sabato 18 settembre 2021

Aggiornamenti 2021

Quasi certamente anche quest'anno il previsto trekking invernale lungo il percorso della ritirata della Divisione Tridentina dal Don a Nikolajewka non verrà effettuato; l'attuale situazione internazionale legata alla diffusione del virus Covid impedisce al momento di potersi recare nella Federazione Russa per motivi di turismo.

Attualmente la Farnesina ha inserito la Federazione Russa nei paesi dell'elenco "E" per i quali vige la seguente normativa:

SPOSTAMENTI VERSO PAESI DELL’ELENCO E – FINO AL 25 OTTOBRE 2021

In base all’Ordinanza 29 luglio 2021, prorogata fino al 25 ottobre con Ordinanza 28 agosto 2021, gli spostamenti dall’Italia verso tutti i Paesi dell’elenco E sono consentiti solo in presenza di precise motivazioni: lavoro; motivi di salute; motivi di studio; assoluta urgenza; rientro presso il domicilio, l’abitazione o la residenza propri o di persona, anche non convivente, con cui vi sia una relazione affettiva stabile e comprovata. Non sono quindi consentiti spostamenti per turismo verso Paesi dell’elenco E.

Dubito che con l'approssimarsi dell'inverno la situazione possa migliorare, anzi... se mai dovesse cambiare in tempo utile ne darò notizia. Al momento in ogni caso i posti a disposizione sarebbero pochissimi, in quanto diverse persone si sono già prenotate.

Se questo trekking invernale non si farà, sarò costretto a rimandare tutto ancora di un anno, esattamente a gennaio 2023, 80° anniversario della ritirata di Russia, quella più famosa ma non l'unica considerando che esattamente un mese prima, furono le divisioni di fanteria a sganciarsi dal Don direzione ovest o sud-ovest in cerca della salvezza.

Anche se a tale data, oggi, manca oltre un anno, e considerando il particolare anniversario, consiglio di opzionare senza impegno un posto, in modo da avere la possibilità di partecipare. Per poterlo fare è sufficiente scrivermi e fare presente il desiderio di essere inclusi nella lista in definizione. I miei riferimenti sono tutti presenti su questa pagina.

Ricordo che questa iniziativa, come altre in fase di definizione, è possibile grazie all'Associazione Culturale "Sulle orme della Storia".

venerdì 17 settembre 2021

Woroschilowa, parte 1

Tutto il materiale proposto fa riferimento all'articolo 70 comma 1 della legge numero 633 del 22 Aprile 1941 che cita "Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l'utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali".

Woroschilowa: un buco senza speranza, di Giulio Ricchezza - prima parte.

"Son passati tanti anni da allora, ed entrar adesso nei particolari è abbastanza difficile: comunque la sostanza dei fatti è grosso modo questa: dopo la famosa battaglia di Natale, la Celere, e in particolare il 3° Reggimento bersaglieri, era davvero ridotta a quattro gatti...". È il racconto di un reduce, una lunga narrazione che abbiamo registrato su nastro e poi trascritta sintetizzandola; è la cronaca minuta di un'amara sconfitta, di una battaglia che ha nome Woroschilowa, combattuta e persa il 25 gennaio 1942...

"Davanti a noi" si ode dal magnetofono - il nastro continua a girare, la voce del reduce racconta piana, pacata, come se quei ricordi si fossero, nel frattempo, decantati "... davanti a noi c’era quota 331, quota Trucchi, così chiamata dal nome di un valoroso che vi si era imolato; essa si elevava, a circa tre o quattro chilometri di distanza, in linea d'aria intendo; ma era una quota per modo di dire; era insomma un semplice rilievo del terreno che faceva contrasto con il piatto del paesaggio circostante: una cosa ridicola, in altre parole: eppure serviva ai reparti tedeschi per dominare la zona antistante, per poter controllare ciò che avveniva nella piana. Starvi sopra era praticamente impossibile, però; infatti, era sottoposta a un fuoco continuo da parte avversaria e non offriva nessun appiglio: non c'era un ricovero, un rudere, che so, una pianta: niente di niente.

Eppure i Tedeschi, cocciuti come sempre, volevano tenerla ad ogni costo; da lì avevano intenzione di dilagare ai lati creando insomma una specie di baluardo che proteggesse il retro del fronte. Ma questo fronte non era un fronte: voglio dire che si combatteva dappertutto e che dovunque, in qualunque settore dello schieramento, o anche nelle sue retrovie, poteva sorgere, all'improvviso, il combattimento: potevano essere dei partigiani, o degli irregolari, potevano essere perfino gli stessi contadini, o le milizie locali inquadrate dai Tedeschi, che mostravano ad un tratto il loro vero volto, che brandivano le armi contro di noi o contro i nostri alleati del momento. Ecco, io quello che ricordo soprattutto della Russia è questo: il senso di panico, l'incertezza quotidiana che prendeva noi che si era in linea...".

Non erano solo loro, i bersaglieri, ad essere in linea, evidentemente; tutti quei luoghi all'intorno avevano visto impegnati a turno l'uno o l'altro dei reparti del CSIR e proprio lì, nella zona, c'erano i legionari della Tagliamento. Adesso, tanto per avere un quadro della situazione, provate a immaginare questa piana brulla di cui parla il reduce; laggiù, alle spalle, il villaggio di Michailowka con le case disposte lungo una sorta di tratturo che si diparte, al centro del paese, in tre tronconi: uno di questi, poco più di un sentierino, corre dritto verso nord salendo fino a quota 331 e scendendo poi, mantenendosi più o meno in linea retta, verso una balka. Al fondo di questa le case di Woroschilowa. Sulla sinistra, a ovest insomma, il villaggio di Nowo Orlowo; sulla destra, invece, un secondo villaggio, un poco più grosso del precedente, che ha nome Orlowo lwanowka; lontano, una quindicina e più di chilometri, Petropawlowka, e la linea ferroviaria serpeggiante, sempre verso nord, in direzione di Nikitino.

Gli avvallamenti del terreno non superano mai i trecento metri sul livello del mare; è quindi una vera e propria pianura appena appena ondulata, con qualche lieve depressione (le cosiddette balke). Ecco, qui, il paesaggio. Adesso, però, prima di affrontare la compiuta narrazione dei fatti, vediamo un po' il panorama degli avvenimenti; ma così, in generale, per sommi capi. Con l'arrivo del nuovo anno si era cercato di pompare linfa nuova nel CSIR; quest'ultimo era fortemente ridotto a causa delle perdite subite nei lunghi mesi del 1941.

Era stato perciò deciso di dare maggiore mobilità ai reparti e agli uomini, costituendo dei gruppi tattici più agili e manovrieri. Rimaneva naturalmente il solito problema di fondo, e cioè la cronica mancanza di armi e di equipaggiamenti sufficienti, aggravato per di più da tre grossi nodi rimasti ancora insoluti. Il primo era quello della sistemazione invernale, ancora da completare. Il secondo era l'impossibilità di ricostituire le dotazioni delle unità maggiormente provate; il terzo, infine, quello dell'avvicendamento dei reparti che erano in linea da troppo tempo.

Si tenta di affrontare i rigori dell'inverno trasformando le isbe superstiti dei villaggi in minuscoli ricoveri, sorta di microscopiche e sparpagliate caserme; i comunicati "ufficiali" definiscono questo provvedimento "appoggio di tutti i nuclei operativi e dei raggruppamenti tattici a villaggi"; frase alquanto tortuosa come si vede; non certo chiara. La sostanza è molto più modesta: non esiste niente in Russia, in quella piatta Ucraina, se non il villaggio, l'agglomerato di case lungo il sentiero o lo stradone in terra battuta coperto ora di neve ghiacciata. Qui è l'unico punto in cui si possa stare; lontani di lì si muore: di freddo, di stenti, di fame perfino; perché il gelo rende il pane duro come sasso, e anche la carne in gelatina, dell'immancabile scatoletta, è come pietrificata.

Per il secondo punto, quello delle dotazioni, Messe, il comandante del CSIR, ha già parlato con i Tedeschi: ha detto loro chiaro e tondo che il coraggio individuale non serve a niente, anzi a meno di niente quando mancano i viveri e le munizioni. Pensare di sostituire gli uomini rimasti per sempre in terra ucraina, falciati dal nemico, è un'impresa ardua se si considera che ci vuole un mese per far giungere dall'Italia altri soldati. Il viaggio dalla madrepatria, per di più, a causa dell’intasamento delle scarse linee ferroviarie e della mancanza di trasporti, si svolge in condizioni così precarie che il 90% degli uomini arriva al fronte russo stanco e segnato dalle fatiche.

Neppure sette giorni dopo, congedatosi bruscamente dai Tedeschi, Messe scrive al Comando Supremo queste parole secche secche: "... mancata sostituzione 3a Celere, veramente logora, stremata energie, condizioni igieniche et menomazione efficienza materiale, rende precaria capacità resistenza ulteriori attacchi in forze". La Celere rimane uno dei principali cardini del CSIR, la cui costituzione, all'inizio del 1942, è la seguente: il comando si trova sempre a Jassinowataja; la divisione Pasubio è schierata in un settore alquanto ampio, che arriva sino al fiume Bulawin (è sufficiente dare un'occhiata anche di sfuggita a una qualunque carta della zona per sincerarsene); la divisione Torino (quella rimasta celebre per aver percorso millecinquecento chilometri a piedi da Falticeni al Don, quella che in altre parole passerà alla storia per aver attraversato tutta l'Ucraina sul cavallo di San Francesco - Falticeni è in Romania) la divisione Torino, dicevamo, se ne sta dalle parti di Rikowo; la nostra divisione Celere - i cui uomini sono i protagonisti dell'episodio che dobbiamo narrarvi - si trova come punto base in quel di Rassipnaja. Rimane la Tagliamento: i legionari si trovano a Woroschilowa.

Potremmo anche far punto qui e passare alla cronaca dei fatti, ma vogliamo aggiungere due piccole precisazioni; le parole di Messe che abbiamo testé citato acquistano un significato di monito e, vorremmo dire, anche di presagio se si pensa alla dispersione delle forze italiane su un fronte troppo ampio. La seconda è questa: lo stato maggiore tedesco ha insegnato al mondo in guerra che tutto quello che è stato fino a quel momento detto nelle scuole di applicazione d'arma va, più o meno, gettato nella spazzatura; la seconda guerra mondiale non si combatte con l'ausilio delle carte illustranti le battaglie della prima. Le puntate offensive - dice la nuova scuola di guerra tedesca - vanno effettuale coi corazzati appoggiati dall'aviazione.

Dietro i carri deve però venire la fanteria con il compito di demolire le ultime resistenze e ripulire le sacche create dalla penetrazione delle colonne corazzate. I Russi hanno subito imparato la lezione; hanno creato i cosiddetti desantji cioè unità composte da carri armati che trasportano, appollaiati dietro le torrette, soldati armati di parabellum. Al momento dell'impatto con il nemico i fanti balzano dai carri e impegnano i difensori in un serrato combattimento individuale, mentre i carri provvedono a demolire le postazioni d'artiglieria e i nidi di mitragliatrice. Proprio i desantji avranno ragione del fronte creato dagli Italiani in Russia, sfondandolo sulla linea del Don; questo avverrà beninteso più tardi, circa un anno dopo il fatto che adesso è giunto, davvero, il momento di raccontare.

Cargnacco 2021

Domenica 19 Settembre 2021 - GIORNATA NAZIONALE DEL CADUTO E DISPERSO IN RUSSIA.

Come ogni terza domenica di settembre anche quest'anno si svolgerà la Tempio-Sacrario di Cargnacco (Udine) la cerimonia in ricordo di tutti i caduti e dispersi della Campagna di Russia.

Leggo che Mattarella è stato formalmente invitato a partecipare; sarebbe il primo presidente a farlo in forma ufficiale; solo Cossiga lo fece anni fa ma in forma privata. Mi chiedo... in tutti questi anni non un presidente ha sentito il bisogno di esserci, di presenziare, non solo per i caduti e i dispersi di quella tragica campagna, ma anche e soprattutto per i parenti di quei sfortunati ragazzi. Per dare un segnale, per dire che almeno un giorno all'anno, anche solo per qualche ora, il più importante rappresentante di questo stato si è ricordato del loro sacrificio.

Mattarella sarà a Rivolto per il 60° anniversario delle nostre Frecce Tricolori; senza dubbio un evento importante, ma... più importante del ricordare migliaia di ragazzi mai tornati? Solo 20 km separano la base di Rivolto al Tempio-Sacrario di Cargnacco...

Di seguito il programma della cerimonia:
h 09:30 Raduno partecipanti
h 10:00 Afflusso autorità e invitati
h 10:30 Schieramento reparti - A seguire: ingresso gonfaloni, Medagliere Nazionale U.N.I.R.R., labaro Famiglie Caduti e Dispersi in Guerra e bandiere
h 10:45 Alzabandiera - A seguire: onori ai Caduti - Deposizione corona di alloro Trasferimento all'interno del Tempio-Sacrario
h 10:55 Allocuzioni Presidente Nazionale U.N.I.R.R. e autorità
h 11:00 S. Messa in memoria dei Caduti e dei Dispersi
h 12:30 Onori ad un Soldato Ignoto di Russia e omaggio floreale al sacello di Mons. Carlo Caneva

mercoledì 15 settembre 2021

Il viaggio del 2011, Scheljakino

Immagini del mio primo viaggio "esplorativo" effettuato nel 2011... Scheljakino.



Rapporto sui prigionieri, parte 4

Pubblico alcuni estratti del "Rapporto sui prigionieri di guerra italiani in Russia" a cura di Carlo Vicentini e Paolo Resta, fonte UNIRR, 2a edizione, anno 2005, a mio avviso la fonte più autorevole per fare chiarezza sulle perdite e sulle vicissitudini dei nostri soldati in Russia durante il secondo conflitto mondiale.

I PRIGIONIERI.

Ufficialmente, fino al 1990, l'URSS non aveva mai comunicato il numero dei prigionieri italiani catturati, ne tanto meno i loro nomi. Esistevano, tuttavia, dati di fonte russa divulgati dalla radio e dalla stampa sovietiche. Palmiro Togliatti, che in quell'epoca curava una trasmissione in lingua italiana da Radio Mosca con lo pseudonimo di Ercole Ercoli, in tre successivi interventi diede notizie sul numero degli italiani catturati dall'esercito sovietico. II 5 marzo del 1943 annunciò che essi erano 40 mila, che divennero 73 mila in una trasmissione successiva del 14 marzo e poi salire a 115 mila il 19 dello stesso mese.

Altra fonte russa è il giornale "L'ALBA", stampato a Mosca per i nostri prigionieri. La redazione era curata da un gruppo di emigrati comunisti italiani coordinati da Robotti e D'Onofrio. Il primo numero del giornale, in data 10 febbraio 1943, informava: "... dal 16 al 30 dicembre 1942, le Divisioni "Cosseria", "Pasubio", "Torino", "Sforzesca" e "Celere" furono disfatte. Più di 50 mila ufficiali e soldati italiani vennero fatti prigionieri. Nel gennaio le Divisioni "Julia", "Tridentina" e "Cuneense", la 156a Divisione di Fanteria [la Divisione "Vicenza" - n.d.r.] sono stare a loro volta disfatte sul fronte di Voronez ed altri 33 mila soldati ed ufficiali sono stati fatti prigionieri.....". Nel secondo numero dello stesso giornale, in data 20 febbraio, si leggeva: "... circa 50 mila soldati italiani sono morti Russia e quasi 80 mila sono prigionieri dell'Unione Sovietica...".

Un capitano russo, nel luglio del 1945, dichiarò al generale Geloso, "liberato" dall'Armata Rossa da un lager tedesco, che il numero dei prigionieri italiani catturati durante la campagna ammontava a circa 60/80 mila, ma che al momento erano ridotti a 20 mila. In questo balletto di cifre era problematico sapere quale fosse veramente il numero dei nostri prigionieri. Probabilmente, un primo approssimativo conteggio venne fatto quando le colonne - di solito formate da mille prigionieri - attraversarono il Don, ma numerosi prigionieri vennero rastrellati e recuperati anche molto tempo dopo.

I russi, in un primo tempo, non si preoccuparono di redigere liste nominative: soldati ed ufficiali, italiani e tedeschi e ungheresi, tutti mescolati erano solo dei numeri, delle entità che venivano contate e basta. Solo in seguito, quando i prigionieri vennero introdotti nei campi, furono rilevati i dati personali di ogni singolo individuo; tuttavia ciò non si verificò in tutti i campi oppure non regolarmente tutti i trasporti che vi affluivano. Di conseguenza, moltissimi prigionieri che erano morti durante i trasferimenti a piedi e poi in ferrovia, non poterono essere censiti ed è impossibile conoscere il loro numero e, tanto meno, la loro identità se non per qualche caso, grazie alla testimonianza dei sopravvissuti.

Un primo debole squarcio nel buio fitto che circondava la sorte dei nostri soldati, si ebbe quando Radio Mosca, alla fine della trasmissione giornaliera curata da Togliatti, cominciò a dare un breve elenco di nomi di prigionieri che, secondo l'annunciatore, stavano bene e salutavano le famiglie. Queste trasmissioni erano captate dalla Radio Vaticana che si premurava di darne notizia alle famiglie. La quantità dei nominativi segnalati (circa un migliaio nel corso di un anno) era insignificante rispetto alla massa degli assenti e diede più preoccupazioni che speranze. Arrivarono un centinaio di cartoline, spedite nel marzo del 1943 dal campo 188 di Tambov, ma quasi tutti quelli che le avevano scritte erano morti nel frattempo ed i russi non ripeterono l'esperimento. Questi, fino al 1945, furono gli unici canali, oltre tutto non ufficiali, attraverso i quali, in Italia, si ebbero notizie sui nostri prigionieri.

Nell'autunno del 1945, l'URSS restituì i soldati italiani prigionieri sul suo territorio e nel luglio del 1946 fece rimpatriare gli ufficiali. In totale, rimandava a casa 21.122 militari e dichiarava che in Russia non rimaneva nessun altro prigioniero, salvo 28 casi per i quali erano in corso provvedimenti giudiziari. Tale perentoria dichiarazione produsse nell'opinione pubblica un comprensibile choc, ma lo sbalordimento fu completo quando fu appurato che la metà dei rimpatriati non era stata catturata dai russi sul Don, cioè non apparteneva all'ARMIR.

Si trattava, infatti, di militari italiani sorpresi dai tedeschi l'otto settembre in Italia, in Jugoslavia, in Grecia o nelle Isole dell'Egeo ed internati nei lager nazisti: l'esercito sovietico li aveva "liberati" tra la fine del 1944 ed i primi mesi del 1945. Anziché mandarli in Italia (che era diventata cobelligerante degli alleati e quindi anche dei russi) furono rinchiusi nei lager sovietici e rimpatriati assieme ai soldati dell'ARMIR dopo dodici mesi dalla loro "liberazione". Che ritornassero appena diecimila uomini dell'ARMIR rispetto agli 85 mila che ufficialmente mancavano (oggi si è riscontrato che erano 95.000), destò l'assoluta incredulità dell'affermazione russa che in Russia non vi fosse più nessun italiano. Per chi non sapeva come erano andate le cose, era qualcosa di inconcepibile: veniva restituito poco più del 10% degli italiani che gli stessi russi avevano dichiarato di aver catturato.

La cosa sembrava tanto più inverosimile se si faceva il confronto con i prigionieri restituiti dalle altre nazioni. Inglesi, americani e francesi avevano catturato 614 mila uomini ne restituirono 607 mila (99%). Dei settemila mancanti, tremila erano rimasti in loco di loro volontà e quattromila erano morti, ma le famiglie erano state immediatamente informate. In Germania dopo l'otto settembre, erano stati internati 642 mila militari italiani, ne sono rimpatriati 606 mila cioè il 94%. Dalla Jugoslavia, Romania, Bulgaria, Grecia, Svizzera veniva restituito il 91% degli uomini nelle loro mani. Nelle famiglie degli assenti vi era la convinzione che moltissimi soldati si fossero creata una famiglia russa ed avessero rinunciato al rientro in patria. Tale ipotesi era abilmente sostenuta dagli ambienti filorussi, ma simile evenienza - che i reduci considerano estremamente remota per i motivi che saranno chiariti più avanti - non poteva certo spiegare il mancato ritorno di decine di migliaia di prigionieri. Un'ipotesi opposta era formulata dagli ambienti anticomunisti: migliaia di italiani, come del resto è avvenuto per i prigionieri tedeschi e giapponesi, erano trattenuti quali schiavi nei campi di lavoro dell' "Arcipelago Gulag". I prigionieri reduci respingono anche questa possibilità.

Più o meno in buona fede, i comunisti ed i simpatizzanti della Russia di Stalin, che allora erano quasi la metà degli italiani, non potevano ammettere che le cose raccapriccianti raccontate dai reduci, fossero accadute nel paese da loro ritenuto il modello della società futura. Le polemiche sulla stampa delle due opposte tendenze, in particolar modo quella locale, divenne infuocata e la questione dei prigionieri fu strumentalizzata a scopo elettorale. Il passare degli anni non ha mutato molto queste posizioni, le ha solo attenuate. Una larga fascia di nostri giornalisti, sedicenti storici, intellettuali e commentatori televisivi ha continuato fino a ieri a metter l'accento sul disastro della ritirata, unica responsabile della morte di tutti i nostri soldati, ignorando volutamente ciò che era avvenuto in prigionia.

A questa distorsione dell'informazione ha contribuito la mancanza, nella pur vasta memorialistica sulla prigionia di Russia, di un libro valido stilisticamente e di effetto, che avesse successo editoriale, cosa che invece avevano trovato le vicende della ritirala degli alpini. Ne è derivato che la maggior parte degli italiani hanno, della tragedia di Russia, il concetto di una ecatombe dovuta al freddo ed alle battaglie, piuttosto del fatto più realistico - anche se meno glorioso e meno retorico - di decine di migliaia di soldati costretti ad arrendersi per poi morire nel modo più incivile in mano a chi li aveva catturati.

Ora gli stessi russi ci hanno consegnato i nomi di 50 mila prigionieri italiani dell'ARMIR e ci dicono anche che 40 mila sono morti nei loro campi, il che vuol dire che su cento, solo venti sono sopravvissuti. E sono cifre parziali, perché - come si è detto sopra - migliaia di prigionieri dell'ARMIR sono morti prima di arrivare ai campi e prima di essere censiti. Migliaia, che vanno ad accrescere il numero dei catturati e quello dei morti in prigionia. Sono quelli che furono sbrigativamente passati per le armi al momento della cattura, quelli che sono crollati per sfinimento o sono stati uccisi durante le marce di trasferimento verso le retrovie. Innumerevoli poi sono morti negli inumani trasporti ferroviari protrattisi per settimane. Infine migliaia di prigionieri morirono d'inedia, di dissenteria, di setticemia per i congelamenti o le ferite non curate, nei primi centri di smistamento, nei quali non si effettuava, inizialmente, alcuna identificazione. Da quanto si è detto, risulta chiaro che il numero dei prigionieri fu altissimo ed altrettanto imponente il numero dei morti in prigionia.

Oggi, in base ai più recenti elementi a nostra disposizione, si può formulare il seguente consuntivo. Dei 95 mila uomini assenti alla fine della ritirata: 25 mila sono morti nel corso della medesima, 70 mila sono stati catturati. Di questi ultimi: 60 mila sono morti in prigionia, cosi ripartiti: 38 mila censiti dai russi nei lager, 22 mila durante le marce, i trasporti ferroviari e non censiti nei primi mesi; 10 mila sono sopravvissuti e sono stati rimpatriati. Preme ora l'interrogativo del perché e del come sia avvenuta tale immane ecatombe.

giovedì 2 settembre 2021

Il processo D'Onofrio, parte 16

Il processo D'Onofrio, sedicesima parte. Premetto un aspetto molto importante che ha sempre contraddistinto questa pagina: a volte si toccano argomenti scottanti ed ancora oggi delicati; quello che qui tratterò è forse uno dei più significativi da questo punto di vista. Ma detto questo sottolineo che quanto andrò a riportare NON ha alcun fine politico o di parte, ma esclusivamente storico. Sono fatti relativi alla Campagna di Russia ed alle sue conseguenze e come tali vengono riportati. Qualsiasi commento inopportuno da una parte e dall'altra verrà immediatamente cancellato. Chiedo a chi segue la pagina di esporre la propria idea con educazione e rispetto verso chi magari espone pensieri opposti: la storia e non solo la storia ha già condannato chi mandò quei sfortunati ragazzi in Russia e chi contribuì a tenerli più del dovuto.

LA VENTOTTESIMA UDIENZA.

18 luglio 1949. - In una elegante rilegatura è apparsa sul tavolo dell’avv. Sotgiu, per la prima volta, una collezione completa del settimanale 'L’Alba' e il patrono di Parte Civile se ne è abbondantemente servito per dimostrare false le asserzioni del Pubblico Ministero, secondo il quale su quel foglio non trovavano ospitalità che espressioni del pensiero marxista e comunista.

Avv. Sotgiu: 'È vero che il settimanale era compilato da comunisti, ma ciò non toglie che esso fosse lo stesso 'una tribuna aperta a tutte le idee'. Che il giornale non fosse un organo della propaganda comunista sta poi a dimostrarlo il fatto che nella parte politica di esso voi non troverete mai un attacco al fascismo (perché i redattori sapevano bene che la maggior parte di quanti avevano la tessera non erano fascisti nell'animo) ma molti contro il nazismo. In compenso a quel settimanale collaboravano scrittori di tutte le tendenze politiche, vi si scrivevano articoli in cui si discutevano programmi e direttive di tutti i partiti democratici malgrado l'Italia non fosse stata ancora liberata. Al partito comunista veniva riservato lo stesso spazio eguale a quello riservato agli altri partiti.

Quindi non visioni particolaristiche in senso classista o marxista, ma unico scopo quello di preparare, attraverso la riconciliazione degli animi, quella unità morale degli italiani, indispensabile per affrontare la ricostruzione del Paese alla fine della guerra'.

Ricostruzione, si intende, a base di scioperi, agitazioni, prelevamenti e colpi alla nuca.

Avv. Sotgiu: 'Si è parlato di vita orribile nei campi di concentramento, ma basta sfogliare la collezione de 'L'Alba', per accorgersi della falsità di queste asserzioni. Infatti vi si trovano articoli e fotografie da cui è possibile avere conferma di cerimonie e di feste avvenute nei campi di prigionia. Appare per lo meno strano, dunque, quello che in udienza è stato raccontato dagli imputati e dai loro testi. E voi (puntando un dito accusatore verso il banco degli imputati) avete osato paragonare i campi di Tamboff, Krinovaia ed altri a quelli tedeschi di Mathausen e di Buchenwald? Vergognatevene. E ricordatevi che qualunque potrà essere la sentenza voi dovrete sempre rendere conto delle vostre false accuse alla civiltà di tutto il mondo'.

Avv. Sotgiu: 'Legga, il Tribunale, in Camera di Consiglio la rubrica 'La vita dei campi' alla quale collaboravano gli stessi prigionieri. In questa rubrica, il Tribunale troverà descritti gli svaghi, le provvidenze spirituali e morali che nei campi furono attuate in favore dei nostri prigionieri. Tra l'altro, il Tribunale apprenderà da questa interessante lettura, come cinque ufficiali italiani ebbero addirittura una licenza premio che trascorsero a Mosca. Nella rubrica che indico, questi ufficiali hanno lasciato scritto una descrizione delle meraviglie che videro in quella metropoli'.

L’avv. Sotgiu non spiega perché in Russia si danno licenze per ammirare le meraviglie di Mosca e non quelle d'Italia.

P.M.: 'Perché non ci dice pure che quei cinque ufficiali erano cinque attivisti?'.

L'interruzione, passata forse inosservata all’avv. Sotgiu nella foga oratoria, è stata raccolta a volo dall'avv. Paone il quale è scattato per protestare vivacemente e per rispondere al P. M. Al tentativo fatto dal Presidente di riportare la calma, l'avv. Paone ha replicato che ha creduto necessario intervenire perché il suo collega era stato interrotto.

P.M.: 'Egregio avvocato, io in quest’aula sono sempre presente, mentre lei, avendo già parlato, è scomparso'.

Ma non si è ancora spenta la eco di questo primo battibecco che subito ne sorge un secondo. Infatti l'avv. Sotgiu, proseguendo nell’esposizione della propria tesi, stava consigliando al Tribunale la lettura di una lettera del gen. Pasqualino, pubblicata da 'L'Alba', nella quale si elogia il servizio di assistenza sanitaria praticato nell’ospedale, assistenza di cui egli stesso ebbe occasione di fare esperienza, quando l'avv. Mastino Del Rio è intervenuto'.

Avv. Mastino del Rio: 'Perché non dite pure che il generale Pasqualino è tra i ventisette ufficiali che sono stati trattenuti in Russia?'.

Avv. Sotgiu: 'Vuol dire che il gen. Pasqualino non è stato trattenuto per ragioni politiche...'.

Avv. Mastino Del Rio: 'Diteci allora: perché la Russia non ce lo restituisce?'.

Ma quest’ultima domanda è rimasta senza risposta e l'avv. Sotgiu ha continuato illustrando l'attività degli emigrati politici nei campi di concentramento, e in particolare l'opera svolta dal D'Onofrio. Gli emigrati arrivarono nei campi dopo il periodo delle epidemie e loro prima cura fu quella di portare una parola di conforto a quei disgraziati fratelli. Gli imputati parlano di 'interrogatori', di 'vessazioni', di 'violazioni di coscienza'. Ma D'Onofrio come avrebbe potuto parlare ai prigionieri, dopo dieci anni di esilio, se non avesse prima guardato gli uomini in faccia? Se non avesse esaminato le loro idee?

Ecco, secondo la P. C. in che cosa consistevano gli 'interrogatori' e le 'vessazioni'. Ed una prova la troviamo ancora ne 'L’Alba' dove in uno dei primi numeri si legge un articolo di D'Onofrio dal titolo 'Chiacchierando con i prigionieri'. E quali le precise ragioni di queste conversazioni fra l'emigrato D'Onofrio e i prigionieri? Nient’altro che il desiderio di saggiare la loro coscienza, conoscere in qual guisa le vicissitudini avessero agito su di loro, riportarli alla piena realtà del momento. E del resto le conversazioni furono improntate alla più schietta italianità e patriottismo, alla più pura obiettività.

Avv. Sotgiu: 'Gli imputati e i loro testi hanno riferito che grande differenza c'era fra le conversazioni che il D'Onofrio teneva in pubbliche adunanze e quelle che aveva in privato con i singoli prigionieri. Ma se questo fosse vero noi ci troveremmo di fronte ad una tale illogicità, ad una tale incoscienza che davvero ne dovremmo rimanere sorpresi. C'è piuttosto da chiedersi: che bisogno aveva D'Onofrio di coartare le coscienze dei prigionieri? Tutti nei campi potevano liberamente esprimere le loro idee e il giornale murale era una palestra su cui ognuno poteva liberamente esercitare la propria critica. Del resto non è stato affatto dimostrato che coloro i quali volevano persistere nelle proprie convinzioni politiche subissero coercizioni morali o materiali'.

E qui l'avv. Sotgiu ha cominciato a parlare del caso del cap. Magnani e del ten. Ioli per dire che non è vero che essi si limitassero a fare dell’opposizione, ma continuarono tranquillamente a fare propaganda fascista senza che nessuno li disturbasse.

Avv. Sotgiu: 'E poi quale pericolo poteva mai rappresentare per la Russia o per il comunismo l'attività del cap. Magnani?'.

Assurda più che temeraria, è dunque da considerarsi l’accusa mossa contro D'Onofrio di aver costretto ufficiali prigionieri a rinnegare il loro credo politico anche con minacce. Ma di ciò si parlerà ancora perché all'avv. Sotgiu non sono state sufficienti neppure tre udienze per esaurire la sua arringa.

LA VENTINOVESIMA UDIENZA.

19 luglio 1949 - L'avv. Sotgiu non è tornato sul tema del cap. Magnani. Ha parlato invece ancora per tutta l'udienza per analizzare scrupolosamente il testimoniale della difesa e la circolare inviata dall’Unione Nazionale Reduci dalla Russia. Diciotto ore di una oratoria impetuosa - che ha reso quasi completamente afono il patrono di parte civile - per concludere che gli imputati non sono riusciti a provare le accuse mosse contro D'Onofrio.

Avv. Sotgiu: 'Pur non facendoci illusioni, attendiamo con tranquilla coscienza la vostra sentenza, signori del Tribunale, non per D'Onofrio, non per noi comunisti, ma per la vostra dignità stessa di cittadini e di magistrati. Io mi auguro, non per noi, ma per l'Italia, per la libertà e per la vostra grande funzione, che la vostra sentenza non sia di quelle che il domani cancella, ma la storia ricorda. La condanna dei diffamatori sarà 'l’orgoglio della magistratura italiana'.

L'avv. Sotgiu ha ripreso la sua arringa affermando che appare evidente dalla dimostrazione fatta, come la prova addotta dagli imputati è miseramente fallita nonostante tutto il testimoniale a discarico fosse stato in precedenza 'organizzato'.

Avv. Sotgiu: 'La posta di questo processo è ben altra che non una semplice campagna diffamatoria. Si tratta di un gioco molto più vasto. Non una delle accuse è stata provata.

Si è parlato di propaganda disfattista di D'Onofrio ed è risultato il contrario; si è parlato di persecuzioni contro coloro che manifestavano idee anticomuniste ed invece è stato dimostrato che nei campi di concentramento si poteva liberamente manifestare il proprio pensiero, si poteva ostentare la divisa fascista e salutare romanamente; non si sono raggiunte prove della verbalizzazione delle risposte date dai prigionieri in sede di conversazioni o di interrogatori come li hanno chiamati gli imputati; si è detto di un proclama invitante il popolo italiano alla ribellione, che è poi risultato essere un ordine del giorno di plauso al Re e a Badoglio; i vostri stessi testimoni che erano delle parti in causa, non hanno potuto confermare le accuse, quando non le hanno smentite, come hanno fatto quei dieci testi, i quali, chiamati a deporre sul fatto che il serg. Montalbano fu condannato a morte per colpa di D'Onofrio, non si sono presentati.

Il col. Longo ha mentito, sotto il vincolo del giuramento, quando è venuto a dire che non faceva parte del gruppo 'Amici dell'Alba'; la prova è nel numero 34 del settimanale e se non ci penserà il pubblico ministero mi assumerò egli stesso il compito di denunciarlo per falsa testimonianza. Il col. Zingales non si è presentato a deporre e ha dichiarato il falso per lettera'.

P.M.: 'Ma il col. Zingales lo avete chiamato voi a deporre!...'.

Avv. Sotgiu: 'Avrei voluto vedere se l’atteggiamento di questi testi sarebbe stato lo stesso e se essi non avrebbero invece rivendicato quanto è scritto, anche da loro, su 'Alba' se l'esito elezioni del 18 aprile fosse stato diverso da quello che è stato'.

Ma forse, in caso di vittoria del Fronte Popolare, sarebbero stati rispediti in Siberia.

Avv. Sotgiu: 'Tutto prova che tutto il processo, come ce lo ha presentato il Pubblico Ministero, viene a crollare e della sua requisitoria non resta neppure la parte relativa alla circolare di Kalinin sui commissari politici'.

Ad un ennesimo appunto mosso dall’avv. Sotgiu al Pubblico Ministero, di non avere cioè approfondito l'indagine dei documenti inerenti al processo e di aver soprattutto accusato D'Onofrio di appartenere alla polizia di Stato sovietica, il dottor Manca è scattato protestando.

Avv. Sotgiu: 'Il Pubblico Ministero, ha parlato di una legge italiana secondo la quale il D'Onofrio avrebbe perduto la cittadinanza, ma ha dimenticato di aggiungere che la stessa legge prevede una intimazione da parte del governo italiano con cui si avverte il cittadino di desistere dalla sua attività all’estero. Del resto sarebbe stato più corretto se il P. M. avesse contestato al querelante l'U.K.S. di Kalinin prima e non proprio all’ultimo momento'.

P.M.: 'Il suo rilievo è ridicolo. Lei sa perfettamente che il numero della 'Pravda' recante quel documento io l'ho avuto dopo'.

Avv. Sotgiu: 'Lei doveva ugualmente contestarlo al D'Onofrio. Non solo non lo ha fatto, ma ha tirato fuori la legge sulla cittadinanza che non riguarda il D'Onofrio, non ricorrendo in ogni caso gli estremi. Per affermare cose tanto gravi occorrono delle prove granitiche e voi non avete portato che falsità'.

C'è stato un vivace scambio di parole fra i due avvocati, è intervenuto anche l'avv. Paone in difesa di Sotgiu, il tutto inframezzato dalle squillanti scampanellate del Presidente che a stento è riuscito a sedare l'incidente, non prima però che Sotgiu avesse tacciato il P. M. di 'antigiuridico'.

L'avv. Sotgiu, ripreso l'argomento, ha poi affermato che la legge italiana sulla cittadinanza non poteva riguardare il D'Onofrio anche per il fatto che essa è applicabile quando l'esule abbia in terra straniera una occupazione retribuita. Il che non riguarda D'Onofrio. Il quale evidentemente in Russia campava d’aria. Ma se anche oggi i gerarchi comunisti sono pagati con rubli sovietici!?! Avv. Sotgiu: 'A nessuno è lecito oltraggiare l'esule che ha voluto mantenere fede alle proprie idee; ciò facendo si offendono tutti gli italiani i quali subirono infami sentenze dei Tribunali Speciali del fascismo'.

E siamo finalmente alla conclusione dell’arringa, con un altro accenno di passaggio al caso del cap. Magnani il quale non sarebbe rimasto in terra di Russia per ragioni politiche e tanto meno per colpa di D'Onofrio.

Avv. Sotgiu: 'Nessuno ha portato prove a questa accusa e del resto come si potrebbe provare che il Magnani, lo Ioli e gli altri furono trattenuti perché accusati di fascismo quando generali dichiaratamente fascisti sono stati rimpatriati? Il contrario è confermato dalle dichiarazioni rese dal sottosegretario agli esteri on. Brusasca e dal ministro Gasparotto in base alle quali ventisette italiani sono ancora trattenuti in Russia perché sospetti di crimini di guerra. C'è solo da augurarsi che l'inchiesta cui sono sottoposti abbia un esito negativo.

Signori, la vostra coscienza non può aderire ad una tesi che, colpendo Edoardo D'Onofrio, colpisce l'Italia. Assolvere costoro significa condannare quanti oggi siedono ai banchi del governo'. Forse l'espressione 'banchi del governo' è frutto di un lapsus linguae, volendo l'avv. Sotgiu alludere al settore di estrema sinistra dei banchi del Parlamento e non ai banchi del governo italiano che è... 'nero e reazionario' per definizione, perché non partecipa al blocco filosovietico dei paesi satelliti. Di 'crimini di guerra' delle truppe rosse in Grecia e in Cina agli ordini del Cominform, nessuno parla: forse quei delitti sono... strumenti progressivi di pace e sono discriminati innanzi alla giustizia bolscevica.

Rapporto sui prigionieri, parte 3

Pubblico alcuni estratti del "Rapporto sui prigionieri di guerra italiani in Russia" a cura di Carlo Vicentini e Paolo Resta, fonte UNIRR, 2a edizione, anno 2005, a mio avviso la fonte più autorevole per fare chiarezza sulle perdite e sulle vicissitudini dei nostri soldati in Russia durante il secondo conflitto mondiale.

I PERCORSI.







mercoledì 1 settembre 2021

domenica 29 agosto 2021

Rapporto sui prigionieri, parte 2

Pubblico alcuni estratti del "Rapporto sui prigionieri di guerra italiani in Russia" a cura di Carlo Vicentini e Paolo Resta, fonte UNIRR, 2a edizione, anno 2005, a mio avviso la fonte più autorevole per fare chiarezza sulle perdite e sulle vicissitudini dei nostri soldati in Russia durante il secondo conflitto mondiale.

I CADUTI ED I DISPERSI.

La tabella della pagina precedente è intitolata "Caduti e Dispersi", ma occorre dare un significato più preciso alle cifre cui è stata attribuita tale intestazione: è necessario analizzarne le possibili componenti. A grandi linee, la sorte di chi non ha fatto ritorno nel 1943, può essere attribuita ai seguenti tre gruppi di cause: a) - Caduti in combattimento nella fase di rottura del fronte o in seguito, nella ritirata; b) - Morti nella ritirata per il logoramento fisico dovuto alla fatica, al freddo, alla mancanza di riposo notturno, ad alimentazione insufficiente. Morti per ferite non potute Curare. Morti per crollo psicologico; c) - Catturati dal nemico.

a) - Caduti in combattimento.

La relazione ufficiale dello Stato Maggiore indica come prima causa dell'elevato numero di perdite "... la resistenza sul posto che impose il sacrificio totale di capisaldi, di reparti, di intere Unità...". Questa considerazione può valere, semmai, solo per alcune Divisioni come la "Cosseria", la "Ravenna", la "Celere" e la "Julia", perché le altre non furono investite dall'offensiva russa, al massimo subirono azioni di alleggerimento e lasciarono il fronte pressoché a ranghi completi. Non si hanno dati certi sui Caduti in combattimento nella fase di resistenza della "Cosseria", della "Ravenna" e della "Celere". Per la "Julia". che tra il 17 dicembre 1942 ed il 17 gennaio 1943, sostenne asprissimi combattimenti per contenere la continua pressione dei russi, tanto da meritare la citazione sul bollettino di guerra tedesco, si hanno dati sicuri. Ebbe circa 500 Caduti, un centinaio di Dispersi e più di mille feriti. Anche ammettendo la diversa virulenza dell'offensiva russa contro le prime tre Divisioni, si deve convenire che le loro perdite per la breve resistenza in posto (circa 4 giorni) non devono esser state molto superiori a quelle subite dalla "Julia" durante un intero mese. Si deve concludere, dunque, che i combattimenti per arginare la rottura del fronte non furono la causa principale del grande numero di perdite.

I Caduti nei combattimenti che si sono svolti nel corso della ritirata sono, di sicuro, di gran lunga superiori a quelli di cui si è detto, ma anche in tal caso, vi sono differenze notevoli da reparto a reparto. L'entità dei Caduti nei reiterati scontri affrontati aprirsi la via della ritirata, a prescindere dal numero e dalla potenzialità del nemico che si può considerare identica per tutte le colonne, è dipesa da vari fattori:
- se la ritirata sia iniziata in buon ordine, cioè se si è trattato di sganciamento dal nemico o invece, di Unità la quale investita dall'offensiva ha dovuto abbandonare il fronte a ranghi ridotti, priva di molti ufficiali, per forza di cose disorganizzata e moralmente scossa.
- se l'Unità, aveva la disponibilità di carburante o di salmerie e, di conseguenza, poteva o meno portarsi al seguito artiglieria, munizioni e viveri.
- secondo la lunghezza del percorso che l'Unità ha dovuto coprire, prima di potersi ritenere in salvo.
- se la ritirata è stata fatta in compagnia di reparti tedeschi ancora efficienti e muniti di pezzi anticarro.
- in relazione all'energia ed intraprendenza dei comandanti ed alla loro presenza o meno alla guida dei reparti.

In definitiva, se l'Unità piccola o grande che fosse, aveva non solo la volontà, ma soprattutto la possibilità di combattere. La Divisione "Tridentina" lasciò la riva del Don in perfetto ordine e con le sue artiglierie someggiate fece la ritirata accompagnata dai resti del 29° Corpo Corazzato tedesco e, malgrado le durissime battaglie, poté conservare molti giorni la sua aggressività, ma questo le costò perdite enormi.

Anche le Divisioni "Torino", "Pasubio" e "Sforzesca" lasciarono la linea pressoché intatte, ma dopo qualche giorno furono costrette ad abbandonare le artiglierie e gli automezzi per mancanza di carburante. D'altra parte, anche i pochi automezzi che ancora camminavano furono il primo bersaglio dei carri e dell'artiglieria dei sovietici. Anche le armi di accompagnamento si rivelarono presto inutilizzabili: mortai e mitragliatrici divorano munizioni e dopo uno o due combattimenti queste si esauriscono se non vengono rinnovate, ma ogni rifornimento dai magazzini e dai depositi delle retrovie era cessato o sconvolto. La ritirata di queste Divisioni, pertanto, si era trasformata in colonne di soldati con le sole armi individuali che ben presto divennero inutili una volta esaurite le poche scorte delle giberne. La loro combattività era ridotta a zero, esse si trovarono completamente impotenti di fronte all'aggressione dei mezzi corazzati e delle fanterie russe che, giorno dopo giorno, tagliavano loro la strada.

Non è il caso di recriminare se, in queste condizioni, molti soldati, pur di sopravvivere, alzarono le mani e se i comandanti, considerando inutile il sacrificio dei loro uomini non si opposero alla resa. Naturalmente vi furono fulgidi esempi di eroismo e comportamenti di estremo coraggio sia individuali che di reparto, ma la sproporzione di forze tra noi ed i russi era enorme, la loro padronanza del terreno totale, la loro iniziativa continua, martellante. Cadere prigionieri non fu una scelta.

Sorte pressoché identica subì la "Cuneense" che, staccatasi dalla linea senza aver subito alcuna perdita, si trovò subito in grave crisi di trasporti perché la maggior parte delle sue salmerie era stata acquartierata nelle lontane retrovie. Dopo i primi due combattimenti, la sua potenzialità di offesa divenne nulla. Per quanto riguarda le Divisioni "Cosseria" e "Ravenna", esse ebbero effettivamente la maggior parte delle perdite durante la lunga fase di logoramento e di preparazione dell'offensiva russa. Ma la "Cosseria" - che in questa fase ebbe la perdita di 2.400 uomini - non ne ebbe poi praticamente nessun altra nella brevissima ritirata che la portò, in un paio di giorni, a ripararsi dietro il Corpo d'Armata Alpino.

Si devono considerare caduti in combattimento, anche se l'accezione combattimento è impropria, i soldati praticamente inermi, delle colonne in ritirata che venivano falciati dai cannoni e dalle mitragliatrici dei carri russi; i feriti a bordo delle slitte che venivano travolte e schiacciate quando i carri armati percorrevano le piste intasate, scompigliandole, rovesciando automezzi e carriaggi; i soldati che furono uccisi dai partigiani mentre dormivano nelle isbe; quelli che perirono nel rogo di qualche capannone stipato all'inverosimile; quelli spezzonati e mitragliati dagli aerei. Il Ministero della Difesa - Albo d'Oro ha la documentazione, rilasciata da testimoni oculari, della morte in combattimento nel periodo considerato (11 dicembre 1942 - 30 aprile 1943) di 3.865 uomini. E' l'unico dato certo disponibile, ma è evidente che la cifra è ben lontana dai 25 mila che risultano oggi dal bilancio delle perdite.

b) - Caduti per crollo fisico.

Il freddo, l'equipaggiamento inadatto, la fame, la spossatezza sono stati la causa di molte morti durante la ritirata. Sono fattori che hanno avuto peso, ma decisamente molto minore di quello che di solito viene loro attribuito da commentatori interessati o poco informati. Vediamo il freddo. Nel primo inverno (1941-42) lo CSIR era equipaggiato peggio di come lo fossero i soldati dell'ARMlR. Quell'inverno russo fu eccezionalmente rigido, tanto vero che i tedeschi istituirono una speciale medaglia per i combattenti del fronte di quel periodo (medaglia della quale poterono fregiarsi anche i soldati dello CSIR). Ebbene il nostro Corpo di Spedizione (62 mila uomini) ebbe in quell'inverno 3.400 congelati, dei quali solo 1.400 rimpatriati. Da tener conto che nessuna delle sue Divisioni erano a reclutamento alpino.

All'inizio del secondo inverno (ottobre 1942), l'equipaggiamento invernale non era ancora stato distribuito alla truppa ed a dicembre molti reparti ne erano ancora privi però a questa imperdonabile disorganizzazione della nostra Intendenza, i soldati avevano fatto fronte con eccellenti indumenti di lana casalinghi, mandati dalle famiglie nei pacchi. La carenza più importante era data dalle calzature, assolutamente inadatte alla neve ed al clima russo; dunque molti congelamenti ai piedi, ma in definitiva non generalizzati se circa 130 mila uomini hanno potuto percorrere centinaia di chilometri di ritirata ed uscire dall'accerchiamento.

In quanto ai cedimenti per fatica, si tenga presente che quegli stessi uomini, l'estate precedente - certo in condizioni fisiche, psicologiche e climatiche ben differenti - hanno percorso distanze tre o quattro volte superiori a quelle della ritirata. Per affaticamento soccombevano specialmente i soldati e gli ufficiali non preparati agli sforzi e non allenati alle temperature polari. Chi era stato rintanato e seduto al caldo nei comandi delle retrovie. nelle furerie, nei centralini, nei magazzini. negli ospedali oppure gli autisti, che non avevano mai fatto un passo a piedi, non furono certo in grado di marciare decine di ore al giorno nella neve e tormenta. Ma questa gente costituiva una esigua minoranza.

Ci sono stati anche cedimenti morali, psicologici: suicidi, forme di pazzia, di alienazione, abbandoni, non giustificati da crollo fisico, ma da disperazione. Tali episodi hanno colpito emotivamente chi ne fu testimone e riferendone ha ampliato la portata. La fame e la sete sono le più remote tra le cause che aver fatto morire i nostri soldati nella ritirata. Per convincersi di quale resistenza abbia l'organismo umano alla mancanza di alimentazione, si vedano più avanti i capitoli riguardanti la prigionia.

c) - Catturati dal nemico.

Con poche eccezioni (Divisione "Tridentina", aliquote della Divisione "Celere" e Divisione "Sforzesca") quasi tutti i reparti, dopo tre o quattro giorni di ritirata, si sono trovati nella condizione, a causa della perdita delle artiglierie ed alla mancanza di munizionamento delle altre armi, di affrontare i russi a mani nude. Non vi è combattimento se uno dei contendenti è disarmato. In molti casi i Comandanti - sia delle grandi che delle piccole Unità - non hanno saputo o potuto tenere in mano i propri reparti che rapidamente si sono sbandati, smembrati, mescolati con altri in una massa amorfa, priva di qualsiasi combattività.

Pertanto i russi ebbero buon gioco contro un nemico inerme, spesso abbandonato a se stesso, avvilito e sfiduciato. I loro mobilissimi reparti non trovarono difficoltà a sbocconcellare le colonne in ritirata; aggirandole, isolandole ed a catturarne tutti i componenti. Nella valutazione degli ufficiali ed a maggior ragione dei militari isolati e sbandati, la resa era la soluzione che avrebbe salvato migliaia di vite. Valutazione che, purtroppo, si rivelò del tutto sbagliata.

Quanto si è detto non permette certo, di quantificare le componenti della voce: "Caduti e Dispersi". Sono solo considerazioni che possono, tutt'al più, suggerire delle proporzioni. Si ha però la disponibilità di una ricerca, suffragata da documentazione nominativa, che conferma come il numero dei catturati sia stato superiore a quello dei morti in combattimento o per cedimento durante la ritirala. La ricerca è stata effettuata per tutti gli ufficiali che non risultavano tornati in Italia alla fine del marzo 1943. I risultati sono evidenziati nella tabella della pagina seguente. Dalla medesima si può rilevare, innanzitutto, che gli ufficiali assenti erano 3.541 ossia molti di più dei 3.010 comunicati dall'Ufficio Storico nel 1946. Erano così ripartiti: 541 - 15% morti nella ritirata; 1.193 - 34% catturati e morti in prigionia; 681 - 19% catturati e rimpatriati; 1.126 - 32% non si conosce la sorte (morti nella ritirata o in prigionia).

E' evidente che la percentuale dei morti nel corso della ritirata riguarda solo quelli accertati ed è di gran lunga inferiore alla realtà, però altrettanto si può dire per i morti in prigionia. I dati riguardano solo gli ufficiali, cioè, un aliquota ben modesta di soggetti, ma completa ed omogenea e non ci sono elementi per escludere che le stesse proporzioni valgano anche per la massa dei soldati.

martedì 24 agosto 2021

La Domenica del Corriere del 1963

La ritirata di Russia sulla Domenica del Corriere del febbraio 1963; un'altra testimonianza della storia dei nostri soldati durante la Seconda guerra mondiale che si aggiunge alle altre che ormai da anni raccolgo in ricordo di tutti quei ragazzi.