martedì 24 ottobre 2023

Italiani nella neve, parte 2

Italiani nella neve: Il cinema della campagna italiana di Russia, di Sergio Spinnato - tratto da HUMANITIES, anno VI, numero 12, dicembre 2012.

Seconda parte, il Neorealismo (1).

“Aderire alla realtà come sudore alla pelle”. Con questa semplice frase, lo sceneggiatore e scrittore Cesare Zavattini riassumeva l’essenza del Neorealismo. Il cinema, come in realtà tutte le forme d’arte, non restò insensibile alla forte richiesta di rompere con gli schemi del passato e iniziare a raccontare la realtà attraverso la realtà stessa (Cesare Zavattini, Il neorealismo secondo me, in Rivista del cinema italiano, III, 3 marzo 1954, pp. 18-27; relazione al Convegno sul neorealismo tenuto a Parma il 3-4-5 dicembre 1953, ripubblicata in Idem, Neorealismo ecc., a cura di Mino Argentieri, Milano, Bompiani, 1979).

Il paese era uscito moralmente e materialmente distrutto dal secondo conflitto mondiale. Gli addetti cinematografici esprimevano il forte desiderio di superare, una volta per tutte, quella produzione cinematografica che aveva dominato i primi anni ’40 e che era stata ribattezzata come “cinema dei telefoni bianchi”.

Questi film, ambientati in un’idealizzata Ungheria, narravano perlopiù vicende amorose di persone della ricca borghesia e dell’aristocrazia. La definizione di telefoni bianchi fa riferimento al perenne lusso in cui i film erano ambientati. Per l’appunto il telefono bianco, più costoso rispetto al comune nero bachelite, divenne il simbolo di tale produzione cinematografica (Giovanni Gozzini, Fascismo in Enciclopedia del cinema, 2003).

Dal punto di vista materiale, anche i luoghi demandati alla produzione cinematografica erano momentaneamente inservibili. Un esempio su tutti era rappresentato dagli studi di Cinecittà. Gli studi, fondati nel 1937 e diventati fulcro della vita cinematografica del paese, nel 1943 erano stati abbandonati ed erano diventati luogo di rifugio per un gran numero di sfollati. Fu partendo da queste necessità che i registi iniziarono a spostare i set dai teatri di posa alla strada, con attori non professionisti presi proprio dalla strada.

Convenzionalmente il Neorealismo ebbe inizio con Ossessione di Luchino Visconti del 1943 anche se la consacrazione a livello mondiale avvenne due anni dopo con il successo di Roma città aperta di Rossellini. In realtà esiste un film, realizzato dallo stesso Rossellini, che può essere indicato come un “prologo” del Neorealismo. Questo film è "L’uomo dalla croce".

Il film, datato 1943, ispirandosi alla figura di Don Reginaldo Giuliani, morto durante la guerra d’Etiopia, racconta le vicende di un cappellano militare aggregato ad un gruppo corazzato operante sul fronte russo, in Ucraina. Con questa pellicola, Rossellini va a chiudere quella che, nel gergo cinematografico, viene definita la “trilogia della guerra fascista”. Il primo film era stato La nave bianca del 1941, il secondo Un pilota ritorna, uscito alla fine del 1942 ed infine L’uomo dalla croce (Gian Piero Brunetta, Storia del cinema italiano. Il cinema del regime, 1929 – 1945, Ed. Riuniti, Roma, 2001, pp. da 153 a 155).

In tale trilogia, Rossellini affronta gli elementi delle tre armi, seguendo un preciso progetto: marina, aviazione ed esercito. L’intento del regista romano è quello di porre al centro del racconto “l’uomo, il soldato ferito, che anela alla riconciliazione, alla ricongiunzione, all’unità” (Adriano Aprà, Storie di guerra: De Robertis e Rossellini, 07/04/2015).

D'altro canto la scelta di raccontare storie di uomini in divisa è data dalla necessità di sottostare alle direttive propagandistiche del Minculpop, che voleva mostrare agli italiani l’eroismo delle sue forze armate. Questo contrasto di fondo, già presente negli altri due film, si rivela ancora più marcato proprio ne L’uomo dalla croce. Il film, sia dal punto di vista stilistico sia tecnicamente, viene convenzionalmente diviso in due parti.

La prima parte, filmata in esterna, con scene in aperta campagna, è caratterizzata da un racconto degli avvenimenti bellici con sequenze in campo lungo dove figurano carri armati, reparti di cavalleria e battaglioni di soldati. La seconda parte, invece, venne girata nei teatri di posa di Cinecittà e la stessa ambientazione è quella di un luogo chiuso, l’isba. Qui, con un’atmosfera cupa e piani ravvicinati, il racconto è dominato dalla riflessione delle conseguenze dei combattimenti (Adriano Aprà, Storie di guerra: De Robertis e Rossellini, 07/04/2015).

Proprio in questa seconda parte del film convivono, con una certa difficoltà, gli intenti di propaganda e la visione del regista. Ma da dove ha origine questo contrasto narrativo?

Non bisogna dimenticare che l’Italia dell’epoca era un paese governato da una dittatura e che il Minculpop dava l’autorizzazione soltanto a quei film che manifestavano la loro adesione alla linea del partito fascista. Partendo da tale premessa, la sceneggiatura fu affidata ad Asvero Gravelli, giornalista e sceneggiatore di provata fede fascista. Nonostante ciò, Rossellini riuscì ad inserire la sua idea di cinema, mantenendo però alcune scene previste dalla sceneggiatura originale di Gravelli.

In questo senso la sequenza più significativa è quella dell’interrogatorio del cappellano. La scena ambientata in una scuola vede l’inquisitore russo rappresentato come un “diverso” non solo dal punto di vista ideologico e religioso ma “diverso” anche fisicamente, in quanto viene ritratto deturpato da un profondo eczema che lo costringe a vivere quasi totalmente bendato. Rossellini, quindi, edulcorando i toni enfatici della propaganda, riesce ad introdurre via via la sua idea di cinema, facendo diventare L’uomo dalla croce l’ultima tappa prima della stagione del Neorealismo di cui proprio Rossellini ne sarà il fondatore con Roma città aperta (1945).

Gli elementi che legano il Rossellini “fascista” a quello “neorealista” sono “motivi stilistici, tipo di sguardo, strutture narrative, costruzione dei personaggi, rifiuto di certi tipi di convenzioni, capacità di sintesi significanti fulminee, genesi di un’idea di cinema destinata ad agire a largo raggio nel dopoguerra molto al di là dei limiti del neorealismo”. La stessa costruzione del cast segue i dettami del cinema neorealista, portando Rossellini a scegliere degli attori non professionisti. Il film ebbe una scarsissima circolazione e ad oggi è una delle pellicole meno conosciute della produzione rosselliniana.

Il mancato successo è da ricondurre a due motivi: il primo è che il film fu frettolosamente bollato come una pellicola di mera propaganda fascista e per tale motivo risultò sgradito anche nell’immediato dopoguerra; l’altro motivo è la data di rilascio del film. Infatti, L’uomo dalla croce venne distribuito nelle sale nel giugno 1943, senz’altro uno dei periodi meno indicati per il lancio di un film.

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