Pubblico alcuni estratti del "Rapporto sui prigionieri di guerra italiani in Russia" a cura di Carlo Vicentini e Paolo Resta, fonte UNIRR, 2a edizione, anno 2005, a mio avviso la fonte più autorevole per fare chiarezza sulle perdite e sulle vicissitudini dei nostri soldati in Russia durante il secondo conflitto mondiale.
LE MARCE DEL DAVAI.
Si è detto che i prigionieri, normalmente venivano incolonnati a gruppi di mille. La disciplina di una colonna cosi numerosa, scortata da non più di una ventina di giovanissimi soldati o da anziani territoriali, era ottenuta con il terrore. Le guardie sparavano incessantemente, in aria, sui fianchi della colonna, ad una spanna dai piedi dei prigionieri. Non era ammesso uscire dai ranghi per nessun motivo, anche lo scarto di un metro costava all'imprudente una sventagliata di mitra. La marcia era accompagnata dalle grida incessanti, ossessive dei russi che incitavano a camminare più in fretta. Con una monotonia ed un'apatia tutte orientali, urlavano: "Davaj... Davaj... Davaj bistriej!" (avanti, avanti in fretta) per ore e ore, dalla partenza all'arrivo. Ogni prigioniero ricorda come un incubo quella parola ed essa, ancor oggi, è adoperata per indicare quelle tragiche marce di trasferimento.
Le colonne percorrevano tappe di quindici, venti chilometri giornalieri con il bello e con il cattivo tempo. Al termine della tappa, i villaggi offrivano come ricovero capannoni o stalle, edifici diroccati che non erano mai sufficienti per ospitare tutti, sempre superaffollati non permettevano certo agli uomini di coricarsi. Quando non vi erano locali sufficienti o adatti, i prigionieri venivano ammassati sulla piazza del paese e fatti pernottare all'aperto con il risultato che all'indomani la colonna ripartiva con dieci o tienta uomini in meno, rimasti assiderati sul terreno e con tanti nuovi congelati, candidati, nei giorni seguenti alla esecuzione sommaria per il delitto di non camminare abbastanza svelti. Succedeva infatti questo: nella massa dei prigionieri, man mano che passavano i giorni, aumentavano coloro che non riuscivano a mantenere l'andatura degli altri; non solo i congelati ai piedi. C'erano ufficiali superiori molto anziani, c'era gente che non aveva mai camminato a piedi, come gli autisti, i medici, la gente dei Comandi, e c'era gente che aveva combattuto e camminato per due settimane percorrendo cinquanta, settanta, chi cento chilometri di ritirata che ora dovevano fare a ritroso per ritornare al Don; ne avrebbe dovuti fare un altro centinaio prima di arrivare al capolinea ferroviario di Kalac.
Tutti costoro, in fondo alla colonna, arrancavano come potevano, qualche volta con la forza della disperazione, in altri casi rinunciando alla lotta. Il soldato russo che chiudeva la colonna non aveva scrupoli: chi non ce la faceva, veniva "eliminato". Nessun prigioniero doveva rimanere vivo ai bordi della strada. I più feroci erano i giovanissimi soldati, ragazzi di 17 forse 15 anni, che conducevano la loro guerra privata contro gli invasori, uccidendo senza rischio quelli che avevano a portata di mano.
Quando le colonne incrociavano soldati ed automezzi diretti al fronte, non mancavano le angherie, gli sputi, le percosse, quando non erano sventagliate di mitra nel mucchio. Il prigioniero era alla mercé del singolo soldato e mai nessun ufficiale è intervenuto ad impedire simili barbarie. Le marce durarono dai quindici ai venticinque giorni a seconda del luogo della cattura. Durante questo periodo fu distribuito da mangiare solo discontinuamente e la sola cosa data era pane nero in ragione di un paio d'etti a testa. Praticamente, quegli uomini dovettero marciare per centinaia di chilometri e durante tre settimane, mangiando - e non tutti i giorni - solo un boccone di pane, mai un pasto o una bevanda calda. Questo in pieno inverno russo, con temperature micidiali, senza poter dormire o riposarsi al caldo alla fine di ogni tappa. Non c'è da meravigliarsi se i loro itinerari erano seminati di cadaveri.
Nella fotografia la stazione di Kalac fotografata nell'estate del 2019.
Dal 2011 camminiamo in Russia e ci regaliamo emozioni
Trekking ed escursioni in Russia sui campi di battaglia della Seconda Guerra Mondiale
Danilo Dolcini - Phone 349.6472823 - Email danilo.dolcini@gmail.com - FB Un italiano in Russia
giovedì 25 novembre 2021
Le fotografie di Mario Bagnasco, 04
Le fotografie di Mario Bagnasco, Primo Capo Squadra o Capo Squadra della Legione CC.NN. "Valle Scrivia".
"Caposaldo 10 'Giarabub' 12.12.1942 prima dell'azione l'ufficiale sta spiegando".
Questa fotografia è davvero un pezzo di storia... è stata scattata solo 4 giorni prima dell'inizio dell'operazione Piccolo Saturno contro le linee italiane.
"Caposaldo 10 'Giarabub' 12.12.1942 prima dell'azione l'ufficiale sta spiegando".
Questa fotografia è davvero un pezzo di storia... è stata scattata solo 4 giorni prima dell'inizio dell'operazione Piccolo Saturno contro le linee italiane.
Anna Maria Rigoni
L'ho scoperto solo oggi... Morta a 99 anni Anna, la moglie di Mario Rigoni Stern.
Ancora pochi mesi e avrebbe raggiunto il traguardo delle 100 candeline. Anna Maria Rigoni “Haus”, moglie dello scrittore Mario Rigoni Stern, è però mancata venerdì nella sua casa di Val Giardini ad Asiago e ha raggiunto il “suo” Mario, il marito che aveva seguito nella sua vita di scrittore e di uomo. La notizia della scomparsa della signora Anna è arrivata nel paese di Asiago, e rapidamente diffusa su tutto l’Altopiano, a funerali avvenuti. I figli hanno rispettato fino in fondo la nota riservatezza di Anna. «Abbiamo voluto tenerla a casa fino alla fine - le parole del figlio Gianni - perché per noi figli non era la moglie di Mario Rigoni Stern ma la nostra mamma».
I dieci nipoti, che si sono stretti attorno ai genitori, hanno semplicemente dichiarato: «Abbiamo voluto tanto bene ad entrambi. Ci consideriamo fortunati di aver goduto della compagnia e della saggezza dei nostri nonni, che portiamo nel cuore». Era infatti una donna riservata, che si è sempre tenuta fuori dalle luci della ribalta che hanno illuminato Mario dopo il successo dei suoi libri. Si ricorda Anna sempre in disparte, ma subito pronta a intervenire per proteggere il marito e per suggerirgli di riposare quando si donava generosamente alle tante persone, dai giornalisti ai semplici fan, che lo cercavano presentandosi persino sugli scalini di casa. È stata il baluardo insormontabile a tutela della creatività e dell’ispirazione dello scrittore, come lui stesso ha sempre ammesso.
Ma la discrezione e la gelosia con cui custodiva i suoi spazi e i momenti casalinghi non hanno impedito ad Anna di conoscere e frequentare gli intellettuali del Novecento. Da Italo Calvino, Emilio Lussu e Leonardo Sciasia a Nuto Revelli e Primo Levi, le serate trascorse a discutere e a riflettere sul mondo sono state molte; in particolare con Revelli e Levi, con i quali Anna e Mario alimentarono una profonda e intima amicizia.
Tra i racconti del marito, che ovviamente conosceva molto bene, Anna aveva una predilezione per quelli inerenti la caccia, in considerazione che anche lei da giovane aveva praticato l’arte venatoria. Proprio per questa sua passione è stata proprio Anna a caldeggiare l’istituzione del Premio letterario Mario Rigoni Stern, promosso dall’associazione Ars Venandi; è stata una delle poche volte in cui si ricorda un così determinato intervento a favore di una commemorazione dedicata al marito, impegno che solitamente lasciava ai figli. «Lo sostengo perché credo che sia il miglior modo di portare avanti le idee sulla montagna che Mario esprimeva nei suoi racconti» dichiarò la signora durante la presentazione ufficiale del premio.
Anna e Mario Rigoni Stern si sono conosciuti a scuola e sono convolati a nozze dopo la guerra, nel maggio del 1946. Con gli anni la famiglia è cresciuta per la nascita, nell’ordine, di Alberico, Giovanni Battista e Ignazio. E insieme alla famiglia è cresciuta pure la popolarità di Mario. Tra interviste, convegni, onorificenze e premi, Rigoni Stern è stato però spesso in viaggio, con la moglie Anna sempre accanto.
Alla scomparsa del marito, nel 2008, Anna si è ritirata in casa, offrendo ancor meno apparizioni negli eventi commemorativi. Negli ultimi tempi la sua salute si era indebolita, tanto che per un periodo è stata ospite della casa di riposo “Villa Rosa” di Asiago. Il richiamo della loro casa di Val Giardini però era troppo forte: lì sono conservati i ricordi e le gioie condivise con Mario, la scrivania con i quaderni e le penne con i quali Mario traduceva momenti di vita in poesia.
A casa ha voluto dire addio a questo mondo, nel mese in cui nacque suo marito, proprio come lui ha salutato questa vita in un giorno di primavera. Il 21 marzo sarebbe stato il compleanno di Anna.
Ancora pochi mesi e avrebbe raggiunto il traguardo delle 100 candeline. Anna Maria Rigoni “Haus”, moglie dello scrittore Mario Rigoni Stern, è però mancata venerdì nella sua casa di Val Giardini ad Asiago e ha raggiunto il “suo” Mario, il marito che aveva seguito nella sua vita di scrittore e di uomo. La notizia della scomparsa della signora Anna è arrivata nel paese di Asiago, e rapidamente diffusa su tutto l’Altopiano, a funerali avvenuti. I figli hanno rispettato fino in fondo la nota riservatezza di Anna. «Abbiamo voluto tenerla a casa fino alla fine - le parole del figlio Gianni - perché per noi figli non era la moglie di Mario Rigoni Stern ma la nostra mamma».
I dieci nipoti, che si sono stretti attorno ai genitori, hanno semplicemente dichiarato: «Abbiamo voluto tanto bene ad entrambi. Ci consideriamo fortunati di aver goduto della compagnia e della saggezza dei nostri nonni, che portiamo nel cuore». Era infatti una donna riservata, che si è sempre tenuta fuori dalle luci della ribalta che hanno illuminato Mario dopo il successo dei suoi libri. Si ricorda Anna sempre in disparte, ma subito pronta a intervenire per proteggere il marito e per suggerirgli di riposare quando si donava generosamente alle tante persone, dai giornalisti ai semplici fan, che lo cercavano presentandosi persino sugli scalini di casa. È stata il baluardo insormontabile a tutela della creatività e dell’ispirazione dello scrittore, come lui stesso ha sempre ammesso.
Ma la discrezione e la gelosia con cui custodiva i suoi spazi e i momenti casalinghi non hanno impedito ad Anna di conoscere e frequentare gli intellettuali del Novecento. Da Italo Calvino, Emilio Lussu e Leonardo Sciasia a Nuto Revelli e Primo Levi, le serate trascorse a discutere e a riflettere sul mondo sono state molte; in particolare con Revelli e Levi, con i quali Anna e Mario alimentarono una profonda e intima amicizia.
Tra i racconti del marito, che ovviamente conosceva molto bene, Anna aveva una predilezione per quelli inerenti la caccia, in considerazione che anche lei da giovane aveva praticato l’arte venatoria. Proprio per questa sua passione è stata proprio Anna a caldeggiare l’istituzione del Premio letterario Mario Rigoni Stern, promosso dall’associazione Ars Venandi; è stata una delle poche volte in cui si ricorda un così determinato intervento a favore di una commemorazione dedicata al marito, impegno che solitamente lasciava ai figli. «Lo sostengo perché credo che sia il miglior modo di portare avanti le idee sulla montagna che Mario esprimeva nei suoi racconti» dichiarò la signora durante la presentazione ufficiale del premio.
Anna e Mario Rigoni Stern si sono conosciuti a scuola e sono convolati a nozze dopo la guerra, nel maggio del 1946. Con gli anni la famiglia è cresciuta per la nascita, nell’ordine, di Alberico, Giovanni Battista e Ignazio. E insieme alla famiglia è cresciuta pure la popolarità di Mario. Tra interviste, convegni, onorificenze e premi, Rigoni Stern è stato però spesso in viaggio, con la moglie Anna sempre accanto.
Alla scomparsa del marito, nel 2008, Anna si è ritirata in casa, offrendo ancor meno apparizioni negli eventi commemorativi. Negli ultimi tempi la sua salute si era indebolita, tanto che per un periodo è stata ospite della casa di riposo “Villa Rosa” di Asiago. Il richiamo della loro casa di Val Giardini però era troppo forte: lì sono conservati i ricordi e le gioie condivise con Mario, la scrivania con i quaderni e le penne con i quali Mario traduceva momenti di vita in poesia.
A casa ha voluto dire addio a questo mondo, nel mese in cui nacque suo marito, proprio come lui ha salutato questa vita in un giorno di primavera. Il 21 marzo sarebbe stato il compleanno di Anna.
lunedì 22 novembre 2021
Rapporto sui prigionieri, parte 5
Pubblico alcuni estratti del "Rapporto sui prigionieri di guerra italiani in Russia" a cura di Carlo Vicentini e Paolo Resta, fonte UNIRR, 2a edizione, anno 2005, a mio avviso la fonte più autorevole per fare chiarezza sulle perdite e sulle vicissitudini dei nostri soldati in Russia durante il secondo conflitto mondiale.
LA CATTURA.
L'animo esasperato e la tensione della battaglia. non lasciavano molto spazio a sentimenti umanitari quando la cattura avveniva al termine di un combattimento, specialmente se i russi avevano subito parecchie perdite. Ai soldati russi era stato inculcato un odio profondo contro questi invasori, dipinti come razziatori, incendiari, che deportavano le donne. Certo, questo profilo non si addiceva al soldato italiano, ma i russi non facevano troppa differenza tra noi ed i tedeschi: parecchie volte i soldati italiani, soprattutto gli ufficiali, furono passati per le armi appena catturati. Ai tedeschi questo succedeva quasi sistematicamente.
Quando la cattura avveniva da parte di truppe asiatiche, gli episodi di brutalità ed efferatezza erano certi. I comandanti ed i singoli gregari avevano ampia discrezionalità e, secondo gli umori personali, erano capaci dell'assassinio dei feriti o del mitragliamento dei prigionieri appena consegnatisi. A queste atrocità non si sono sottratti nemmeno i partigiani. Comportamento di malvagità più raffinata era la spogliazione dei prigionieri. Erano ambitissimi i pastrani con la pelliccia, i giubbetti, i maglioni casalinghi, i berretti di pelo, le coperte, gli stivaloni di feltro russi di cui erano stati dotati alcuni reparti della "Julia". Queste razzie inutili, perché il soldato russo non aveva certo bisogno del nostro equipaggiamento, lasciavano i malcapitati scalzi, senza guanti, condannandoli al congelamento ed a morte sicura.
A parte questi casi, frequenti ma non generalizzali, la massa dei prigionieri era sottoposta alla sistematica requisizione di tutto quanto avevano in tasca: orologi, penne stilografiche, accendisigari, temperini, portafogli e la sistematica distruzione di immagini sacre e fotografie. Queste perquisizioni si ripetevano ad ogni cambio della scorta e mano mano il prigioniero rimaneva sempre più spoglio perché i russi, non trovando più nulla di ambito, delusi d'essere arrivati per ultimi, si attaccavano alle gavette, ai cucchiai di alluminio, ai pettinini, alle cinghie dei pantaloni. I prigionieri venivano immediatamente avviati all'indietro, naturalmente a piedi, e poi raggruppati in colonne sempre più numerose fino al migliaio di uomini, sorvegliati da pochi guardiani poco più che adolescenti, ma oltremodo risoluti e spietati. I prigionieri non venivano interrogati, nessuno segnava le loro generalità.
Nella confusione dei primi giorni, qualche prigioniero, specialmente se ferito, riuscì a sottrarsi agli incolonnamenti ed a trovare rifugio presso un'isba, una famiglia impietosita che di solito lo invitava ad allontanarsi dopo averlo rifocillato e sommariamente curato. Aiutare e proteggere un soldato nemico era reato punito con la deportazione e non c'era cittadino russo che osasse sottrarsi agli ordini dell'NKVD la quale aveva mille occhi ed ancor più delatori. Questi prigionieri furono rastrellati tutti ancora nei primi mesi del 1943.
Moltissimi prigionieri feriti o congelati che, impossibilitati a camminare, erano stati lasciati dai russi in accantonamenti provvisori a Valuiki, a Rossosc oppure erano stati trovati nei nostri ospedali da campo, non potuti sgomberare per mancanza di mezzi di trasporto, furono spediti successivamente in appositi lager-ospedali situati negli Urali ed in altre località a migliaia di chilometri dal Don, dove arrivarono dimezzati o in condizioni tali che sopravvissero poche settimane. Ci sono stati dei prigionieri italiani che dopo catturati furono adibiti per alcuni mesi alla riparazione e ripristino delle centinaia di nostri automezzi abbandonati nella ritirata, ma in seguito furono mandati nei campi. La fortuna di questi soldati fu quella di evitare le marce ed i trasporti nei carri bestiame. Più fortunati ancora, quei piccoli gruppi che, catturati e rinchiusi in attesa di poterli sgomberare, furono, dopo uno o due giorni, liberati dai nostri reparti che, nell'aprirsi la strada delle ritirata, avevano infranto lo sbarramento russo in quella località.
LA CATTURA.
L'animo esasperato e la tensione della battaglia. non lasciavano molto spazio a sentimenti umanitari quando la cattura avveniva al termine di un combattimento, specialmente se i russi avevano subito parecchie perdite. Ai soldati russi era stato inculcato un odio profondo contro questi invasori, dipinti come razziatori, incendiari, che deportavano le donne. Certo, questo profilo non si addiceva al soldato italiano, ma i russi non facevano troppa differenza tra noi ed i tedeschi: parecchie volte i soldati italiani, soprattutto gli ufficiali, furono passati per le armi appena catturati. Ai tedeschi questo succedeva quasi sistematicamente.
Quando la cattura avveniva da parte di truppe asiatiche, gli episodi di brutalità ed efferatezza erano certi. I comandanti ed i singoli gregari avevano ampia discrezionalità e, secondo gli umori personali, erano capaci dell'assassinio dei feriti o del mitragliamento dei prigionieri appena consegnatisi. A queste atrocità non si sono sottratti nemmeno i partigiani. Comportamento di malvagità più raffinata era la spogliazione dei prigionieri. Erano ambitissimi i pastrani con la pelliccia, i giubbetti, i maglioni casalinghi, i berretti di pelo, le coperte, gli stivaloni di feltro russi di cui erano stati dotati alcuni reparti della "Julia". Queste razzie inutili, perché il soldato russo non aveva certo bisogno del nostro equipaggiamento, lasciavano i malcapitati scalzi, senza guanti, condannandoli al congelamento ed a morte sicura.
A parte questi casi, frequenti ma non generalizzali, la massa dei prigionieri era sottoposta alla sistematica requisizione di tutto quanto avevano in tasca: orologi, penne stilografiche, accendisigari, temperini, portafogli e la sistematica distruzione di immagini sacre e fotografie. Queste perquisizioni si ripetevano ad ogni cambio della scorta e mano mano il prigioniero rimaneva sempre più spoglio perché i russi, non trovando più nulla di ambito, delusi d'essere arrivati per ultimi, si attaccavano alle gavette, ai cucchiai di alluminio, ai pettinini, alle cinghie dei pantaloni. I prigionieri venivano immediatamente avviati all'indietro, naturalmente a piedi, e poi raggruppati in colonne sempre più numerose fino al migliaio di uomini, sorvegliati da pochi guardiani poco più che adolescenti, ma oltremodo risoluti e spietati. I prigionieri non venivano interrogati, nessuno segnava le loro generalità.
Nella confusione dei primi giorni, qualche prigioniero, specialmente se ferito, riuscì a sottrarsi agli incolonnamenti ed a trovare rifugio presso un'isba, una famiglia impietosita che di solito lo invitava ad allontanarsi dopo averlo rifocillato e sommariamente curato. Aiutare e proteggere un soldato nemico era reato punito con la deportazione e non c'era cittadino russo che osasse sottrarsi agli ordini dell'NKVD la quale aveva mille occhi ed ancor più delatori. Questi prigionieri furono rastrellati tutti ancora nei primi mesi del 1943.
Moltissimi prigionieri feriti o congelati che, impossibilitati a camminare, erano stati lasciati dai russi in accantonamenti provvisori a Valuiki, a Rossosc oppure erano stati trovati nei nostri ospedali da campo, non potuti sgomberare per mancanza di mezzi di trasporto, furono spediti successivamente in appositi lager-ospedali situati negli Urali ed in altre località a migliaia di chilometri dal Don, dove arrivarono dimezzati o in condizioni tali che sopravvissero poche settimane. Ci sono stati dei prigionieri italiani che dopo catturati furono adibiti per alcuni mesi alla riparazione e ripristino delle centinaia di nostri automezzi abbandonati nella ritirata, ma in seguito furono mandati nei campi. La fortuna di questi soldati fu quella di evitare le marce ed i trasporti nei carri bestiame. Più fortunati ancora, quei piccoli gruppi che, catturati e rinchiusi in attesa di poterli sgomberare, furono, dopo uno o due giorni, liberati dai nostri reparti che, nell'aprirsi la strada delle ritirata, avevano infranto lo sbarramento russo in quella località.
Il viaggio del 2011, Garbusowo
Immagini del mio primo viaggio "esplorativo" effettuato nel 2011... Garbusowo e la steppa circostante.
Le fotografie di Mario Bagnasco, 03
Le fotografie di Mario Bagnasco, Primo Capo Squadra o Capo Squadra della Legione CC.NN. "Valle Scrivia".
"Malgrado il maltempo si continua a consolidare la prima linea".
"Malgrado il maltempo si continua a consolidare la prima linea".
mercoledì 17 novembre 2021
Le fotografie di Mario Bagnasco, 02
Le fotografie di Mario Bagnasco, Primo Capo Squadra o Capo Squadra della Legione CC.NN. "Valle Scrivia".
"Lanciafiamme in azione".
"Lanciafiamme in azione".
Una storia dal passato
Ricevo e pubblico questa richiesta da UNIRR... ancora una volta una storia riemerge dal passato e cerchiamo di dare un nome a questo volto.
"Ciao Pasha. Questa è la storia della mia famiglia. Al tempo delle colonne di prigionieri non tutto li portavano nei lager, lasciavano quelli malati nei paesini, erano così malandati, che di certo pensavano che non sarebbero sopravvissuti a lungo. Così si sono conosciuti Maria, la madrina di mia mamma e un soldato. Lui aveva una grave polmonite, così come tanti nostri soldati vicino a Stalingrado. Fecero di tutto perché lui si salvasse, sai come la nostra gente è capace a perdonare. Così che si innamorarono. La nonna Maria raccontava poco di lui. Lui morì e venne seppellito nel cimitero del paese, lei andava spesso al cimitero a trovarlo e pulire la tomba, noi non ci ricordiamo dove venne sepolto. Si sa solo che lui morì nella speranza di salvarsi e di portare Maria in Italia. Lui gli regalò la sua foto. E questa foto venne custodita al mio paese dai miei genitori. Sarà difficile capire chi fosse dopo tanti anni. Si e ti dico che la gente ha dimenticato gli errori dei fascisti e poi guarda che succede in Ucraina . Va beh, Pasha, ti saluto e saluta tua moglie e i tuoi figli se ancora si ricordano di noi".
Queste le parole che arrivano dalla Russia di oggi. Renato, il ragazzo della fotografia, è di Cosenza. Scrive una cartolina al fratello in Russia, una cartolina con la sua fotografia; un modo come un altro per stare vicino al fratello al fronte, di cui non conosciamo nessuna generalità. Il fratello di Renato è il protagonista del racconto che arriva dalla Russia; il fratello di Renato probabilmente viene catturato e vive i tristissimi giorni delle "marce del davai"; forse ferito, viene abbandonato in un villaggio e dopo anni, tanti anni, riemerge questa fotografia.
Ecco, oggi a distanza di così tanti anni, sarebbe bello poter dare un nome a questi ragazzi divisi dalla guerra. Magari fra i lettori della pagina ce n'è qualcuno di Cosenza o dintorni che può contribuire al riconoscimento.
"Ciao Pasha. Questa è la storia della mia famiglia. Al tempo delle colonne di prigionieri non tutto li portavano nei lager, lasciavano quelli malati nei paesini, erano così malandati, che di certo pensavano che non sarebbero sopravvissuti a lungo. Così si sono conosciuti Maria, la madrina di mia mamma e un soldato. Lui aveva una grave polmonite, così come tanti nostri soldati vicino a Stalingrado. Fecero di tutto perché lui si salvasse, sai come la nostra gente è capace a perdonare. Così che si innamorarono. La nonna Maria raccontava poco di lui. Lui morì e venne seppellito nel cimitero del paese, lei andava spesso al cimitero a trovarlo e pulire la tomba, noi non ci ricordiamo dove venne sepolto. Si sa solo che lui morì nella speranza di salvarsi e di portare Maria in Italia. Lui gli regalò la sua foto. E questa foto venne custodita al mio paese dai miei genitori. Sarà difficile capire chi fosse dopo tanti anni. Si e ti dico che la gente ha dimenticato gli errori dei fascisti e poi guarda che succede in Ucraina . Va beh, Pasha, ti saluto e saluta tua moglie e i tuoi figli se ancora si ricordano di noi".
Queste le parole che arrivano dalla Russia di oggi. Renato, il ragazzo della fotografia, è di Cosenza. Scrive una cartolina al fratello in Russia, una cartolina con la sua fotografia; un modo come un altro per stare vicino al fratello al fronte, di cui non conosciamo nessuna generalità. Il fratello di Renato è il protagonista del racconto che arriva dalla Russia; il fratello di Renato probabilmente viene catturato e vive i tristissimi giorni delle "marce del davai"; forse ferito, viene abbandonato in un villaggio e dopo anni, tanti anni, riemerge questa fotografia.
Ecco, oggi a distanza di così tanti anni, sarebbe bello poter dare un nome a questi ragazzi divisi dalla guerra. Magari fra i lettori della pagina ce n'è qualcuno di Cosenza o dintorni che può contribuire al riconoscimento.
Onori a Giovanni Alutto
105 anni! La nostra storia fatta a persona!
Oggi Giovanni Alutto classe 1916 ha tagliato in buona salute il traguardo dei 105 anni. La sezione Unirr di Torino lo ha festeggiato assieme alla famiglia ed agli amici più cari.
Oggi Giovanni Alutto classe 1916 ha tagliato in buona salute il traguardo dei 105 anni. La sezione Unirr di Torino lo ha festeggiato assieme alla famiglia ed agli amici più cari.
martedì 16 novembre 2021
Le fotografie di Mario Bagnasco, 01
A volte anche Internet regala delle bellissime sorprese che permettono di far tornare in vita vecchi ricordi che viceversa rimarrebbero nascosti in un cassetto. E' il caso del Signor Giorgio Quaini che qualche settimana fa mi ha contattato ed inviato le fotografie originali del nonno, reduce della Campagna di Russia.
Sono fotografie inedite, emozionanti... ho sempre pensato che il compito di un divulgatore fosse appunto quello di far conoscere e far vedere a tutti "dettagli" della nostra storia, belli o brutti che siano, e il permesso a pubblicare le fotografie del Signor Giorgio è davvero un bel regalo per tutti noi.
Il nonno si chiamava Mario Bagnasco e lo vediamo in questa prima fotografia; le immagini sono talmente belle che le pubblicherò una alla volta con la didascalia originale scritta in matita sul retro, così da poterle apprezzare singolarmente.
Mario Bagnasco era una camicia nera e più precisamente, vedendo i gradi, un Primo Capo Squadra o un Capo Squadra (gradi corrispondenti a Sergente Maggiore o Sergente del Regio Esercito); visti alcuni dettagli delle fotografie, le date delle stesse e la provenienza geografica del nonno, è molto probabile che Mario fosse inquadrato nella Legione CC.NN. "Valle Scrivia" successivamente Gruppo Battaglioni Camicie Nere "Valle Scrivia" così articolato:
Comandante: Console Mario Bertoni
- Comando
- V (5°) Btg.Camicie Nere d'Assalto "Tortona" al comando del Primo Seniore Giuseppe Masper (caduto)
- XXXIV (34°) Btg.Camicie Nere da Montagna "Savona" al comando del Seniore Roberto Gloria (ferito)
- XLI (41°) Btg.Camicie Nere Armi d'Accompagnamento "Trento" (non si conoscono le generalità del comandante)
Mario Bagnasco è sopravvissuto alla guerra e ha sviluppato poi queste fotografie che sono state successivamente ritrovare dal nipote.
Sono fotografie inedite, emozionanti... ho sempre pensato che il compito di un divulgatore fosse appunto quello di far conoscere e far vedere a tutti "dettagli" della nostra storia, belli o brutti che siano, e il permesso a pubblicare le fotografie del Signor Giorgio è davvero un bel regalo per tutti noi.
Il nonno si chiamava Mario Bagnasco e lo vediamo in questa prima fotografia; le immagini sono talmente belle che le pubblicherò una alla volta con la didascalia originale scritta in matita sul retro, così da poterle apprezzare singolarmente.
Mario Bagnasco era una camicia nera e più precisamente, vedendo i gradi, un Primo Capo Squadra o un Capo Squadra (gradi corrispondenti a Sergente Maggiore o Sergente del Regio Esercito); visti alcuni dettagli delle fotografie, le date delle stesse e la provenienza geografica del nonno, è molto probabile che Mario fosse inquadrato nella Legione CC.NN. "Valle Scrivia" successivamente Gruppo Battaglioni Camicie Nere "Valle Scrivia" così articolato:
Comandante: Console Mario Bertoni
- Comando
- V (5°) Btg.Camicie Nere d'Assalto "Tortona" al comando del Primo Seniore Giuseppe Masper (caduto)
- XXXIV (34°) Btg.Camicie Nere da Montagna "Savona" al comando del Seniore Roberto Gloria (ferito)
- XLI (41°) Btg.Camicie Nere Armi d'Accompagnamento "Trento" (non si conoscono le generalità del comandante)
Mario Bagnasco è sopravvissuto alla guerra e ha sviluppato poi queste fotografie che sono state successivamente ritrovare dal nipote.
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