Le fotografie di Mario Bagnasco, Primo Capo Squadra o Capo Squadra della Legione CC.NN. "Valle Scrivia".
"Nostre salmerie in attesa del passaggio del Donetz".
Dal 2011 camminiamo in Russia e ci regaliamo emozioni
Trekking ed escursioni in Russia sui campi di battaglia della Seconda Guerra Mondiale
Danilo Dolcini - Phone 349.6472823 - Email danilo.dolcini@gmail.com - FB Un italiano in Russia
mercoledì 8 dicembre 2021
Racconti di Russia, nella piana di Opyt
Un'altra testimonianza tratta dal libro "Nikolajewka: c'ero anche io" a cura di Giulio Bedeschi. Capitano Luigi Collo, II Battaglione Misto Genio, 6° Reggimento Alpini.
Il 20 Gennaio 1943 la Divisione Tridentina ha lasciato da tre giorni le sue postazioni sul Don per tentare di aprirsi una strada attraverso i paesi già occupati alle sue spalle dai russi, e il II Battaglione Genio Alpino è arrivato la sera precedente nella piana di Opyt con la colonna del 6° Alpini. Ordini e contrordini si sono susseguiti nella notte per assegnare un compito operativo a questo reparto che si è trasformato in reparto di prima linea. Me ne è stato assegnato il comando e con me sono venti tenenti e sottotenenti che hanno fede in questi ragazzi che non hanno avuto alcuna esitazione ad abbandonare i propri attrezzi tecnici per impugnare il moschetto.
Il nemico non è riuscito a mantenere il contatto con la nostra retroguardia ma la situazione è molto incerta. [..] Alle sette del mattino la colonna che procede in silenzio è in fondo alla piana di Opyt e sta filtrando tra una massa di slittoni ungheresi in sosta. Le armi pesanti sono state caricate su slitte e avvolte in coperte per proteggerle dal gelo e consentirne l'impiego quando il reparto avrà raggiunto il 6° Alpini.
All'improvviso, quando i primi uomini sono usciti dal groviglio delle slitte ungheresi, si scatena sul reparto un fuoco d'inferno. Cannoni e mortai hanno aggiustato il tiro sulla nostra colonna e non è subito chiaro da dove provenga il fuoco; un attimo di incertezza coglie il reparto che è scaglionato su notevole profondità e non ha possibilità di schierarsi perché invischiato in mezzo ai reparti ungheresi. Ma la situazione si chiarisce subito; alle spalle dei genieri, dalle posizioni appena lasciate, escono dalla bruma che riduce il campo visivo 12 carri T34 scortati da ingenti forze di fanteria sovietica.
Il fuoco che si scatena sul reparto è micidiale e gli ungheresi che sono attorno a noi, buttando le armi e arrendendosi al nemico, ritardano il nostro movimento e la nostra reazione, e le perdite sono gravissime da parte nostra. Ma non è dell'insieme di questa azione, condotta in modo brillante da tutti i genieri del II battaglione che riuscirono a fermare a Opyt le avanguardie russe, che voglio parlare; ma del comportamento di alcuni valorosi genieri dal cui sacrificio è dipeso il risultato del combattimento. Siamo ancora al momento della sorpresa iniziale. Le armi pesanti del reparto sono caricate sulle slitte e non è facile raggiungerle in mezzo al caos creato dalle slitte ungheresi. La loro utilizzazione è però indispensabile per contrapporre alle armi del nemico la loro massa di fuoco, e i due mitraglieri della compagnia trasmissioni, caporale Caregnato e geniere Ragazzoni non hanno un attimo di esitazione.
Mentre il tenente Fabiani con il suo plotone che dispone di pochi mitragliatori, si schiera a ridosso delle slitte ungheresi, in un'impresa che non ha alcuna possibilità di scampo Ragazzoni e Caregnato buttano il pesante cappotto e si slanciano di corsa verso le salmerie che più indietro arrancano faticosamente tra le slitte ungheresi. In pochi istanti le loro armi sono scaricate e vengono piazzate in un punto dominante; i conducenti stessi animati dal loro esempio li aiutano a portare le cassette di munizioni.
Mentre il grosso del reparto pur subendo gravi perdite riesce a sottrarsi all'incalzare dei russi e a schierarsi a difesa in posizione favorevole, i due mitraglieri rimangono al loro posto e con il tiro rabbioso delle loro armi seminano la morte tra le file dei russi che avanzano. Nessuno potrà fermare questi due magnifici soldati; solo il destino che, purtroppo, per loro è già segnato. Caregnato è il primo a cadere, colpito da una scheggia di mortaio e si accascia sull'arma rovente mentre Ragazzoni spara ancora. Intorno a lui molti russi cadono e pare che il loro fuoco non possa nulla contro questo magnifico soldato. Infine è un T34 che si profila davanti alla sua arma; ma Ragazzoni non desiste e non cerca scampo; sul carro numerosi tiratori russi sparano su di lui e sul reparto ancora in movimento ma Ragazzoni impavido li abbatte; poi cerca ancora di opporsi al carro e rabbiosamente spara contro i cingoli e contro la massa d'acciaio che incombe su di lui. Non può far nulla contro il mezzo corazzato, ma il geniere non si arrende. Fino a quando il carro non lo travolge, Angelo Ragazzoni non cessa di sparare; la sua forza, il suo coraggio e il suo eroismo nulla hanno potuto contro la massa d'acciaio.
RICCARDO
La fotografia è stata scattata nel 2013 in quella che fu la piana di Opyt dove si verificarono gli episodi descritti nel testo.
Il 20 Gennaio 1943 la Divisione Tridentina ha lasciato da tre giorni le sue postazioni sul Don per tentare di aprirsi una strada attraverso i paesi già occupati alle sue spalle dai russi, e il II Battaglione Genio Alpino è arrivato la sera precedente nella piana di Opyt con la colonna del 6° Alpini. Ordini e contrordini si sono susseguiti nella notte per assegnare un compito operativo a questo reparto che si è trasformato in reparto di prima linea. Me ne è stato assegnato il comando e con me sono venti tenenti e sottotenenti che hanno fede in questi ragazzi che non hanno avuto alcuna esitazione ad abbandonare i propri attrezzi tecnici per impugnare il moschetto.
Il nemico non è riuscito a mantenere il contatto con la nostra retroguardia ma la situazione è molto incerta. [..] Alle sette del mattino la colonna che procede in silenzio è in fondo alla piana di Opyt e sta filtrando tra una massa di slittoni ungheresi in sosta. Le armi pesanti sono state caricate su slitte e avvolte in coperte per proteggerle dal gelo e consentirne l'impiego quando il reparto avrà raggiunto il 6° Alpini.
All'improvviso, quando i primi uomini sono usciti dal groviglio delle slitte ungheresi, si scatena sul reparto un fuoco d'inferno. Cannoni e mortai hanno aggiustato il tiro sulla nostra colonna e non è subito chiaro da dove provenga il fuoco; un attimo di incertezza coglie il reparto che è scaglionato su notevole profondità e non ha possibilità di schierarsi perché invischiato in mezzo ai reparti ungheresi. Ma la situazione si chiarisce subito; alle spalle dei genieri, dalle posizioni appena lasciate, escono dalla bruma che riduce il campo visivo 12 carri T34 scortati da ingenti forze di fanteria sovietica.
Il fuoco che si scatena sul reparto è micidiale e gli ungheresi che sono attorno a noi, buttando le armi e arrendendosi al nemico, ritardano il nostro movimento e la nostra reazione, e le perdite sono gravissime da parte nostra. Ma non è dell'insieme di questa azione, condotta in modo brillante da tutti i genieri del II battaglione che riuscirono a fermare a Opyt le avanguardie russe, che voglio parlare; ma del comportamento di alcuni valorosi genieri dal cui sacrificio è dipeso il risultato del combattimento. Siamo ancora al momento della sorpresa iniziale. Le armi pesanti del reparto sono caricate sulle slitte e non è facile raggiungerle in mezzo al caos creato dalle slitte ungheresi. La loro utilizzazione è però indispensabile per contrapporre alle armi del nemico la loro massa di fuoco, e i due mitraglieri della compagnia trasmissioni, caporale Caregnato e geniere Ragazzoni non hanno un attimo di esitazione.
Mentre il tenente Fabiani con il suo plotone che dispone di pochi mitragliatori, si schiera a ridosso delle slitte ungheresi, in un'impresa che non ha alcuna possibilità di scampo Ragazzoni e Caregnato buttano il pesante cappotto e si slanciano di corsa verso le salmerie che più indietro arrancano faticosamente tra le slitte ungheresi. In pochi istanti le loro armi sono scaricate e vengono piazzate in un punto dominante; i conducenti stessi animati dal loro esempio li aiutano a portare le cassette di munizioni.
Mentre il grosso del reparto pur subendo gravi perdite riesce a sottrarsi all'incalzare dei russi e a schierarsi a difesa in posizione favorevole, i due mitraglieri rimangono al loro posto e con il tiro rabbioso delle loro armi seminano la morte tra le file dei russi che avanzano. Nessuno potrà fermare questi due magnifici soldati; solo il destino che, purtroppo, per loro è già segnato. Caregnato è il primo a cadere, colpito da una scheggia di mortaio e si accascia sull'arma rovente mentre Ragazzoni spara ancora. Intorno a lui molti russi cadono e pare che il loro fuoco non possa nulla contro questo magnifico soldato. Infine è un T34 che si profila davanti alla sua arma; ma Ragazzoni non desiste e non cerca scampo; sul carro numerosi tiratori russi sparano su di lui e sul reparto ancora in movimento ma Ragazzoni impavido li abbatte; poi cerca ancora di opporsi al carro e rabbiosamente spara contro i cingoli e contro la massa d'acciaio che incombe su di lui. Non può far nulla contro il mezzo corazzato, ma il geniere non si arrende. Fino a quando il carro non lo travolge, Angelo Ragazzoni non cessa di sparare; la sua forza, il suo coraggio e il suo eroismo nulla hanno potuto contro la massa d'acciaio.
RICCARDO
La fotografia è stata scattata nel 2013 in quella che fu la piana di Opyt dove si verificarono gli episodi descritti nel testo.
Bassil'ora per Natale
Quest'anno fai un regalo di Natale diverso, regala la memoria, regala una storia emozionante che ebbe inizio la vigilia di Natale di 79 anni fa, una storia in tempo di guerra ma piena di amore per la vita... il DVD di BASSIL'ORA!
Il DVD è acquistabile a questo link https://www.runshop.it/prodotti/Bassil_ora.
Oltre 6.000 persone seguono questa pagina; abbiamo e avete la possibilità concreta di fare un regalo differente dal solito, un regalo che possa ancor più di 1000 altri dare un differente valore a questo Natale e infine ma non ultima la possibilità di aiutare Emera Film che ha coraggiosamente (a mio avviso) girato questo docufilm dedicato ad uno degli ultimi reduci di Russia ancora in vita.
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martedì 30 novembre 2021
Le fotografie di Mario Bagnasco, 06
Le fotografie di Mario Bagnasco, Primo Capo Squadra o Capo Squadra della Legione CC.NN. "Valle Scrivia".
"E' grosso ma gli stukas lo hanno fregato".
"E' grosso ma gli stukas lo hanno fregato".
domenica 28 novembre 2021
Rapporto sui prigionieri, parte 7
Pubblico alcuni estratti del "Rapporto sui prigionieri di guerra italiani in Russia" a cura di Carlo Vicentini e Paolo Resta, fonte UNIRR, 2a edizione, anno 2005, a mio avviso la fonte più autorevole per fare chiarezza sulle perdite e sulle vicissitudini dei nostri soldati in Russia durante il secondo conflitto mondiale.
I TRASPORTI FERROVIARI.
II modo nel quale i prigionieri vennero trasferiti in treno può dare la misura di come la Russia staliniana fosse lontana da quello che l'Occidente chiama civiltà. Anche perché, non solo ai prigionieri di guerra veniva usato tale trattamento, ma milioni di cittadini sovietici, uomini, donne. vecchi e bambini furono deportati con lo stesso sistema. Lo furono i "Kulak" all'epoca della collettivizzazione delle terre, i cittadini delle repubbliche baltiche quando i sovietici se le incamerarono, i tedeschi del Volga appena iniziata la guerra, la popolazione della Crimea a guerra finita, i soldati russi prigionieri dei tedeschi quando dai lager nazisti furono trasferiti in quelli della NKVD per la rieducazione socialista per far dimenticare loro cosa avevano visto.
I prigionieri vennero caricati su carri merci che all'interno non avevano nessuna atttrezzatura e, poiché vi immettevano dai settanta ai cento uomini, lo spazio disponibile permetteva a ciascuno di stare a malapena in piedi, pigiato ed immobile. Cosa sopportabile per una corsa in tram, ma non per i 15 o 20 giorni che in genere duravano i viaggi. Le percorrenze dei primi trasferimenti non furono lunghissimi - da Kalac a Khrinovoje ci sono 200 km.; da Kalac a Tambov 500 - ma le tradotte dei prigionieri sostavano giorni e giorni negli scali per poi viaggiare solo qualche ora. I vagoni erano bloccati dall'esterno ed in qualche caso, anche i piccoli sportelli, in alto vicino al tetto, erano sbarrati con tavole inchiodate. La sola luce che filtrava era quella delle fessure. I vagoni non venivano aperti con regolarità. Passavano anche due o più giorni prima che scorta si decidesse ad aprire, comunque non era ammesso scendere. E' evidente che in simili condizioni, i vagoni erano diventati dei letamai.
Di solito gli uomini, anche quando sono prigionieri, hanno bisogno di mangiare, ma i russi non davano nessunissima importanza a tale esigenza. Ci pensavano un giorno e poi per altri cinque nulla, poi un paio di distribuzioni e di nuovo giorni e giorni senza. Oltre alla ben nota disorganiualione russa in fatto di distribuzione dei viveri (non è cambiata granché nemmeno oggi) ed alla resistenza dei Comandi a concedere viveri ai "fascisti invasori", la scorta del treno faceva palesi intrallazzi con accaparratori civili. Il vitto, quando veniva distribuito, consisteva in galletta militare nerissima e da pesce conservato intero. Raramente era concessa la distribuzione di acqua. Il sistema era quello usato per dare il magime ai polli: il pane o il pesce veniva lancialo da terra, attraverso il portello aperto, all'interno del vagone. Nella lotta furibonda che seguiva, il cibo finiva sul pavimento, calpestato, sbriciolato, insozzato.
Come nelle marce, anche sul treno prosegui lo stillicidio dei morti, di coloro che pur avendo resistito fino allora, avevano ormai esaurita l'ultima riserva, ma anche la dissenteria, le ferite non curate, i congelamenti arrivati alla setticemia, le polmoniti, i cuori indeboliti, esigevano le loro vittime. La frequenza e la percentuale dei morti aumentava col passare dei giorni. I cadaveri rimanevano nei vagoni accanto ai vivi, finché i russi non decidevano di farli scaricare nelle scarpate o farli trasferire in appositi vagoni in coda al treno, non prima che i compagni li avessero completanlente spogliati per coprire meglio i sopravvissuti o farne fagotti per quelli rimasti senza scarpe. La mortalità durante i trasporti in treno fu elevatissima come è confermato dalle numerose testimonianze.
Questo sistema di far viaggiare i prigionieri fu quello adottato il grande esodo dal fronte fino ai primi campi di smistamento tra il dicembre del '42 ed il gennaio, febbraio 1943. Nello stesso periodo tradotte con feriti e congelati furono avviate verso gli ospedali delle lontanissime retrovie tra il Volga e gli Urali, tra gli Urali ed il Caspio - in condizioni meno disastrose, ma con tempi ben più lunghi, si parla di venti. venticinque giorni di viaggio, e di conseguenza con una mortalità analoga a quella dei trasporti citati prima.
Trasferimenti in treno continuarono ad essere effettuati durante tutti i quattro anni che durò la prigionia, perché i prigionieri venivano sovente spostati da un campo all'altro. Gli ufficiali cambiarono tre volte campo, ma i soldati italiani conobbero cinque o sei campi prima di essere mandati negli ultimi due anni nel Kazakistan. Questi viaggi successivi avvennero con carri bestiame aventi delle plance a mezz'aria in modo che la quarantina di occupanti potesse coricarsi, avevano una stufetta al centro anche se raramente era fornita di legna; la distribuzione del vitto avveniva con una certa regolarità. Molti prigionieri raccontano di aver viaggiato in carri cellulari insieme a deportati civili o a delinquenti comuni e vi sono stati casi di prigionieri isolati che hanno viaggiato scortati, sui treni ordinari in meno alla gente comune.
I TRASPORTI FERROVIARI.
II modo nel quale i prigionieri vennero trasferiti in treno può dare la misura di come la Russia staliniana fosse lontana da quello che l'Occidente chiama civiltà. Anche perché, non solo ai prigionieri di guerra veniva usato tale trattamento, ma milioni di cittadini sovietici, uomini, donne. vecchi e bambini furono deportati con lo stesso sistema. Lo furono i "Kulak" all'epoca della collettivizzazione delle terre, i cittadini delle repubbliche baltiche quando i sovietici se le incamerarono, i tedeschi del Volga appena iniziata la guerra, la popolazione della Crimea a guerra finita, i soldati russi prigionieri dei tedeschi quando dai lager nazisti furono trasferiti in quelli della NKVD per la rieducazione socialista per far dimenticare loro cosa avevano visto.
I prigionieri vennero caricati su carri merci che all'interno non avevano nessuna atttrezzatura e, poiché vi immettevano dai settanta ai cento uomini, lo spazio disponibile permetteva a ciascuno di stare a malapena in piedi, pigiato ed immobile. Cosa sopportabile per una corsa in tram, ma non per i 15 o 20 giorni che in genere duravano i viaggi. Le percorrenze dei primi trasferimenti non furono lunghissimi - da Kalac a Khrinovoje ci sono 200 km.; da Kalac a Tambov 500 - ma le tradotte dei prigionieri sostavano giorni e giorni negli scali per poi viaggiare solo qualche ora. I vagoni erano bloccati dall'esterno ed in qualche caso, anche i piccoli sportelli, in alto vicino al tetto, erano sbarrati con tavole inchiodate. La sola luce che filtrava era quella delle fessure. I vagoni non venivano aperti con regolarità. Passavano anche due o più giorni prima che scorta si decidesse ad aprire, comunque non era ammesso scendere. E' evidente che in simili condizioni, i vagoni erano diventati dei letamai.
Di solito gli uomini, anche quando sono prigionieri, hanno bisogno di mangiare, ma i russi non davano nessunissima importanza a tale esigenza. Ci pensavano un giorno e poi per altri cinque nulla, poi un paio di distribuzioni e di nuovo giorni e giorni senza. Oltre alla ben nota disorganiualione russa in fatto di distribuzione dei viveri (non è cambiata granché nemmeno oggi) ed alla resistenza dei Comandi a concedere viveri ai "fascisti invasori", la scorta del treno faceva palesi intrallazzi con accaparratori civili. Il vitto, quando veniva distribuito, consisteva in galletta militare nerissima e da pesce conservato intero. Raramente era concessa la distribuzione di acqua. Il sistema era quello usato per dare il magime ai polli: il pane o il pesce veniva lancialo da terra, attraverso il portello aperto, all'interno del vagone. Nella lotta furibonda che seguiva, il cibo finiva sul pavimento, calpestato, sbriciolato, insozzato.
Come nelle marce, anche sul treno prosegui lo stillicidio dei morti, di coloro che pur avendo resistito fino allora, avevano ormai esaurita l'ultima riserva, ma anche la dissenteria, le ferite non curate, i congelamenti arrivati alla setticemia, le polmoniti, i cuori indeboliti, esigevano le loro vittime. La frequenza e la percentuale dei morti aumentava col passare dei giorni. I cadaveri rimanevano nei vagoni accanto ai vivi, finché i russi non decidevano di farli scaricare nelle scarpate o farli trasferire in appositi vagoni in coda al treno, non prima che i compagni li avessero completanlente spogliati per coprire meglio i sopravvissuti o farne fagotti per quelli rimasti senza scarpe. La mortalità durante i trasporti in treno fu elevatissima come è confermato dalle numerose testimonianze.
Questo sistema di far viaggiare i prigionieri fu quello adottato il grande esodo dal fronte fino ai primi campi di smistamento tra il dicembre del '42 ed il gennaio, febbraio 1943. Nello stesso periodo tradotte con feriti e congelati furono avviate verso gli ospedali delle lontanissime retrovie tra il Volga e gli Urali, tra gli Urali ed il Caspio - in condizioni meno disastrose, ma con tempi ben più lunghi, si parla di venti. venticinque giorni di viaggio, e di conseguenza con una mortalità analoga a quella dei trasporti citati prima.
Trasferimenti in treno continuarono ad essere effettuati durante tutti i quattro anni che durò la prigionia, perché i prigionieri venivano sovente spostati da un campo all'altro. Gli ufficiali cambiarono tre volte campo, ma i soldati italiani conobbero cinque o sei campi prima di essere mandati negli ultimi due anni nel Kazakistan. Questi viaggi successivi avvennero con carri bestiame aventi delle plance a mezz'aria in modo che la quarantina di occupanti potesse coricarsi, avevano una stufetta al centro anche se raramente era fornita di legna; la distribuzione del vitto avveniva con una certa regolarità. Molti prigionieri raccontano di aver viaggiato in carri cellulari insieme a deportati civili o a delinquenti comuni e vi sono stati casi di prigionieri isolati che hanno viaggiato scortati, sui treni ordinari in meno alla gente comune.
sabato 27 novembre 2021
Le fotografie di Mario Bagnasco, 05
Le fotografie di Mario Bagnasco, Primo Capo Squadra o Capo Squadra della Legione CC.NN. "Valle Scrivia".
"Finalmente Stalino".
"Finalmente Stalino".
Il viaggio del 2011, Garbusowo
Immagini del mio primo viaggio "esplorativo" effettuato nel 2011... Garbusowo e la steppa circostante.
Libri: "MIO NONNO"
Segnalo questo libro uscito in commercio di Attilio Miceli dal titolo: "Mio Nonno". Vista dalla fine, la vita di Attilio Miceli è quella di un normalissimo ferroviere in pensione che vive nel suo tranquillo paese del sud.
La verità però, è che Attilio ha dovuto attraversare molte guerre prima di raggiungere la meritata pace. Nato in una famiglia benestante che diventa povera all’improvviso, nel 1943 a soli 22 anni, viene spedito a combattere in Russia come migliaia di altri giovani. Tornato miracolosamente illeso dall’inferno di ghiaccio, quando capisce che lo avrebbero rimandato al fronte scappa nei boschi per quasi un anno come disertore. Finita la guerra si innamora di una ragazza che rimane incinta, è costretto ad abbandonarla temporaneamente per mancanza di mezzi, pratica mille mestieri nel tentativo di affrancarsi dalla povertà, consegue la licenza elementare da autodidatta, vince il concorso per le ferrovie dello stato, si trasferisce da solo a Torino per cinque anni, torna, sposa la sua amata, costruisce con le proprie mani una casa, vivono insieme tutta una vita con altri due figli e numerosi nipoti.
Una storia d’altri tempi, di coraggio, intelligenza, rivalsa, senso di giustizia, fortuna, sfortuna e onore. Dove Attilio, un eroe normale, pieno di difetti, finisce per vincere la battaglia più importante di tutte: vivere.
Il libro è acquistabile su Amazon a questo link: https://www.amazon.it/dp/B092HLNW61/ref=tmm_pap_swatch_0?_encoding=UTF8&qid=1618006502&sr=1-1
La verità però, è che Attilio ha dovuto attraversare molte guerre prima di raggiungere la meritata pace. Nato in una famiglia benestante che diventa povera all’improvviso, nel 1943 a soli 22 anni, viene spedito a combattere in Russia come migliaia di altri giovani. Tornato miracolosamente illeso dall’inferno di ghiaccio, quando capisce che lo avrebbero rimandato al fronte scappa nei boschi per quasi un anno come disertore. Finita la guerra si innamora di una ragazza che rimane incinta, è costretto ad abbandonarla temporaneamente per mancanza di mezzi, pratica mille mestieri nel tentativo di affrancarsi dalla povertà, consegue la licenza elementare da autodidatta, vince il concorso per le ferrovie dello stato, si trasferisce da solo a Torino per cinque anni, torna, sposa la sua amata, costruisce con le proprie mani una casa, vivono insieme tutta una vita con altri due figli e numerosi nipoti.
Una storia d’altri tempi, di coraggio, intelligenza, rivalsa, senso di giustizia, fortuna, sfortuna e onore. Dove Attilio, un eroe normale, pieno di difetti, finisce per vincere la battaglia più importante di tutte: vivere.
Il libro è acquistabile su Amazon a questo link: https://www.amazon.it/dp/B092HLNW61/ref=tmm_pap_swatch_0?_encoding=UTF8&qid=1618006502&sr=1-1
giovedì 25 novembre 2021
Il viaggio del 2011, Garbusowo
Immagini del mio primo viaggio "esplorativo" effettuato nel 2011... Garbusowo e la steppa circostante.
Rapporto sui prigionieri, parte 6
Pubblico alcuni estratti del "Rapporto sui prigionieri di guerra italiani in Russia" a cura di Carlo Vicentini e Paolo Resta, fonte UNIRR, 2a edizione, anno 2005, a mio avviso la fonte più autorevole per fare chiarezza sulle perdite e sulle vicissitudini dei nostri soldati in Russia durante il secondo conflitto mondiale.
LE MARCE DEL DAVAI.
Si è detto che i prigionieri, normalmente venivano incolonnati a gruppi di mille. La disciplina di una colonna cosi numerosa, scortata da non più di una ventina di giovanissimi soldati o da anziani territoriali, era ottenuta con il terrore. Le guardie sparavano incessantemente, in aria, sui fianchi della colonna, ad una spanna dai piedi dei prigionieri. Non era ammesso uscire dai ranghi per nessun motivo, anche lo scarto di un metro costava all'imprudente una sventagliata di mitra. La marcia era accompagnata dalle grida incessanti, ossessive dei russi che incitavano a camminare più in fretta. Con una monotonia ed un'apatia tutte orientali, urlavano: "Davaj... Davaj... Davaj bistriej!" (avanti, avanti in fretta) per ore e ore, dalla partenza all'arrivo. Ogni prigioniero ricorda come un incubo quella parola ed essa, ancor oggi, è adoperata per indicare quelle tragiche marce di trasferimento.
Le colonne percorrevano tappe di quindici, venti chilometri giornalieri con il bello e con il cattivo tempo. Al termine della tappa, i villaggi offrivano come ricovero capannoni o stalle, edifici diroccati che non erano mai sufficienti per ospitare tutti, sempre superaffollati non permettevano certo agli uomini di coricarsi. Quando non vi erano locali sufficienti o adatti, i prigionieri venivano ammassati sulla piazza del paese e fatti pernottare all'aperto con il risultato che all'indomani la colonna ripartiva con dieci o tienta uomini in meno, rimasti assiderati sul terreno e con tanti nuovi congelati, candidati, nei giorni seguenti alla esecuzione sommaria per il delitto di non camminare abbastanza svelti. Succedeva infatti questo: nella massa dei prigionieri, man mano che passavano i giorni, aumentavano coloro che non riuscivano a mantenere l'andatura degli altri; non solo i congelati ai piedi. C'erano ufficiali superiori molto anziani, c'era gente che non aveva mai camminato a piedi, come gli autisti, i medici, la gente dei Comandi, e c'era gente che aveva combattuto e camminato per due settimane percorrendo cinquanta, settanta, chi cento chilometri di ritirata che ora dovevano fare a ritroso per ritornare al Don; ne avrebbe dovuti fare un altro centinaio prima di arrivare al capolinea ferroviario di Kalac.
Tutti costoro, in fondo alla colonna, arrancavano come potevano, qualche volta con la forza della disperazione, in altri casi rinunciando alla lotta. Il soldato russo che chiudeva la colonna non aveva scrupoli: chi non ce la faceva, veniva "eliminato". Nessun prigioniero doveva rimanere vivo ai bordi della strada. I più feroci erano i giovanissimi soldati, ragazzi di 17 forse 15 anni, che conducevano la loro guerra privata contro gli invasori, uccidendo senza rischio quelli che avevano a portata di mano.
Quando le colonne incrociavano soldati ed automezzi diretti al fronte, non mancavano le angherie, gli sputi, le percosse, quando non erano sventagliate di mitra nel mucchio. Il prigioniero era alla mercé del singolo soldato e mai nessun ufficiale è intervenuto ad impedire simili barbarie. Le marce durarono dai quindici ai venticinque giorni a seconda del luogo della cattura. Durante questo periodo fu distribuito da mangiare solo discontinuamente e la sola cosa data era pane nero in ragione di un paio d'etti a testa. Praticamente, quegli uomini dovettero marciare per centinaia di chilometri e durante tre settimane, mangiando - e non tutti i giorni - solo un boccone di pane, mai un pasto o una bevanda calda. Questo in pieno inverno russo, con temperature micidiali, senza poter dormire o riposarsi al caldo alla fine di ogni tappa. Non c'è da meravigliarsi se i loro itinerari erano seminati di cadaveri.
Nella fotografia la stazione di Kalac fotografata nell'estate del 2019.
LE MARCE DEL DAVAI.
Si è detto che i prigionieri, normalmente venivano incolonnati a gruppi di mille. La disciplina di una colonna cosi numerosa, scortata da non più di una ventina di giovanissimi soldati o da anziani territoriali, era ottenuta con il terrore. Le guardie sparavano incessantemente, in aria, sui fianchi della colonna, ad una spanna dai piedi dei prigionieri. Non era ammesso uscire dai ranghi per nessun motivo, anche lo scarto di un metro costava all'imprudente una sventagliata di mitra. La marcia era accompagnata dalle grida incessanti, ossessive dei russi che incitavano a camminare più in fretta. Con una monotonia ed un'apatia tutte orientali, urlavano: "Davaj... Davaj... Davaj bistriej!" (avanti, avanti in fretta) per ore e ore, dalla partenza all'arrivo. Ogni prigioniero ricorda come un incubo quella parola ed essa, ancor oggi, è adoperata per indicare quelle tragiche marce di trasferimento.
Le colonne percorrevano tappe di quindici, venti chilometri giornalieri con il bello e con il cattivo tempo. Al termine della tappa, i villaggi offrivano come ricovero capannoni o stalle, edifici diroccati che non erano mai sufficienti per ospitare tutti, sempre superaffollati non permettevano certo agli uomini di coricarsi. Quando non vi erano locali sufficienti o adatti, i prigionieri venivano ammassati sulla piazza del paese e fatti pernottare all'aperto con il risultato che all'indomani la colonna ripartiva con dieci o tienta uomini in meno, rimasti assiderati sul terreno e con tanti nuovi congelati, candidati, nei giorni seguenti alla esecuzione sommaria per il delitto di non camminare abbastanza svelti. Succedeva infatti questo: nella massa dei prigionieri, man mano che passavano i giorni, aumentavano coloro che non riuscivano a mantenere l'andatura degli altri; non solo i congelati ai piedi. C'erano ufficiali superiori molto anziani, c'era gente che non aveva mai camminato a piedi, come gli autisti, i medici, la gente dei Comandi, e c'era gente che aveva combattuto e camminato per due settimane percorrendo cinquanta, settanta, chi cento chilometri di ritirata che ora dovevano fare a ritroso per ritornare al Don; ne avrebbe dovuti fare un altro centinaio prima di arrivare al capolinea ferroviario di Kalac.
Tutti costoro, in fondo alla colonna, arrancavano come potevano, qualche volta con la forza della disperazione, in altri casi rinunciando alla lotta. Il soldato russo che chiudeva la colonna non aveva scrupoli: chi non ce la faceva, veniva "eliminato". Nessun prigioniero doveva rimanere vivo ai bordi della strada. I più feroci erano i giovanissimi soldati, ragazzi di 17 forse 15 anni, che conducevano la loro guerra privata contro gli invasori, uccidendo senza rischio quelli che avevano a portata di mano.
Quando le colonne incrociavano soldati ed automezzi diretti al fronte, non mancavano le angherie, gli sputi, le percosse, quando non erano sventagliate di mitra nel mucchio. Il prigioniero era alla mercé del singolo soldato e mai nessun ufficiale è intervenuto ad impedire simili barbarie. Le marce durarono dai quindici ai venticinque giorni a seconda del luogo della cattura. Durante questo periodo fu distribuito da mangiare solo discontinuamente e la sola cosa data era pane nero in ragione di un paio d'etti a testa. Praticamente, quegli uomini dovettero marciare per centinaia di chilometri e durante tre settimane, mangiando - e non tutti i giorni - solo un boccone di pane, mai un pasto o una bevanda calda. Questo in pieno inverno russo, con temperature micidiali, senza poter dormire o riposarsi al caldo alla fine di ogni tappa. Non c'è da meravigliarsi se i loro itinerari erano seminati di cadaveri.
Nella fotografia la stazione di Kalac fotografata nell'estate del 2019.
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