sabato 27 novembre 2021

Il viaggio del 2011, Garbusowo

Immagini del mio primo viaggio "esplorativo" effettuato nel 2011... Garbusowo e la steppa circostante.





Libri: "MIO NONNO"

Segnalo questo libro uscito in commercio di Attilio Miceli dal titolo: "Mio Nonno". Vista dalla fine, la vita di Attilio Miceli è quella di un normalissimo ferroviere in pensione che vive nel suo tranquillo paese del sud.

La verità però, è che Attilio ha dovuto attraversare molte guerre prima di raggiungere la meritata pace. Nato in una famiglia benestante che diventa povera all’improvviso, nel 1943 a soli 22 anni, viene spedito a combattere in Russia come migliaia di altri giovani. Tornato miracolosamente illeso dall’inferno di ghiaccio, quando capisce che lo avrebbero rimandato al fronte scappa nei boschi per quasi un anno come disertore. Finita la guerra si innamora di una ragazza che rimane incinta, è costretto ad abbandonarla temporaneamente per mancanza di mezzi, pratica mille mestieri nel tentativo di affrancarsi dalla povertà, consegue la licenza elementare da autodidatta, vince il concorso per le ferrovie dello stato, si trasferisce da solo a Torino per cinque anni, torna, sposa la sua amata, costruisce con le proprie mani una casa, vivono insieme tutta una vita con altri due figli e numerosi nipoti.

Una storia d’altri tempi, di coraggio, intelligenza, rivalsa, senso di giustizia, fortuna, sfortuna e onore. Dove Attilio, un eroe normale, pieno di difetti, finisce per vincere la battaglia più importante di tutte: vivere.

Il libro è acquistabile su Amazon a questo link: https://www.amazon.it/dp/B092HLNW61/ref=tmm_pap_swatch_0?_encoding=UTF8&qid=1618006502&sr=1-1

giovedì 25 novembre 2021

Il viaggio del 2011, Garbusowo

Immagini del mio primo viaggio "esplorativo" effettuato nel 2011... Garbusowo e la steppa circostante.



Rapporto sui prigionieri, parte 6

Pubblico alcuni estratti del "Rapporto sui prigionieri di guerra italiani in Russia" a cura di Carlo Vicentini e Paolo Resta, fonte UNIRR, 2a edizione, anno 2005, a mio avviso la fonte più autorevole per fare chiarezza sulle perdite e sulle vicissitudini dei nostri soldati in Russia durante il secondo conflitto mondiale.

LE MARCE DEL DAVAI.

Si è detto che i prigionieri, normalmente venivano incolonnati a gruppi di mille. La disciplina di una colonna cosi numerosa, scortata da non più di una ventina di giovanissimi soldati o da anziani territoriali, era ottenuta con il terrore. Le guardie sparavano incessantemente, in aria, sui fianchi della colonna, ad una spanna dai piedi dei prigionieri. Non era ammesso uscire dai ranghi per nessun motivo, anche lo scarto di un metro costava all'imprudente una sventagliata di mitra. La marcia era accompagnata dalle grida incessanti, ossessive dei russi che incitavano a camminare più in fretta. Con una monotonia ed un'apatia tutte orientali, urlavano: "Davaj... Davaj... Davaj bistriej!" (avanti, avanti in fretta) per ore e ore, dalla partenza all'arrivo. Ogni prigioniero ricorda come un incubo quella parola ed essa, ancor oggi, è adoperata per indicare quelle tragiche marce di trasferimento.

Le colonne percorrevano tappe di quindici, venti chilometri giornalieri con il bello e con il cattivo tempo. Al termine della tappa, i villaggi offrivano come ricovero capannoni o stalle, edifici diroccati che non erano mai sufficienti per ospitare tutti, sempre superaffollati non permettevano certo agli uomini di coricarsi. Quando non vi erano locali sufficienti o adatti, i prigionieri venivano ammassati sulla piazza del paese e fatti pernottare all'aperto con il risultato che all'indomani la colonna ripartiva con dieci o tienta uomini in meno, rimasti assiderati sul terreno e con tanti nuovi congelati, candidati, nei giorni seguenti alla esecuzione sommaria per il delitto di non camminare abbastanza svelti. Succedeva infatti questo: nella massa dei prigionieri, man mano che passavano i giorni, aumentavano coloro che non riuscivano a mantenere l'andatura degli altri; non solo i congelati ai piedi. C'erano ufficiali superiori molto anziani, c'era gente che non aveva mai camminato a piedi, come gli autisti, i medici, la gente dei Comandi, e c'era gente che aveva combattuto e camminato per due settimane percorrendo cinquanta, settanta, chi cento chilometri di ritirata che ora dovevano fare a ritroso per ritornare al Don; ne avrebbe dovuti fare un altro centinaio prima di arrivare al capolinea ferroviario di Kalac.

Tutti costoro, in fondo alla colonna, arrancavano come potevano, qualche volta con la forza della disperazione, in altri casi rinunciando alla lotta. Il soldato russo che chiudeva la colonna non aveva scrupoli: chi non ce la faceva, veniva "eliminato". Nessun prigioniero doveva rimanere vivo ai bordi della strada. I più feroci erano i giovanissimi soldati, ragazzi di 17 forse 15 anni, che conducevano la loro guerra privata contro gli invasori, uccidendo senza rischio quelli che avevano a portata di mano.

Quando le colonne incrociavano soldati ed automezzi diretti al fronte, non mancavano le angherie, gli sputi, le percosse, quando non erano sventagliate di mitra nel mucchio. Il prigioniero era alla mercé del singolo soldato e mai nessun ufficiale è intervenuto ad impedire simili barbarie. Le marce durarono dai quindici ai venticinque giorni a seconda del luogo della cattura. Durante questo periodo fu distribuito da mangiare solo discontinuamente e la sola cosa data era pane nero in ragione di un paio d'etti a testa. Praticamente, quegli uomini dovettero marciare per centinaia di chilometri e durante tre settimane, mangiando - e non tutti i giorni - solo un boccone di pane, mai un pasto o una bevanda calda. Questo in pieno inverno russo, con temperature micidiali, senza poter dormire o riposarsi al caldo alla fine di ogni tappa. Non c'è da meravigliarsi se i loro itinerari erano seminati di cadaveri.

Nella fotografia la stazione di Kalac fotografata nell'estate del 2019.

Le fotografie di Mario Bagnasco, 04

Le fotografie di Mario Bagnasco, Primo Capo Squadra o Capo Squadra della Legione CC.NN. "Valle Scrivia".

"Caposaldo 10 'Giarabub' 12.12.1942 prima dell'azione l'ufficiale sta spiegando".

Questa fotografia è davvero un pezzo di storia... è stata scattata solo 4 giorni prima dell'inizio dell'operazione Piccolo Saturno contro le linee italiane.

Anna Maria Rigoni

L'ho scoperto solo oggi... Morta a 99 anni Anna, la moglie di Mario Rigoni Stern.

Ancora pochi mesi e avrebbe raggiunto il traguardo delle 100 candeline. Anna Maria Rigoni “Haus”, moglie dello scrittore Mario Rigoni Stern, è però mancata venerdì nella sua casa di Val Giardini ad Asiago e ha raggiunto il “suo” Mario, il marito che aveva seguito nella sua vita di scrittore e di uomo. La notizia della scomparsa della signora Anna è arrivata nel paese di Asiago, e rapidamente diffusa su tutto l’Altopiano, a funerali avvenuti. I figli hanno rispettato fino in fondo la nota riservatezza di Anna. «Abbiamo voluto tenerla a casa fino alla fine - le parole del figlio Gianni - perché per noi figli non era la moglie di Mario Rigoni Stern ma la nostra mamma».

I dieci nipoti, che si sono stretti attorno ai genitori, hanno semplicemente dichiarato: «Abbiamo voluto tanto bene ad entrambi. Ci consideriamo fortunati di aver goduto della compagnia e della saggezza dei nostri nonni, che portiamo nel cuore». Era infatti una donna riservata, che si è sempre tenuta fuori dalle luci della ribalta che hanno illuminato Mario dopo il successo dei suoi libri. Si ricorda Anna sempre in disparte, ma subito pronta a intervenire per proteggere il marito e per suggerirgli di riposare quando si donava generosamente alle tante persone, dai giornalisti ai semplici fan, che lo cercavano presentandosi persino sugli scalini di casa. È stata il baluardo insormontabile a tutela della creatività e dell’ispirazione dello scrittore, come lui stesso ha sempre ammesso.

Ma la discrezione e la gelosia con cui custodiva i suoi spazi e i momenti casalinghi non hanno impedito ad Anna di conoscere e frequentare gli intellettuali del Novecento. Da Italo Calvino, Emilio Lussu e Leonardo Sciasia a Nuto Revelli e Primo Levi, le serate trascorse a discutere e a riflettere sul mondo sono state molte; in particolare con Revelli e Levi, con i quali Anna e Mario alimentarono una profonda e intima amicizia.

Tra i racconti del marito, che ovviamente conosceva molto bene, Anna aveva una predilezione per quelli inerenti la caccia, in considerazione che anche lei da giovane aveva praticato l’arte venatoria. Proprio per questa sua passione è stata proprio Anna a caldeggiare l’istituzione del Premio letterario Mario Rigoni Stern, promosso dall’associazione Ars Venandi; è stata una delle poche volte in cui si ricorda un così determinato intervento a favore di una commemorazione dedicata al marito, impegno che solitamente lasciava ai figli. «Lo sostengo perché credo che sia il miglior modo di portare avanti le idee sulla montagna che Mario esprimeva nei suoi racconti» dichiarò la signora durante la presentazione ufficiale del premio.

Anna e Mario Rigoni Stern si sono conosciuti a scuola e sono convolati a nozze dopo la guerra, nel maggio del 1946. Con gli anni la famiglia è cresciuta per la nascita, nell’ordine, di Alberico, Giovanni Battista e Ignazio. E insieme alla famiglia è cresciuta pure la popolarità di Mario. Tra interviste, convegni, onorificenze e premi, Rigoni Stern è stato però spesso in viaggio, con la moglie Anna sempre accanto.

Alla scomparsa del marito, nel 2008, Anna si è ritirata in casa, offrendo ancor meno apparizioni negli eventi commemorativi. Negli ultimi tempi la sua salute si era indebolita, tanto che per un periodo è stata ospite della casa di riposo “Villa Rosa” di Asiago. Il richiamo della loro casa di Val Giardini però era troppo forte: lì sono conservati i ricordi e le gioie condivise con Mario, la scrivania con i quaderni e le penne con i quali Mario traduceva momenti di vita in poesia.

A casa ha voluto dire addio a questo mondo, nel mese in cui nacque suo marito, proprio come lui ha salutato questa vita in un giorno di primavera. Il 21 marzo sarebbe stato il compleanno di Anna.

lunedì 22 novembre 2021

Rapporto sui prigionieri, parte 5

Pubblico alcuni estratti del "Rapporto sui prigionieri di guerra italiani in Russia" a cura di Carlo Vicentini e Paolo Resta, fonte UNIRR, 2a edizione, anno 2005, a mio avviso la fonte più autorevole per fare chiarezza sulle perdite e sulle vicissitudini dei nostri soldati in Russia durante il secondo conflitto mondiale.

LA CATTURA.

L'animo esasperato e la tensione della battaglia. non lasciavano molto spazio a sentimenti umanitari quando la cattura avveniva al termine di un combattimento, specialmente se i russi avevano subito parecchie perdite. Ai soldati russi era stato inculcato un odio profondo contro questi invasori, dipinti come razziatori, incendiari, che deportavano le donne. Certo, questo profilo non si addiceva al soldato italiano, ma i russi non facevano troppa differenza tra noi ed i tedeschi: parecchie volte i soldati italiani, soprattutto gli ufficiali, furono passati per le armi appena catturati. Ai tedeschi questo succedeva quasi sistematicamente.

Quando la cattura avveniva da parte di truppe asiatiche, gli episodi di brutalità ed efferatezza erano certi. I comandanti ed i singoli gregari avevano ampia discrezionalità e, secondo gli umori personali, erano capaci dell'assassinio dei feriti o del mitragliamento dei prigionieri appena consegnatisi. A queste atrocità non si sono sottratti nemmeno i partigiani. Comportamento di malvagità più raffinata era la spogliazione dei prigionieri. Erano ambitissimi i pastrani con la pelliccia, i giubbetti, i maglioni casalinghi, i berretti di pelo, le coperte, gli stivaloni di feltro russi di cui erano stati dotati alcuni reparti della "Julia". Queste razzie inutili, perché il soldato russo non aveva certo bisogno del nostro equipaggiamento, lasciavano i malcapitati scalzi, senza guanti, condannandoli al congelamento ed a morte sicura.

A parte questi casi, frequenti ma non generalizzali, la massa dei prigionieri era sottoposta alla sistematica requisizione di tutto quanto avevano in tasca: orologi, penne stilografiche, accendisigari, temperini, portafogli e la sistematica distruzione di immagini sacre e fotografie. Queste perquisizioni si ripetevano ad ogni cambio della scorta e mano mano il prigioniero rimaneva sempre più spoglio perché i russi, non trovando più nulla di ambito, delusi d'essere arrivati per ultimi, si attaccavano alle gavette, ai cucchiai di alluminio, ai pettinini, alle cinghie dei pantaloni. I prigionieri venivano immediatamente avviati all'indietro, naturalmente a piedi, e poi raggruppati in colonne sempre più numerose fino al migliaio di uomini, sorvegliati da pochi guardiani poco più che adolescenti, ma oltremodo risoluti e spietati. I prigionieri non venivano interrogati, nessuno segnava le loro generalità.

Nella confusione dei primi giorni, qualche prigioniero, specialmente se ferito, riuscì a sottrarsi agli incolonnamenti ed a trovare rifugio presso un'isba, una famiglia impietosita che di solito lo invitava ad allontanarsi dopo averlo rifocillato e sommariamente curato. Aiutare e proteggere un soldato nemico era reato punito con la deportazione e non c'era cittadino russo che osasse sottrarsi agli ordini dell'NKVD la quale aveva mille occhi ed ancor più delatori. Questi prigionieri furono rastrellati tutti ancora nei primi mesi del 1943.

Moltissimi prigionieri feriti o congelati che, impossibilitati a camminare, erano stati lasciati dai russi in accantonamenti provvisori a Valuiki, a Rossosc oppure erano stati trovati nei nostri ospedali da campo, non potuti sgomberare per mancanza di mezzi di trasporto, furono spediti successivamente in appositi lager-ospedali situati negli Urali ed in altre località a migliaia di chilometri dal Don, dove arrivarono dimezzati o in condizioni tali che sopravvissero poche settimane. Ci sono stati dei prigionieri italiani che dopo catturati furono adibiti per alcuni mesi alla riparazione e ripristino delle centinaia di nostri automezzi abbandonati nella ritirata, ma in seguito furono mandati nei campi. La fortuna di questi soldati fu quella di evitare le marce ed i trasporti nei carri bestiame. Più fortunati ancora, quei piccoli gruppi che, catturati e rinchiusi in attesa di poterli sgomberare, furono, dopo uno o due giorni, liberati dai nostri reparti che, nell'aprirsi la strada delle ritirata, avevano infranto lo sbarramento russo in quella località.

Il viaggio del 2011, Garbusowo

Immagini del mio primo viaggio "esplorativo" effettuato nel 2011... Garbusowo e la steppa circostante.



Le fotografie di Mario Bagnasco, 03

Le fotografie di Mario Bagnasco, Primo Capo Squadra o Capo Squadra della Legione CC.NN. "Valle Scrivia".

"Malgrado il maltempo si continua a consolidare la prima linea".

mercoledì 17 novembre 2021

Le fotografie di Mario Bagnasco, 02

Le fotografie di Mario Bagnasco, Primo Capo Squadra o Capo Squadra della Legione CC.NN. "Valle Scrivia".

"Lanciafiamme in azione".