetta! Quel giorno fu memorabile. Non tutti partecipammo agli attacchi. I più, anzi, rimasero in paese, asse scure continuamente in moto e sbandatisi continuamente sotto i colpi di mortaio e di cannone russi. Ciononostante quel giorno il fronte nemico venne dovunque travolto, e le nostre postazioni coronarono nel pomeriggio tutta la vallata in cui era Arbusov. Fu l’ultima grande visione di eroismo italiano.
In quegli attacchi quasi tutti i migliori caddero (non parlo retoricamente, riferisco un dato obiettivo)”. “Dall'alto del costone ero calato nell'appendice est di Arbusov, formata di isbe sparse. Le quali - tutte piccole e molto rustiche - seguivano, irregolarmente distanziate tra loro, i due lati di una strada, o meglio pista, che con qualche curva si prolungava fino a perdersi lontano. C’erano morti, e morti, e morti dappertutto: italiani, russi, poi ancora italiani e italiani. Qua e là, accasciato o seduto nella neve, qualche ferito agli estremi invocava sua madre, oppure urlava per il dolore. Altri feriti venivano accompagnati frettolosamente indietro da uno o due commilitoni: avevano il viso segnato più che dalla sofferenza fisica, dall'ansia per ciò che adesso sarebbe accaduto di loro.
Erano infatti rimasti menomati combattendo per tutti, ma nessuno ora li avrebbe potuti aiutare. Avanti. Le pallottole fischiavano dappertutto”. “L’intera vallata - insisto - appariva disseminata di morti. Anche i feriti erano numerosissimi. Sentivamo con angoscia che non li avremmo potuti curare: erano tutti, o quasi, destinati a morire nel giro di poche ore. Si erano formati alcuni ‘posti di medicazione’: ricordo soprattutto quello dentro Arbusov, intorno alla casetta infermeria. Adesso i due locali di cui la casa si componeva e la stalla erano talmente gremiti, da non potervisi in alcun modo camminare. I feriti stavano addirittura uno sull'altro. Anche fuori si udivano i loro lamenti e le loro grida, così piccole nel gelo tremendo. Quando uno dei pochi soldati che s’erano dedicati alla loro cura, entrava per portare soccorso di un po' d’acqua, ai lamenti si mescolavano le urla e le imprecazioni di quelli che egli involontariamente calpestava. Lo spettacolo più miserando non era dato però dalla casa, ma dal terreno ad essa circostante.
Qui sulla neve era stata allargata un po' di paglia, e sopra la paglia giaceva qualche centinaio di feriti. Erano stati lasciati in tutte le posizioni da coloro che ve li avevano frettolosamente portati. Non tuttavia a contatto uno dell’altro, di modo ch'era possibile camminare tra loro. Questi si mantenevano in genere silenziosi. La temperatura doveva essere di 15-20 gradi sotto zero. Stavano per lo più raggomitolati sotto una misera coperta da campo incrostata di neve, e rigida, al solito, come una lamiera; certuni erano senza coperta, e non avevano altro riparo che il cappotto. Mescolati ai feriti c’erano già dei morti: le loro lacerazioni - alcune mostruose - erano state a malapena fasciate, ed essi non avevano potuto resistere nella lotta tremenda contro la perdita di sangue, il digiuno, e il freddo assommati.
In questo golfo di dolore si aggirava un unico medico il quale, stremato dalla fatica, cercava di prestare le cure che poteva. Sentii confusamente dire che - non so se quel giorno, o nei successivi - egli sarebbe stato ferito ben due volte da schegge nemiche, mentre eseguiva delle amputazioni mediante lamette da barba”. “In tal modo lasciammo la Valle della Morte: il paese era semidistrutto, molte isbe bruciate, e molti civili, vecchi, donne, bambini, uccisi dalla battaglia o dall'odio dei tedeschi. Ci lasciavamo indietro una vallata disseminata dovunque di morti: con i morti tedeschi, apatici, e i russi, in qualche punto fucilati in file regolari di dieci, i nostri morti. I nostri, di gran lunga i più numerosi: uccisi dal bombardamento nemico, o caduti a ondate negli assalti alla baionetta, morti per gli stenti, morti di freddo.
Pensiero forse ancora più angosciante delle migliaia di morti, le centinaia e centinaia di feriti abbandonati sopra la neve, su poca paglia”. “Sottovoce cercammo di ricostruire le fasi dell’azione che aveva rotto il ferreo cerchio stretto dal nemico intorno alla vale di Arbusov. L’ordine di incolonnamento era stato trasmesso dal comando tedesco a quello italiano verso le 21.30. La colonna italiana doveva essere pronta per le 23.30. Gli italiani che, come me, Corti e Candela, giacevano all'addiaccio nelle buche, nei fossati, nei canneti della valle, non erano stati informati dell’ordine di incolonnamento. Alle 23.30 i pochi mezzi corazzati tedeschi e i reparti d’assalto della 298a divisione, con azione fulminea, avevano travolto il munitissimo caposaldo nemico di Arbusov alta e avevano aperto il varco attraverso il quale erano passati gli assediati. La retroguardia, costituita da reparti della divisione Torino, aveva respinto i rabbiosi attacchi dei russi, riorganizzatisi dopo lo sfondamento, e aveva consentito al grosso della colonna italiana di evitare la cattura. Centinaia di nostri feriti, per la mancanza di mezzi di trasporto, erano stati abbandonati nelle isbe, affidati ad alcuni ufficiali medici che si erano offerti volontariamente di assisterli in prigionia”.
Diario di viaggio, giorno 5
5 SETTEMBRE - Giornata dedicata ad Arbusowka, la "valle della morte: i resti di Arbusowka bassa dove si ripararono i nostri soldati in quelle terribili giornate.
Diario di viaggio, giorno 5
5 SETTEMBRE - Giornata dedicata ad Arbusowka, la "valle della morte: ciò che accadde nella “valle della morte” lo lascerò raccontare direttamente dai protagonisti; dal libro “Dal Dnieper al Don - La Legione CC.NN. Tagliamento in Russia” di Loris Lenzi: Data 21.12.1942: “Sul far della sera del 21 dicembre, i russi ci assaltano nuovamente. Si ha l’impressione si attraversare una folta foresta i cui alberi sono i russi armati. Per un po' ci lasciano passare, poi cominciano a stringere la vite della morsa. […] Anche questo ultimo anello è rotto; molti altri di noi resteranno sul terreno; i russi fanno posto, e la colonna giunge nei pressi di Garbuschowski.
Almeno qui troveremo un po' di riparo, un fuoco per scaldarci, un giaciglio. Il paese è occupato dai russi, e meglio sarebbe dire “invaso” perché i nemici vi brulicano come formiche. L’accesso al paese è impedito da uno schieramento massiccio, aggressivo, imponente. Sono in così gran numero che non solo fermano la colonna, impegnando le avanguardie di uno scontro di estrema violenza, ma accennano anche a riaprire la bocca del sacco, per infilarci dentro tutti quanti siamo. Si combatte alla disperata per tutta la notte, e nella mattinata del giorno seguente. È una carneficina alla quale concorrono le artiglierie, i mortai, le mitragliatrici, e quelle maledette “ katiuska” che ti fanno impazzire. Garbuschowski, “la valle della morte” come la chiamammo noi. Una montagna di morti, un mare di feriti”.
Data 22.12.1942: “Siamo al 22 dicembre, a tre giorni dal secondo Natale di guerra, e venticinquemila soldati italiani sono ormai chiusi in un cerchio, i cui limiti configurano il più grande mattatoio della storia. Venticinquemila soldati italiani, stretti in un cerchio implacabile di ferro, di fuoco e di ferocia, destinati a morir tutti. Il comandante dei reparti tedeschi tiene consiglio col generale Lerici, comandante italiano. Toccherà a noi il compito di abbattere il muro, per aprire un varco e mantenerlo fino al deflusso di tutta la colonna. Gli uomini sono stremati, le ami difettano, e mancano le munizioni. […] Contro la marea nemica, esaltata, urlante, agguerrita; fanti, artiglieri, genieri, bersaglieri, carabinieri, ogni arma, ogni uomo, si preparano a recitare quello che potrebbe essere l’ultimo atto della tragedia. Le camicie nere sono fra i primi. Gli ufficiali di tutte le armi sono alla testa dei loro reparti. […] Questi uomini che hanno addosso il peso inasprito di infiniti tormenti, che son denutriti, semiassiderati, scattano con un impeto più violento delle loro sofferenze, e si gettano nella mischia”.
Data 23.12.1942: “Ma non importa più nulla a nessuno. Ci siamo scannati per passare, e non è ancora finita. Non finirà mai. Siamo stremati, inutili, miserabili. Combatti per ore e ore contro un nemico strapotente; devi fare economia di munizioni, e tuttavia riesci a vincere. Poi, per premio, ti rimettono in colonna, e via. Chi resiste più? Che venga una cannonata e ci faccia a pezzi, così il conto è chiuso, e siamo in pari con tutto. […] Siamo sempre a Garbuschowski. Sorge un altro giorno ed è l’antivigilia di Natale del 1942. È caduto il vento, sono cessati gli spari. Di mano in mano che la luce cresce, il paese appare nella sua impressionante desolazione. Molte isbe sono distrutte; nell'aria e sulle cose è un presagio di morte. I russi, inaspriti per la recente sconfitta, riprendono il concerto delle artiglierie, pestando il villaggio dove gli uomini della colonna affluiscono in cerca di un qualche riparo. […] Corre voce che il generale Lerici ha concordato col generale tedesco un tentativo di manovra avvolgente per impedire alle dilaganti forze nemiche di soffocarci. […] Gl’italiani, come i guerrieri dell’antico poeta, combattono all'arma bianca.
Non hanno armi da fuoco, e le poche di cui dispongono son prive di munizioni. I moschetti vengono usati come clave. I soldati vanno all’assalto brandendo sbarre di ferro, paletti, pugnali. Il nemico rovescia sugli attaccanti il fuoco ben nutrito delle mitragliatrici. […] I due fanti che cavalcavano a pelo sbandierando il tricolore, erano virtualmente in testa a noi. E noi abbiamo vinto anche per loro, ormai già sepolti nel sonno della più sublime pazzia. […] La neve è punteggiata di morti, e arrossata di molto sangue. Signore perdonaci. Siamo tutti forsennati. I pazzi non erano i due fanti che cavalcavano senza sella sventolando una bandiera. Siamo noi i pazzi. Noi che vogliamo ancora dar la morte, mentre stiamo per morire”.
Data 24.12.1942: “Si procede come allucinati nella notte gelida, mentre all'eccitazione prodotta dagli scontri succede una stanchezza mortale. Perché non ci fermiamo un po', ora che “quelli là” pare chi siano quieti? Non dobbiamo fermarci. Occorre mettere fra noi il nemico una distanza che ci dia sicurezza. […] I feriti di Garbuschowski, gli sfiniti per denutrizione, si fermano sul ciglio della strada. Ti si spezza il cuore a lasciarli, soli nella notte e nel gelo, col peso delle loro sofferenze e della loro disperazione. […] Per tutta la notte sul 24 dicembre, si cammina e si cammina, e dentro di noi non c’è più nulla: né un pensiero, né una luce di speranza. Si va. Guidati dalla schiena di chi ci sta davanti, e sospinti dal passo strascicato di chi ci segue. Se ognuno di noi fosse solo, si fermerebbe. Ma c’è quello davanti e c’è quello di dietro, e nessuno si ferma. […] Poi, quando siamo rientrati in noi stessi, ci si guarda attorno, e cerchiamo di illuderci con una pietosa bugia dicendo che i camerati mancanti si son forse confusi in altri reparti. Ma sappiamo che non è vero. Gli assenti non torneranno, perché il reparto al quale sono stati aggregati, non restituisce nessuno”.
Almeno qui troveremo un po' di riparo, un fuoco per scaldarci, un giaciglio. Il paese è occupato dai russi, e meglio sarebbe dire “invaso” perché i nemici vi brulicano come formiche. L’accesso al paese è impedito da uno schieramento massiccio, aggressivo, imponente. Sono in così gran numero che non solo fermano la colonna, impegnando le avanguardie di uno scontro di estrema violenza, ma accennano anche a riaprire la bocca del sacco, per infilarci dentro tutti quanti siamo. Si combatte alla disperata per tutta la notte, e nella mattinata del giorno seguente. È una carneficina alla quale concorrono le artiglierie, i mortai, le mitragliatrici, e quelle maledette “ katiuska” che ti fanno impazzire. Garbuschowski, “la valle della morte” come la chiamammo noi. Una montagna di morti, un mare di feriti”.
Data 22.12.1942: “Siamo al 22 dicembre, a tre giorni dal secondo Natale di guerra, e venticinquemila soldati italiani sono ormai chiusi in un cerchio, i cui limiti configurano il più grande mattatoio della storia. Venticinquemila soldati italiani, stretti in un cerchio implacabile di ferro, di fuoco e di ferocia, destinati a morir tutti. Il comandante dei reparti tedeschi tiene consiglio col generale Lerici, comandante italiano. Toccherà a noi il compito di abbattere il muro, per aprire un varco e mantenerlo fino al deflusso di tutta la colonna. Gli uomini sono stremati, le ami difettano, e mancano le munizioni. […] Contro la marea nemica, esaltata, urlante, agguerrita; fanti, artiglieri, genieri, bersaglieri, carabinieri, ogni arma, ogni uomo, si preparano a recitare quello che potrebbe essere l’ultimo atto della tragedia. Le camicie nere sono fra i primi. Gli ufficiali di tutte le armi sono alla testa dei loro reparti. […] Questi uomini che hanno addosso il peso inasprito di infiniti tormenti, che son denutriti, semiassiderati, scattano con un impeto più violento delle loro sofferenze, e si gettano nella mischia”.
Data 23.12.1942: “Ma non importa più nulla a nessuno. Ci siamo scannati per passare, e non è ancora finita. Non finirà mai. Siamo stremati, inutili, miserabili. Combatti per ore e ore contro un nemico strapotente; devi fare economia di munizioni, e tuttavia riesci a vincere. Poi, per premio, ti rimettono in colonna, e via. Chi resiste più? Che venga una cannonata e ci faccia a pezzi, così il conto è chiuso, e siamo in pari con tutto. […] Siamo sempre a Garbuschowski. Sorge un altro giorno ed è l’antivigilia di Natale del 1942. È caduto il vento, sono cessati gli spari. Di mano in mano che la luce cresce, il paese appare nella sua impressionante desolazione. Molte isbe sono distrutte; nell'aria e sulle cose è un presagio di morte. I russi, inaspriti per la recente sconfitta, riprendono il concerto delle artiglierie, pestando il villaggio dove gli uomini della colonna affluiscono in cerca di un qualche riparo. […] Corre voce che il generale Lerici ha concordato col generale tedesco un tentativo di manovra avvolgente per impedire alle dilaganti forze nemiche di soffocarci. […] Gl’italiani, come i guerrieri dell’antico poeta, combattono all'arma bianca.
Non hanno armi da fuoco, e le poche di cui dispongono son prive di munizioni. I moschetti vengono usati come clave. I soldati vanno all’assalto brandendo sbarre di ferro, paletti, pugnali. Il nemico rovescia sugli attaccanti il fuoco ben nutrito delle mitragliatrici. […] I due fanti che cavalcavano a pelo sbandierando il tricolore, erano virtualmente in testa a noi. E noi abbiamo vinto anche per loro, ormai già sepolti nel sonno della più sublime pazzia. […] La neve è punteggiata di morti, e arrossata di molto sangue. Signore perdonaci. Siamo tutti forsennati. I pazzi non erano i due fanti che cavalcavano senza sella sventolando una bandiera. Siamo noi i pazzi. Noi che vogliamo ancora dar la morte, mentre stiamo per morire”.
Data 24.12.1942: “Si procede come allucinati nella notte gelida, mentre all'eccitazione prodotta dagli scontri succede una stanchezza mortale. Perché non ci fermiamo un po', ora che “quelli là” pare chi siano quieti? Non dobbiamo fermarci. Occorre mettere fra noi il nemico una distanza che ci dia sicurezza. […] I feriti di Garbuschowski, gli sfiniti per denutrizione, si fermano sul ciglio della strada. Ti si spezza il cuore a lasciarli, soli nella notte e nel gelo, col peso delle loro sofferenze e della loro disperazione. […] Per tutta la notte sul 24 dicembre, si cammina e si cammina, e dentro di noi non c’è più nulla: né un pensiero, né una luce di speranza. Si va. Guidati dalla schiena di chi ci sta davanti, e sospinti dal passo strascicato di chi ci segue. Se ognuno di noi fosse solo, si fermerebbe. Ma c’è quello davanti e c’è quello di dietro, e nessuno si ferma. […] Poi, quando siamo rientrati in noi stessi, ci si guarda attorno, e cerchiamo di illuderci con una pietosa bugia dicendo che i camerati mancanti si son forse confusi in altri reparti. Ma sappiamo che non è vero. Gli assenti non torneranno, perché il reparto al quale sono stati aggregati, non restituisce nessuno”.
giovedì 5 settembre 2019
Diario di viaggio, giorno 5
5 SETTEMBRE - Giornata dedicata ad Arbusowka, la "valle della morte: una delle tante fosse comuni già individuate nei pressi di Arbusowka bassa dove erano i comandi italiani.
Diario di viaggio, giorno 5
5 SETTEMBRE - Giornata dedicata ad Arbusowka, la "valle della morte: ciò che accadde nella “valle della morte” lo lascerò raccontare direttamente dai protagonisti; dal libro “Dal Dnieper al Don - La Legione CC.NN. Tagliamento in Russia” di Loris Lenzi: Data 21.12.1942: “Sul far della sera del 21 dicembre, i russi ci assaltano nuovamente. Si ha l’impressione si attraversare una folta foresta i cui alberi sono i russi armati. Per un po' ci lasciano passare, poi cominciano a stringere la vite della morsa. […] Anche questo ultimo anello è rotto; molti altri di noi resteranno sul terreno; i russi fanno posto, e la colonna giunge nei pressi di Garbuschowski.
Almeno qui troveremo un po' di riparo, un fuoco per scaldarci, un giaciglio. Il paese è occupato dai russi, e meglio sarebbe dire “invaso” perché i nemici vi brulicano come formiche. L’accesso al paese è impedito da uno schieramento massiccio, aggressivo, imponente. Sono in così gran numero che non solo fermano la colonna, impegnando le avanguardie di uno scontro di estrema violenza, ma accennano anche a riaprire la bocca del sacco, per infilarci dentro tutti quanti siamo. Si combatte alla disperata per tutta la notte, e nella mattinata del giorno seguente. È una carneficina alla quale concorrono le artiglierie, i mortai, le mitragliatrici, e quelle maledette “ katiuska” che ti fanno impazzire. Garbuschowski, “la valle della morte” come la chiamammo noi. Una montagna di morti, un mare di feriti”.
Data 22.12.1942: “Siamo al 22 dicembre, a tre giorni dal secondo Natale di guerra, e venticinquemila soldati italiani sono ormai chiusi in un cerchio, i cui limiti configurano il più grande mattatoio della storia. Venticinquemila soldati italiani, stretti in un cerchio implacabile di ferro, di fuoco e di ferocia, destinati a morir tutti. Il comandante dei reparti tedeschi tiene consiglio col generale Lerici, comandante italiano. Toccherà a noi il compito di abbattere il muro, per aprire un varco e mantenerlo fino al deflusso di tutta la colonna. Gli uomini sono stremati, le ami difettano, e mancano le munizioni. […] Contro la marea nemica, esaltata, urlante, agguerrita; fanti, artiglieri, genieri, bersaglieri, carabinieri, ogni arma, ogni uomo, si preparano a recitare quello che potrebbe essere l’ultimo atto della tragedia. Le camicie nere sono fra i primi. Gli ufficiali di tutte le armi sono alla testa dei loro reparti. […] Questi uomini che hanno addosso il peso inasprito di infiniti tormenti, che son denutriti, semiassiderati, scattano con un impeto più violento delle loro sofferenze, e si gettano nella mischia”.
Data 23.12.1942: “Ma non importa più nulla a nessuno. Ci siamo scannati per passare, e non è ancora finita. Non finirà mai. Siamo stremati, inutili, miserabili. Combatti per ore e ore contro un nemico strapotente; devi fare economia di munizioni, e tuttavia riesci a vincere. Poi, per premio, ti rimettono in colonna, e via. Chi resiste più? Che venga una cannonata e ci faccia a pezzi, così il conto è chiuso, e siamo in pari con tutto. […] Siamo sempre a Garbuschowski. Sorge un altro giorno ed è l’antivigilia di Natale del 1942. È caduto il vento, sono cessati gli spari. Di mano in mano che la luce cresce, il paese appare nella sua impressionante desolazione. Molte isbe sono distrutte; nell'aria e sulle cose è un presagio di morte. I russi, inaspriti per la recente sconfitta, riprendono il concerto delle artiglierie, pestando il villaggio dove gli uomini della colonna affluiscono in cerca di un qualche riparo. […] Corre voce che il generale Lerici ha concordato col generale tedesco un tentativo di manovra avvolgente per impedire alle dilaganti forze nemiche di soffocarci. […] Gl’italiani, come i guerrieri dell’antico poeta, combattono all'arma bianca.
Non hanno armi da fuoco, e le poche di cui dispongono son prive di munizioni. I moschetti vengono usati come clave. I soldati vanno all’assalto brandendo sbarre di ferro, paletti, pugnali. Il nemico rovescia sugli attaccanti il fuoco ben nutrito delle mitragliatrici. […] I due fanti che cavalcavano a pelo sbandierando il tricolore, erano virtualmente in testa a noi. E noi abbiamo vinto anche per loro, ormai già sepolti nel sonno della più sublime pazzia. […] La neve è punteggiata di morti, e arrossata di molto sangue. Signore perdonaci. Siamo tutti forsennati. I pazzi non erano i due fanti che cavalcavano senza sella sventolando una bandiera. Siamo noi i pazzi. Noi che vogliamo ancora dar la morte, mentre stiamo per morire”.
Data 24.12.1942: “Si procede come allucinati nella notte gelida, mentre all'eccitazione prodotta dagli scontri succede una stanchezza mortale. Perché non ci fermiamo un po', ora che “quelli là” pare chi siano quieti? Non dobbiamo fermarci. Occorre mettere fra noi il nemico una distanza che ci dia sicurezza. […] I feriti di Garbuschowski, gli sfiniti per denutrizione, si fermano sul ciglio della strada. Ti si spezza il cuore a lasciarli, soli nella notte e nel gelo, col peso delle loro sofferenze e della loro disperazione. […] Per tutta la notte sul 24 dicembre, si cammina e si cammina, e dentro di noi non c’è più nulla: né un pensiero, né una luce di speranza. Si va. Guidati dalla schiena di chi ci sta davanti, e sospinti dal passo strascicato di chi ci segue. Se ognuno di noi fosse solo, si fermerebbe. Ma c’è quello davanti e c’è quello di dietro, e nessuno si ferma. […] Poi, quando siamo rientrati in noi stessi, ci si guarda attorno, e cerchiamo di illuderci con una pietosa bugia dicendo che i camerati mancanti si son forse confusi in altri reparti. Ma sappiamo che non è vero. Gli assenti non torneranno, perché il reparto al quale sono stati aggregati, non restituisce nessuno”.
Almeno qui troveremo un po' di riparo, un fuoco per scaldarci, un giaciglio. Il paese è occupato dai russi, e meglio sarebbe dire “invaso” perché i nemici vi brulicano come formiche. L’accesso al paese è impedito da uno schieramento massiccio, aggressivo, imponente. Sono in così gran numero che non solo fermano la colonna, impegnando le avanguardie di uno scontro di estrema violenza, ma accennano anche a riaprire la bocca del sacco, per infilarci dentro tutti quanti siamo. Si combatte alla disperata per tutta la notte, e nella mattinata del giorno seguente. È una carneficina alla quale concorrono le artiglierie, i mortai, le mitragliatrici, e quelle maledette “ katiuska” che ti fanno impazzire. Garbuschowski, “la valle della morte” come la chiamammo noi. Una montagna di morti, un mare di feriti”.
Data 22.12.1942: “Siamo al 22 dicembre, a tre giorni dal secondo Natale di guerra, e venticinquemila soldati italiani sono ormai chiusi in un cerchio, i cui limiti configurano il più grande mattatoio della storia. Venticinquemila soldati italiani, stretti in un cerchio implacabile di ferro, di fuoco e di ferocia, destinati a morir tutti. Il comandante dei reparti tedeschi tiene consiglio col generale Lerici, comandante italiano. Toccherà a noi il compito di abbattere il muro, per aprire un varco e mantenerlo fino al deflusso di tutta la colonna. Gli uomini sono stremati, le ami difettano, e mancano le munizioni. […] Contro la marea nemica, esaltata, urlante, agguerrita; fanti, artiglieri, genieri, bersaglieri, carabinieri, ogni arma, ogni uomo, si preparano a recitare quello che potrebbe essere l’ultimo atto della tragedia. Le camicie nere sono fra i primi. Gli ufficiali di tutte le armi sono alla testa dei loro reparti. […] Questi uomini che hanno addosso il peso inasprito di infiniti tormenti, che son denutriti, semiassiderati, scattano con un impeto più violento delle loro sofferenze, e si gettano nella mischia”.
Data 23.12.1942: “Ma non importa più nulla a nessuno. Ci siamo scannati per passare, e non è ancora finita. Non finirà mai. Siamo stremati, inutili, miserabili. Combatti per ore e ore contro un nemico strapotente; devi fare economia di munizioni, e tuttavia riesci a vincere. Poi, per premio, ti rimettono in colonna, e via. Chi resiste più? Che venga una cannonata e ci faccia a pezzi, così il conto è chiuso, e siamo in pari con tutto. […] Siamo sempre a Garbuschowski. Sorge un altro giorno ed è l’antivigilia di Natale del 1942. È caduto il vento, sono cessati gli spari. Di mano in mano che la luce cresce, il paese appare nella sua impressionante desolazione. Molte isbe sono distrutte; nell'aria e sulle cose è un presagio di morte. I russi, inaspriti per la recente sconfitta, riprendono il concerto delle artiglierie, pestando il villaggio dove gli uomini della colonna affluiscono in cerca di un qualche riparo. […] Corre voce che il generale Lerici ha concordato col generale tedesco un tentativo di manovra avvolgente per impedire alle dilaganti forze nemiche di soffocarci. […] Gl’italiani, come i guerrieri dell’antico poeta, combattono all'arma bianca.
Non hanno armi da fuoco, e le poche di cui dispongono son prive di munizioni. I moschetti vengono usati come clave. I soldati vanno all’assalto brandendo sbarre di ferro, paletti, pugnali. Il nemico rovescia sugli attaccanti il fuoco ben nutrito delle mitragliatrici. […] I due fanti che cavalcavano a pelo sbandierando il tricolore, erano virtualmente in testa a noi. E noi abbiamo vinto anche per loro, ormai già sepolti nel sonno della più sublime pazzia. […] La neve è punteggiata di morti, e arrossata di molto sangue. Signore perdonaci. Siamo tutti forsennati. I pazzi non erano i due fanti che cavalcavano senza sella sventolando una bandiera. Siamo noi i pazzi. Noi che vogliamo ancora dar la morte, mentre stiamo per morire”.
Data 24.12.1942: “Si procede come allucinati nella notte gelida, mentre all'eccitazione prodotta dagli scontri succede una stanchezza mortale. Perché non ci fermiamo un po', ora che “quelli là” pare chi siano quieti? Non dobbiamo fermarci. Occorre mettere fra noi il nemico una distanza che ci dia sicurezza. […] I feriti di Garbuschowski, gli sfiniti per denutrizione, si fermano sul ciglio della strada. Ti si spezza il cuore a lasciarli, soli nella notte e nel gelo, col peso delle loro sofferenze e della loro disperazione. […] Per tutta la notte sul 24 dicembre, si cammina e si cammina, e dentro di noi non c’è più nulla: né un pensiero, né una luce di speranza. Si va. Guidati dalla schiena di chi ci sta davanti, e sospinti dal passo strascicato di chi ci segue. Se ognuno di noi fosse solo, si fermerebbe. Ma c’è quello davanti e c’è quello di dietro, e nessuno si ferma. […] Poi, quando siamo rientrati in noi stessi, ci si guarda attorno, e cerchiamo di illuderci con una pietosa bugia dicendo che i camerati mancanti si son forse confusi in altri reparti. Ma sappiamo che non è vero. Gli assenti non torneranno, perché il reparto al quale sono stati aggregati, non restituisce nessuno”.
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