A volte è una traccia, un solco nella neve da seguire per ore e ore nel nulla...
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Trekking ed escursioni in Russia sui campi di battaglia della Seconda Guerra Mondiale
Danilo Dolcini - Phone 349.6472823 - Email danilo.dolcini@gmail.com - FB Un italiano in Russia
martedì 13 aprile 2021
Commissione speciale dell'ONU, parte 2
Pubblico la seconda parte di un documento storico di alto interesse, recuperato qualche mese fa dopo svariate ricerche. "Note e documenti riguardanti i militari italiani prigionieri e dispersi i Russia" realizzato dell'Ufficio del delegato italiano presso la Commissione speciale dell'O.N.U. per i prigionieri di guerra, edito nel 1958.
Perciò dalla perdita complessiva di circa 85.000 unità, calcolati i morti e i prigionieri restituiti, si poté dedurre che i militari dispersi ammontavano a circa 64.000 uomini dei quali si ignora tuttora la sorte loro toccata. Queste distinte cifre dei prigionieri e dei dispersi, puramente indicative, non convincono, ne possono essere accettate per una sequela di considerazioni e soprattutto di prove raggiunte dalle nostre autorità e di contraddizioni da parte delle stesse autorità sovietiche, le quali, uniche in possesso dei dati necessari, possono rivelare la verità su questo angoscioso problema dei prigionieri, la cui sorte sconosciuta, angoscia l'animo di migliaia di famiglie italiane, che invocano comprensione e senso di umana solidarietà da parte del popolo russo.
La sorpresa causata dalla notizia della liberazione e restituzione di appena 20.000 prigionieri italiani e poi la dolorosa constatazione che solo 10.030 di essi erano quelli dell'ARMIR restituiti dai campi di concentramento della Russia, disorientarono l'opinione pubblica italiana e furono fonte di amarezza e di angoscia in tante famiglie che speravano di riabbracciare i loro congiunti. Il 27 novembre 1946 il Governo sovietico fece seguire al rimpatrio dei prigionieri la seguente dichiarazione: "Il Ministero degli Affari Esteri dell'U.R.S.S. ha l'onore di attirare l'attenzione dell'Ambasciata d'Italia sul fatto che il Governo sovietico, venendo incontro al desiderio del Governo Italiano e per manifestare la sua buona volontà ha proceduto di sua iniziativa al rimpatrio dei prigionieri italiani nell'U.R.S.S., che è stato ultimato nell'agosto u.s.". Con questo passo il Governo sovietico intendeva considerare chiusa definitivamente la questione dei nostri prigionieri di guerra.
Intanto dagli interrogatori dei reduci si poté acclarare che altri prigionieri italiani erano sicuramente rimasti nell'U.R.S.S., sparsi in campi di punizione o in carcere, perché incolpati di crimini di guerra. Raccolte le prove testimoniali dei reduci, si produsse una chiara ed inoppugnabile documentazione alle autorità sovietiche, che nel 1947, senza alcun preavviso restituirono altri 5 prigionieri, nel 1948 altri due, dei quali non si aveva notizie dell'esistenza in vita, nel 1950 un gruppo di altri 21 prigionieri fra i quali i tre generali delle Divisioni Alpine e nel 1951 un altro prigioniero, del quale si sconosceva la sorte. Quindi le autorità sovietiche trasmisero una lista di 34 prigionieri italiani trattenuti, in attesa del procedimento giudiziario che li riguardava per accuse di atrocità commesse contro la popolazione civile in territorio dell'U.R.S.S. durante la guerra.
Infine nel gennaio-febbraio del 1954 veniva restituito il predetto gruppo di prigionieri, presunti criminali di guerra il cui rimpatrio venne annunziato dall'Ambasciata dell'U.R.S.S. in Roma con la seguente nota verbale: "L'Ambasciata dell'Unione delle Repubbliche Sovietiche Socialiste presenta i suoi complimenti al Ministero degli Affari Esteri della Repubblica Italiana e per incarico del suo Governo ha l'incarico di comunicare quanto segue: Terminato nell'agosto 1946 il rimpatrio dall'U.R.S.S. dei prigionieri di guerra italiani che espiavano la pena per delitti da loro commessi, ora in relazione col decreto di amnistia del presidium del Consiglio Supremo dell'U.R.S.S. e per corrispettiva decisione del Tribunale Supremo dell'U.R.S.S. dopo il riesame delle pratiche, 27 prigionieri di guerra italiani vengono liberati prima del tempo e sono ammessi al rimpatrio. Un altro prigioniero di guerra italiano è ammesso al rimpatrio dall'U.R.S.S. avendo scontato la pena. In pari tempo per decisione del Tribunale Supremo, riesaminate le pratiche, vengono liberati prima del tempo e ammessi al rimpatrio dall'U.R.S.S. 6 italiani civili che erano anch'essi detenuti in espiazione di pena per delitti da loro commessi. L'Ambasciata è autorizzata a dichiarare che nell'Unione sovietica oltre ai suddetti 28, non esiste alcun altro prigioniero di guerra italiano e che con la loro partenza dall'U.R.S.S. il rimpatrio dei prigionieri di guerra italiani dall'Unione Sovietica sarà del tutto completo".
A questa seconda affermazione da parte delle autorità sovietiche dell'avvenuta completa restituzione dei prigionieri di guerra italiani nell'U.R.S.S., seguono sporadicamente altri rientri insperati di cittadini italiani dei quali nulla si conosceva se non la loro posizione di dispersi, in conseguenza della quale ai congiunti veniva assegnata la pensione di guerra. Infatti ne rimpatriarono 4 nel 1955, 2 nel 1956 e uno nel 1957. Cosi furono restituiti complessivamente dal 1945 ad oggi 10.100 italiani, dei quali 10.081 militari dell'A.R.M.I.R., 13 altoatesini della Wermacht e 6 civili. Naturalmente il ritorno dei prigionieri italiani dopo le ripetute dichiarazioni del Governo Sovietico della inesistenza di altri in territorio russo, ha giustamente convinto l'opinione pubblica della inesattezza delle affermazioni e alimentata la speranza, nelle migliaia di famiglie dei dispersi, che altri prigionieri potrebbero trovarsi ancora sparsi nello sconfinato territorio delle Repubbliche Sovietiche.
Sull'entità dei nostri prigionieri in Russia si sono azzardate varie cifre: 60.000 secondo i nostri calcoli al termine della campagna di guerra; 85.000 secondo un comunicato apparso sul giornaletto «ALBA» del 10-2-1943 - periodico edito in Russia e distribuito nei campi di concentramento italiani; 115.000 secondo un comunicato dell'agenzia d'informazioni Tass, diramato nella notte tra il 15 e il 16 marzo 1943; 50.000 o 80.000 secondo una rassegna della stampa svedese del 3 aprile 1944 - secondo cui da notizie raccolte da un suo corrispondente londinese, si riteneva prossima la organizzazione in Russia di una Armata italiana composta di 50.000 - 80.000 prigionieri di guerra. Cifre alle quali si ritenne di dare un valore relativo, considerato che esse potessero essere state divulgate a scopo propagandistico nel periodo della guerra ancora in atto, ma che purtroppo rimasero inalterate nella convinzione degli ambienti familiari e associative dei prigionieri e dispersi.
La cifra piu attendibile si considerò quella di 46.000 militari dell'ARMIR, sia per concordi dichiarazioni dei reduci che per ammissione della stessa stampa sovietica. E a conferma giova riportare un passo tratto dal libro «Discorsi agli Italiani» di Mario Correnti - edito in lingua estera a Mosca - 1943 - ove fra l'altro si legge: "I dati della stampa sovietica sono inconfutabili. ...In tutto, la stampa sovietica, calcola che Mussolini ha perduto sul fronte orientale 60.000 morti, 69.000 feriti e 46.000 prigionieri...". Fu anche accertato, attraverso notizie fornite dai reduci, che tutti i prigionieri, all'atto della cattura, venivano elencati nominativamente prima del loro avvio ai campi di concentramento. Ufficialmente non si è potuto mai conoscere con esattezza dall'autorità sovietiche il numero ed i nomi dei prigionieri italiani catturati, quelli di essi deceduti durante le lunghe marce di trasferimento per raggiungere i campi e nei campi stessi per malattie ed altre cause.
I reduci hanno riferito di alte percentuali di decessi per epidemie, ma limitatamente a determinati campi e quindi non è stato possibile dedurre un numero anche approssimativo, che solo le autorità sovietiche possono precisare attraverso la documentazione in loro possesso e sulla cui esistenza non possono sorgere dubbi e per unanime dichiarazione dei reduci e per le stesse comunicazioni delle autorità sovietiche, che, per circa 450 certificati di morte, finora rimessi alle autorità italiane, hanno indicato con precisione per ogni prigioniero deceduto: nome, cognome, paternità, luogo e data di nascita, la data di morte, che per alcuni risulta essere di pochi giorni dopo quella della cattura, la località, la causa del decesso, specificando, nei 450 casi di morte, circa 40 malattie diverse.
Che l'URSS non avesse sentito l'obbligo di fare alcuna comunicazione alle autorità italiane sui prigionieri di guerra poteva anche ritenersi giustificata, in quanto non firmataria della Convenzione Internazionale di Ginevra del 1929, non era in dovere di farlo verso il paese nemico, ma la stessa giustificazione non avrebbe dovuto avere più senso allorché il nostro paese si unì nella lotta per la causa alleata e più ancora dopo, quando nel 1949 aderì alla nuova Convenzione Internazionale di Ginevra. Su questa ostinazione ed intransigenza, che tuttora mantengono le autorità sovietiche, ogni illazione è avventata anche perché nell'attuale parvente clima di distensione, almeno tale considerato, con lo scambio di accordi commerciali e visite culturali, artistiche, sportive, ecc. non si riesce a puntualizzare la causa della mancata collaborazione in questo doloroso problema la cui chiarificazione contribuirebbe tanto a rafforzare i vincoli di amicizia fra i due popoli.
Perciò dalla perdita complessiva di circa 85.000 unità, calcolati i morti e i prigionieri restituiti, si poté dedurre che i militari dispersi ammontavano a circa 64.000 uomini dei quali si ignora tuttora la sorte loro toccata. Queste distinte cifre dei prigionieri e dei dispersi, puramente indicative, non convincono, ne possono essere accettate per una sequela di considerazioni e soprattutto di prove raggiunte dalle nostre autorità e di contraddizioni da parte delle stesse autorità sovietiche, le quali, uniche in possesso dei dati necessari, possono rivelare la verità su questo angoscioso problema dei prigionieri, la cui sorte sconosciuta, angoscia l'animo di migliaia di famiglie italiane, che invocano comprensione e senso di umana solidarietà da parte del popolo russo.
La sorpresa causata dalla notizia della liberazione e restituzione di appena 20.000 prigionieri italiani e poi la dolorosa constatazione che solo 10.030 di essi erano quelli dell'ARMIR restituiti dai campi di concentramento della Russia, disorientarono l'opinione pubblica italiana e furono fonte di amarezza e di angoscia in tante famiglie che speravano di riabbracciare i loro congiunti. Il 27 novembre 1946 il Governo sovietico fece seguire al rimpatrio dei prigionieri la seguente dichiarazione: "Il Ministero degli Affari Esteri dell'U.R.S.S. ha l'onore di attirare l'attenzione dell'Ambasciata d'Italia sul fatto che il Governo sovietico, venendo incontro al desiderio del Governo Italiano e per manifestare la sua buona volontà ha proceduto di sua iniziativa al rimpatrio dei prigionieri italiani nell'U.R.S.S., che è stato ultimato nell'agosto u.s.". Con questo passo il Governo sovietico intendeva considerare chiusa definitivamente la questione dei nostri prigionieri di guerra.
Intanto dagli interrogatori dei reduci si poté acclarare che altri prigionieri italiani erano sicuramente rimasti nell'U.R.S.S., sparsi in campi di punizione o in carcere, perché incolpati di crimini di guerra. Raccolte le prove testimoniali dei reduci, si produsse una chiara ed inoppugnabile documentazione alle autorità sovietiche, che nel 1947, senza alcun preavviso restituirono altri 5 prigionieri, nel 1948 altri due, dei quali non si aveva notizie dell'esistenza in vita, nel 1950 un gruppo di altri 21 prigionieri fra i quali i tre generali delle Divisioni Alpine e nel 1951 un altro prigioniero, del quale si sconosceva la sorte. Quindi le autorità sovietiche trasmisero una lista di 34 prigionieri italiani trattenuti, in attesa del procedimento giudiziario che li riguardava per accuse di atrocità commesse contro la popolazione civile in territorio dell'U.R.S.S. durante la guerra.
Infine nel gennaio-febbraio del 1954 veniva restituito il predetto gruppo di prigionieri, presunti criminali di guerra il cui rimpatrio venne annunziato dall'Ambasciata dell'U.R.S.S. in Roma con la seguente nota verbale: "L'Ambasciata dell'Unione delle Repubbliche Sovietiche Socialiste presenta i suoi complimenti al Ministero degli Affari Esteri della Repubblica Italiana e per incarico del suo Governo ha l'incarico di comunicare quanto segue: Terminato nell'agosto 1946 il rimpatrio dall'U.R.S.S. dei prigionieri di guerra italiani che espiavano la pena per delitti da loro commessi, ora in relazione col decreto di amnistia del presidium del Consiglio Supremo dell'U.R.S.S. e per corrispettiva decisione del Tribunale Supremo dell'U.R.S.S. dopo il riesame delle pratiche, 27 prigionieri di guerra italiani vengono liberati prima del tempo e sono ammessi al rimpatrio. Un altro prigioniero di guerra italiano è ammesso al rimpatrio dall'U.R.S.S. avendo scontato la pena. In pari tempo per decisione del Tribunale Supremo, riesaminate le pratiche, vengono liberati prima del tempo e ammessi al rimpatrio dall'U.R.S.S. 6 italiani civili che erano anch'essi detenuti in espiazione di pena per delitti da loro commessi. L'Ambasciata è autorizzata a dichiarare che nell'Unione sovietica oltre ai suddetti 28, non esiste alcun altro prigioniero di guerra italiano e che con la loro partenza dall'U.R.S.S. il rimpatrio dei prigionieri di guerra italiani dall'Unione Sovietica sarà del tutto completo".
A questa seconda affermazione da parte delle autorità sovietiche dell'avvenuta completa restituzione dei prigionieri di guerra italiani nell'U.R.S.S., seguono sporadicamente altri rientri insperati di cittadini italiani dei quali nulla si conosceva se non la loro posizione di dispersi, in conseguenza della quale ai congiunti veniva assegnata la pensione di guerra. Infatti ne rimpatriarono 4 nel 1955, 2 nel 1956 e uno nel 1957. Cosi furono restituiti complessivamente dal 1945 ad oggi 10.100 italiani, dei quali 10.081 militari dell'A.R.M.I.R., 13 altoatesini della Wermacht e 6 civili. Naturalmente il ritorno dei prigionieri italiani dopo le ripetute dichiarazioni del Governo Sovietico della inesistenza di altri in territorio russo, ha giustamente convinto l'opinione pubblica della inesattezza delle affermazioni e alimentata la speranza, nelle migliaia di famiglie dei dispersi, che altri prigionieri potrebbero trovarsi ancora sparsi nello sconfinato territorio delle Repubbliche Sovietiche.
Sull'entità dei nostri prigionieri in Russia si sono azzardate varie cifre: 60.000 secondo i nostri calcoli al termine della campagna di guerra; 85.000 secondo un comunicato apparso sul giornaletto «ALBA» del 10-2-1943 - periodico edito in Russia e distribuito nei campi di concentramento italiani; 115.000 secondo un comunicato dell'agenzia d'informazioni Tass, diramato nella notte tra il 15 e il 16 marzo 1943; 50.000 o 80.000 secondo una rassegna della stampa svedese del 3 aprile 1944 - secondo cui da notizie raccolte da un suo corrispondente londinese, si riteneva prossima la organizzazione in Russia di una Armata italiana composta di 50.000 - 80.000 prigionieri di guerra. Cifre alle quali si ritenne di dare un valore relativo, considerato che esse potessero essere state divulgate a scopo propagandistico nel periodo della guerra ancora in atto, ma che purtroppo rimasero inalterate nella convinzione degli ambienti familiari e associative dei prigionieri e dispersi.
La cifra piu attendibile si considerò quella di 46.000 militari dell'ARMIR, sia per concordi dichiarazioni dei reduci che per ammissione della stessa stampa sovietica. E a conferma giova riportare un passo tratto dal libro «Discorsi agli Italiani» di Mario Correnti - edito in lingua estera a Mosca - 1943 - ove fra l'altro si legge: "I dati della stampa sovietica sono inconfutabili. ...In tutto, la stampa sovietica, calcola che Mussolini ha perduto sul fronte orientale 60.000 morti, 69.000 feriti e 46.000 prigionieri...". Fu anche accertato, attraverso notizie fornite dai reduci, che tutti i prigionieri, all'atto della cattura, venivano elencati nominativamente prima del loro avvio ai campi di concentramento. Ufficialmente non si è potuto mai conoscere con esattezza dall'autorità sovietiche il numero ed i nomi dei prigionieri italiani catturati, quelli di essi deceduti durante le lunghe marce di trasferimento per raggiungere i campi e nei campi stessi per malattie ed altre cause.
I reduci hanno riferito di alte percentuali di decessi per epidemie, ma limitatamente a determinati campi e quindi non è stato possibile dedurre un numero anche approssimativo, che solo le autorità sovietiche possono precisare attraverso la documentazione in loro possesso e sulla cui esistenza non possono sorgere dubbi e per unanime dichiarazione dei reduci e per le stesse comunicazioni delle autorità sovietiche, che, per circa 450 certificati di morte, finora rimessi alle autorità italiane, hanno indicato con precisione per ogni prigioniero deceduto: nome, cognome, paternità, luogo e data di nascita, la data di morte, che per alcuni risulta essere di pochi giorni dopo quella della cattura, la località, la causa del decesso, specificando, nei 450 casi di morte, circa 40 malattie diverse.
Che l'URSS non avesse sentito l'obbligo di fare alcuna comunicazione alle autorità italiane sui prigionieri di guerra poteva anche ritenersi giustificata, in quanto non firmataria della Convenzione Internazionale di Ginevra del 1929, non era in dovere di farlo verso il paese nemico, ma la stessa giustificazione non avrebbe dovuto avere più senso allorché il nostro paese si unì nella lotta per la causa alleata e più ancora dopo, quando nel 1949 aderì alla nuova Convenzione Internazionale di Ginevra. Su questa ostinazione ed intransigenza, che tuttora mantengono le autorità sovietiche, ogni illazione è avventata anche perché nell'attuale parvente clima di distensione, almeno tale considerato, con lo scambio di accordi commerciali e visite culturali, artistiche, sportive, ecc. non si riesce a puntualizzare la causa della mancata collaborazione in questo doloroso problema la cui chiarificazione contribuirebbe tanto a rafforzare i vincoli di amicizia fra i due popoli.
lunedì 12 aprile 2021
MOVM - Camandone Bruno
Le Medaglie d'Oro al Valor Militare della Campagna di Russia, Capitano CAMANDONE Bruno - 4° Reggimento Artiglieria Contraerea.
Motivazione: "Capitano di artiglieria appassionato ed entusiasta, venuto a conoscenza che nel corso dì affrettato ripiegamento del gruppo cui apparteneva alcuni pezzi erano stati abbandonati, ottenne, dopo reiterate insistenze, di poter tentare il recupero dei pezzi stessi Seguito da altri ardimentosi riusciva con perizia e tenacia a ricuperarne due avviandoli alle nostre linee. Fatto segno a violenta reazione nemica e ferito una prima volta volle insistere nel generoso compito assuntosi per recuperare altro pezzo della sua batteria. Raggiunto l’intento a prezzo di forti sacrifici e prossimo ormai a rientrare nelle nostre posizioni col prezioso carico, venne colpito in pieno da raffica anticarro. Esalò l’ultimo respiro abbattuto sul suo cannone, rivolgendo parole di fede e di incitamento ai compagni che lo avevano seguito nell’ardua impresa. Esempio di cosciente valore e di sublime attaccamento alla propria arma. - Cerkowo (Fronte russo), 24 dicembre 1942".
Motivazione: "Capitano di artiglieria appassionato ed entusiasta, venuto a conoscenza che nel corso dì affrettato ripiegamento del gruppo cui apparteneva alcuni pezzi erano stati abbandonati, ottenne, dopo reiterate insistenze, di poter tentare il recupero dei pezzi stessi Seguito da altri ardimentosi riusciva con perizia e tenacia a ricuperarne due avviandoli alle nostre linee. Fatto segno a violenta reazione nemica e ferito una prima volta volle insistere nel generoso compito assuntosi per recuperare altro pezzo della sua batteria. Raggiunto l’intento a prezzo di forti sacrifici e prossimo ormai a rientrare nelle nostre posizioni col prezioso carico, venne colpito in pieno da raffica anticarro. Esalò l’ultimo respiro abbattuto sul suo cannone, rivolgendo parole di fede e di incitamento ai compagni che lo avevano seguito nell’ardua impresa. Esempio di cosciente valore e di sublime attaccamento alla propria arma. - Cerkowo (Fronte russo), 24 dicembre 1942".
Ricompense - 4° Regg. Artiglieria Contraerea
Ricompense al Valor Militare attribuite per le operazioni sul Fronte Russo, a cura di Carlo Vicentini, fonte UNIRR.
MOVM - Medaglia d'Oro al Valor Militare, MAVM - Medaglia d'Argento al Valor Militare, MBVM - Medaglia di Bronzo al Valor Militare, MOVM - Medaglia d'Oro al Valor Militare, CGVM - Croce di Guerra al Valor Militare.
4° REGGIMENTO ARTIGLIERIA CONTRAEREA.
MOVM Capitano CAMANDONE Bruno, alla memoria
MAVM Maggiore SQUILLACI Arturo
MAVM Maggiore URSO Gaetano
MAVM Capitano VEZZIL Mario
MAVM Tenente LIETTI Antonio
MAVM Tenente PESCE Amleto
MAVM caporal maggiore BALLABIO Francesco
MAVM caporal maggiore FORLANI Natale
MAVM soldato BERTOLDO Teonildo
MBVM Tenente Colonnello CAVALIERE Ferdinando
MBVM Tenente Colonnello SQUILLACI Arturo
MBVM Maggiore VALENZA Vincenzo
MBVM Capitano ADAMI Arnaldo
MBVM Capitano AGEN Bruno
MBVM Capitano INCANNAMORTE Nunzio
MBVM Tenente COSTANTINI Nicola
MBVM Sottotenente RUSSO Silvestro
MBVM Sottotenente SINESIO Giuseppe
MBVM Sottotenente VETTORI Francesco
MBVM sergente BOCCA Bruno
MBVM sergente MACCHIAVELLI Massimo
MBVM sergente MASELLI Vito
MBVM sergente SPINELLO Antonio
MBVM caporal maggiore ADDAMIANO Silvano
MBVM caporal maggiore BACCHIANI Luigi
MBVM caporal maggiore CARMINATO Fortunato
MBVM caporale BARILLARO Telemaco
MBVM caporale DE SILVESTRI Rocco
MBVM caporale FENZI Alessandro
MBVM caporale GHINASSI Rinaldo, alla memoria
MBVM caporale RETTORE Antonio
MBVM caporale TANONI Dino
MBVM soldato ALLEGRI Gelsiano
MBVM soldato AMBROSIO Francesco
MBVM soldato BERNARDINELLO Ilario
MBVM soldato CHIEREGATO Attilio
MBVM soldato DE CARIS Gioacchino
MBVM soldato DE GENNARO Giovanni
MBVM soldato FRANCESCON Antonio, alla memoria
MBVM soldato MARZELLA Giuseppe
MBVM soldato PISONI G.Battista, alla memoria
MBVM soldato RAMELLA Lorenzo, alla memoria
MBVM soldato RIGHI Angelo
MBVM soldato SUFFRITTI Guerrino
MBVM soldato TAVAZZI Giuseppe
MBVM soldato VASCO Giovanni
MBVM soldato ZORZIN Mario
CGVM Capitano BALDONI Orfeo
CGVM Capitano CAMPI Pasquale
CGVM Capitano MONTELEONE Lorenzo
CGVM Capitano ROZ Gustavo
CGVM Capitano VISAL Guido
CGVM Tenente ANDREUZZI Federico
CGVM Tenente BROLIS Pier Battista
CGVM Tenente GOBBO GHERBASSI Raim.
CGVM sergente maggiore ANASTASIO Tarcisio
CGVM sergente maggiore GRIGOLATO Bruno
CGVM sergente DI CORRADO Michele
CGVM caporal maggiore BOCCANERA Mario
CGVM caporal maggiore BOIAGO Luigi
CGVM caporal maggiore BUCCHIERI Giuseppe
CGVM caporal maggiore DEL SARTO Adelio
CGVM caporal maggiore FOCANTI Giulio
CGVM caporal maggiore MAGRI Edoardo
CGVM caporal maggiore MUNARON Guerrino
CGVM caporal maggiore SCIARINI Germinano
CGVM caporal maggiore TAMBURINI Diego
CGVM caporale BERNARDI Celeste
CGVM caporale DE VECCHI Nildo
CGVM caporale GUADAGNIN Altinio
CGVM caporale MESCHINI Amedeo
CGVM caporale TONELLI Cesare
CGVM soldato AMBROSI Pietro
CGVM soldato CHIORBOLI Alfredo
CGVM soldato CLERICI Renato
CGVM soldato COLLODEL Giovanni
CGVM soldato CRUCIANELLI Giuseppe
CGVM soldato EVOLA Michele
CGVM soldato GALLINA Ugo
CGVM soldato HAWER Bruno
CGVM soldato MAESTRI Aldo
CGVM soldato MAZZOLA Vincenzo
CGVM soldato MENNA Vincenzo
CGVM soldato PARRON Giuseppe
CGVM soldato PIACENZA Osvaldo
CGVM soldato POMARE' Osvaldo
CGVM soldato PORRO Francesco
CGVM soldato ROMANO Angelo
CGVM soldato SABATO Gaetano
CGVM soldato STABELLINI Werter
CGVM soldato STEFFENINO Luigi
CGVM soldato VIOTTI Guelfo
CGVM soldato ZECCA Francesco
MOVM - Medaglia d'Oro al Valor Militare, MAVM - Medaglia d'Argento al Valor Militare, MBVM - Medaglia di Bronzo al Valor Militare, MOVM - Medaglia d'Oro al Valor Militare, CGVM - Croce di Guerra al Valor Militare.
4° REGGIMENTO ARTIGLIERIA CONTRAEREA.
MOVM Capitano CAMANDONE Bruno, alla memoria
MAVM Maggiore SQUILLACI Arturo
MAVM Maggiore URSO Gaetano
MAVM Capitano VEZZIL Mario
MAVM Tenente LIETTI Antonio
MAVM Tenente PESCE Amleto
MAVM caporal maggiore BALLABIO Francesco
MAVM caporal maggiore FORLANI Natale
MAVM soldato BERTOLDO Teonildo
MBVM Tenente Colonnello CAVALIERE Ferdinando
MBVM Tenente Colonnello SQUILLACI Arturo
MBVM Maggiore VALENZA Vincenzo
MBVM Capitano ADAMI Arnaldo
MBVM Capitano AGEN Bruno
MBVM Capitano INCANNAMORTE Nunzio
MBVM Tenente COSTANTINI Nicola
MBVM Sottotenente RUSSO Silvestro
MBVM Sottotenente SINESIO Giuseppe
MBVM Sottotenente VETTORI Francesco
MBVM sergente BOCCA Bruno
MBVM sergente MACCHIAVELLI Massimo
MBVM sergente MASELLI Vito
MBVM sergente SPINELLO Antonio
MBVM caporal maggiore ADDAMIANO Silvano
MBVM caporal maggiore BACCHIANI Luigi
MBVM caporal maggiore CARMINATO Fortunato
MBVM caporale BARILLARO Telemaco
MBVM caporale DE SILVESTRI Rocco
MBVM caporale FENZI Alessandro
MBVM caporale GHINASSI Rinaldo, alla memoria
MBVM caporale RETTORE Antonio
MBVM caporale TANONI Dino
MBVM soldato ALLEGRI Gelsiano
MBVM soldato AMBROSIO Francesco
MBVM soldato BERNARDINELLO Ilario
MBVM soldato CHIEREGATO Attilio
MBVM soldato DE CARIS Gioacchino
MBVM soldato DE GENNARO Giovanni
MBVM soldato FRANCESCON Antonio, alla memoria
MBVM soldato MARZELLA Giuseppe
MBVM soldato PISONI G.Battista, alla memoria
MBVM soldato RAMELLA Lorenzo, alla memoria
MBVM soldato RIGHI Angelo
MBVM soldato SUFFRITTI Guerrino
MBVM soldato TAVAZZI Giuseppe
MBVM soldato VASCO Giovanni
MBVM soldato ZORZIN Mario
CGVM Capitano BALDONI Orfeo
CGVM Capitano CAMPI Pasquale
CGVM Capitano MONTELEONE Lorenzo
CGVM Capitano ROZ Gustavo
CGVM Capitano VISAL Guido
CGVM Tenente ANDREUZZI Federico
CGVM Tenente BROLIS Pier Battista
CGVM Tenente GOBBO GHERBASSI Raim.
CGVM sergente maggiore ANASTASIO Tarcisio
CGVM sergente maggiore GRIGOLATO Bruno
CGVM sergente DI CORRADO Michele
CGVM caporal maggiore BOCCANERA Mario
CGVM caporal maggiore BOIAGO Luigi
CGVM caporal maggiore BUCCHIERI Giuseppe
CGVM caporal maggiore DEL SARTO Adelio
CGVM caporal maggiore FOCANTI Giulio
CGVM caporal maggiore MAGRI Edoardo
CGVM caporal maggiore MUNARON Guerrino
CGVM caporal maggiore SCIARINI Germinano
CGVM caporal maggiore TAMBURINI Diego
CGVM caporale BERNARDI Celeste
CGVM caporale DE VECCHI Nildo
CGVM caporale GUADAGNIN Altinio
CGVM caporale MESCHINI Amedeo
CGVM caporale TONELLI Cesare
CGVM soldato AMBROSI Pietro
CGVM soldato CHIORBOLI Alfredo
CGVM soldato CLERICI Renato
CGVM soldato COLLODEL Giovanni
CGVM soldato CRUCIANELLI Giuseppe
CGVM soldato EVOLA Michele
CGVM soldato GALLINA Ugo
CGVM soldato HAWER Bruno
CGVM soldato MAESTRI Aldo
CGVM soldato MAZZOLA Vincenzo
CGVM soldato MENNA Vincenzo
CGVM soldato PARRON Giuseppe
CGVM soldato PIACENZA Osvaldo
CGVM soldato POMARE' Osvaldo
CGVM soldato PORRO Francesco
CGVM soldato ROMANO Angelo
CGVM soldato SABATO Gaetano
CGVM soldato STABELLINI Werter
CGVM soldato STEFFENINO Luigi
CGVM soldato VIOTTI Guelfo
CGVM soldato ZECCA Francesco
Commissione speciale dell'ONU, parte 1
Pubblico la prima parte di un documento storico di alto interesse, recuperato qualche mese fa dopo svariate ricerche. "Note e documenti riguardanti i militari italiani prigionieri e dispersi i Russia" realizzato dell'Ufficio del delegato italiano presso la Commissione speciale dell'O.N.U. per i prigionieri di guerra, edito nel 1958.
PREMESSA.
Nell'ultimo conflitto mondiale circa un milione e quattrocentomila italiani sono passati per i campi di prigionia e di internamento sparsi in tutto il mondo, in clima ed ambienti eccezionali trattati nelle più strane forme morali e materiali. Dalla Russia Europea alle steppe siberiane, dai campi della Germania e Polonia all'inferno balcanico, dalla Francia alle regioni atlantiche e mediterranee dell'Africa, dalle Americhe alle Isole Hawaj, dall'Inghilterra e Domini dell'Africa, all'India, all'Australia, vigilati da custodi di ogni razza e colore, ove per lunghi anni hanno sofferto umiliazioni e duri sacrifici.
La maggior parte dei prigionieri - quasi i nove decimi del totale - per sua ventura fu detenuta da potenze che, firmatarie della Convenzione Internazionale di Ginevra del 1929, tennero fede agli impegni assunti e furono sollecite nel far conoscere il numero ed i nomi dei prigionieri italiani da esse custoditi, per segnalazioni dirette o tramite le potenze protettrici, oppure attraverso i Delegati della Croce Rossa Internazionale che visitarono i campi di concentramento. Ciò servi a tranquillizzare migliaia di famiglie italiane, che per qualche tempo avevano vissuto in angosciosa attesa di notizie e dette poi ad esse la possibilità di corrispondere con i congiunti lontani, ai quali fu anche consentito di far giungere pacchi con indumenti e viveri. Tutti questi prigionieri italiani - salvo quelli rimasti volontariamente per ragioni di lavoro e pochi deceduti per malattie e cause accidentali, circa il 3% in cinque anni di prigionia, - rimpatriarono entro due anni dal termine delle ostilità.
Meno fortunati furono quelli internati nei paesi balcanici, dei quali per lungo tempo non si poté conoscere né il numero né i nomi. Una attenuante di questa dolorosa incertezza poté essere ricercata nella causa degli avvenimenti dell'8 settembre 1943 durante i quali non fu possibile seguire le peripezie dei nostri militari dislocati in Balcania, molti dei quali, riusciti a sfuggire alla cattura tedesca, perplessi ed indecisi, si sbandarono in ogni dove, peregrinando in paese in paese. Comunque dopo la fine della guerra e dopo la restituzione di gran parte di essi da parte degli Stati detentori, si potò stabilire con larga approssimazione il numero dei nostri militari catturati prigionieri, quelli di essi deceduti nei campi e quelli trattenuti, che furono in seguito rimpatriati, ad eccezione di poche persone - civili e militari - sulla cui restituzione operarono le nostre autorità consolari. La sorte più tragica, perché mai conosciuta, fu riservata ai nostri militari dell'ARMIR combattenti sul fronte russo e non scampati ai tragici eventi della battaglia del Don.
CAPITOLO I.
L'Armata Italiana in Russia, all'inizio della battaglia del Don - 11 dicembre 1942 - era forte di circa 220.000 uomini inquadrati in 3 divisioni alpine, una divisione celere, 6 divisioni di fanteria e truppe e servizi dell'Armata, schierate tutte nella grande ansa del Don. La violenza e la durata della battaglia, la superiorità delle forze nemiche, la eroica resistenza dei nostri reparti, le dure condizioni climatiche ed il ripiegamento sotto la costante pressione avversaria costarono perdite rilevanti in uomini e materiali. Al termine della battaglia - 31 gennaio 1943 - le perdite dell'Armata furono di 30.000 fra congelati e feriti e di circa 85.000 fra morti e dispersi. Al rientro in Italia dei superstiti dell'Armata, attraverso la segnalazione dei reparti si poté stabilire che i caduti in combattimento, potuti constatare e documentare, ammontavano a poco più di 11 mila unità e dei rimanenti mancanti non fu possibile stabilire quanti fossero i dispersi e quanti quelli catturati prigionieri.
Solo nel 1945 il Governo sovietico, tramite la nostra Ambasciata a Mosca, comunicò di aver deciso di liberare e di rimpatriare circa 20.000 prigionieri italiani. La liberazione ed il rimpatrio avvenivano in due tempi a cura delle autorità alleate in Germania ed in Austria, che ricevettero da quelle sovietiche in consegna i prigionieri italiani numericamente, senza una lista nominativa. Rimpatriarono cosi fra il 1945 ed il 1946 effettivamente 21.065 prigionieri italiani restituiti dalla Russia, però al censimento fatto presso i centri alloggio, assistenza e smistamento in Italia, risultò che solo 10.030 di essi erano militari già appartenenti all'ARMIR catturati dalle truppe russe nella battaglia del Don ed internati in campi di concentramento dell'U.R.S.S., mentre i rimanenti 11.035 erano militari già prigionieri dei tedeschi ed internati nella zona della Germania occupata dai russi, da questi liberati e restituiti.
PREMESSA.
Nell'ultimo conflitto mondiale circa un milione e quattrocentomila italiani sono passati per i campi di prigionia e di internamento sparsi in tutto il mondo, in clima ed ambienti eccezionali trattati nelle più strane forme morali e materiali. Dalla Russia Europea alle steppe siberiane, dai campi della Germania e Polonia all'inferno balcanico, dalla Francia alle regioni atlantiche e mediterranee dell'Africa, dalle Americhe alle Isole Hawaj, dall'Inghilterra e Domini dell'Africa, all'India, all'Australia, vigilati da custodi di ogni razza e colore, ove per lunghi anni hanno sofferto umiliazioni e duri sacrifici.
La maggior parte dei prigionieri - quasi i nove decimi del totale - per sua ventura fu detenuta da potenze che, firmatarie della Convenzione Internazionale di Ginevra del 1929, tennero fede agli impegni assunti e furono sollecite nel far conoscere il numero ed i nomi dei prigionieri italiani da esse custoditi, per segnalazioni dirette o tramite le potenze protettrici, oppure attraverso i Delegati della Croce Rossa Internazionale che visitarono i campi di concentramento. Ciò servi a tranquillizzare migliaia di famiglie italiane, che per qualche tempo avevano vissuto in angosciosa attesa di notizie e dette poi ad esse la possibilità di corrispondere con i congiunti lontani, ai quali fu anche consentito di far giungere pacchi con indumenti e viveri. Tutti questi prigionieri italiani - salvo quelli rimasti volontariamente per ragioni di lavoro e pochi deceduti per malattie e cause accidentali, circa il 3% in cinque anni di prigionia, - rimpatriarono entro due anni dal termine delle ostilità.
Meno fortunati furono quelli internati nei paesi balcanici, dei quali per lungo tempo non si poté conoscere né il numero né i nomi. Una attenuante di questa dolorosa incertezza poté essere ricercata nella causa degli avvenimenti dell'8 settembre 1943 durante i quali non fu possibile seguire le peripezie dei nostri militari dislocati in Balcania, molti dei quali, riusciti a sfuggire alla cattura tedesca, perplessi ed indecisi, si sbandarono in ogni dove, peregrinando in paese in paese. Comunque dopo la fine della guerra e dopo la restituzione di gran parte di essi da parte degli Stati detentori, si potò stabilire con larga approssimazione il numero dei nostri militari catturati prigionieri, quelli di essi deceduti nei campi e quelli trattenuti, che furono in seguito rimpatriati, ad eccezione di poche persone - civili e militari - sulla cui restituzione operarono le nostre autorità consolari. La sorte più tragica, perché mai conosciuta, fu riservata ai nostri militari dell'ARMIR combattenti sul fronte russo e non scampati ai tragici eventi della battaglia del Don.
CAPITOLO I.
L'Armata Italiana in Russia, all'inizio della battaglia del Don - 11 dicembre 1942 - era forte di circa 220.000 uomini inquadrati in 3 divisioni alpine, una divisione celere, 6 divisioni di fanteria e truppe e servizi dell'Armata, schierate tutte nella grande ansa del Don. La violenza e la durata della battaglia, la superiorità delle forze nemiche, la eroica resistenza dei nostri reparti, le dure condizioni climatiche ed il ripiegamento sotto la costante pressione avversaria costarono perdite rilevanti in uomini e materiali. Al termine della battaglia - 31 gennaio 1943 - le perdite dell'Armata furono di 30.000 fra congelati e feriti e di circa 85.000 fra morti e dispersi. Al rientro in Italia dei superstiti dell'Armata, attraverso la segnalazione dei reparti si poté stabilire che i caduti in combattimento, potuti constatare e documentare, ammontavano a poco più di 11 mila unità e dei rimanenti mancanti non fu possibile stabilire quanti fossero i dispersi e quanti quelli catturati prigionieri.
Solo nel 1945 il Governo sovietico, tramite la nostra Ambasciata a Mosca, comunicò di aver deciso di liberare e di rimpatriare circa 20.000 prigionieri italiani. La liberazione ed il rimpatrio avvenivano in due tempi a cura delle autorità alleate in Germania ed in Austria, che ricevettero da quelle sovietiche in consegna i prigionieri italiani numericamente, senza una lista nominativa. Rimpatriarono cosi fra il 1945 ed il 1946 effettivamente 21.065 prigionieri italiani restituiti dalla Russia, però al censimento fatto presso i centri alloggio, assistenza e smistamento in Italia, risultò che solo 10.030 di essi erano militari già appartenenti all'ARMIR catturati dalle truppe russe nella battaglia del Don ed internati in campi di concentramento dell'U.R.S.S., mentre i rimanenti 11.035 erano militari già prigionieri dei tedeschi ed internati nella zona della Germania occupata dai russi, da questi liberati e restituiti.
domenica 11 aprile 2021
Il viaggio del 2011, steppa a Novo Georgiewskij
Immagini del mio primo viaggio "esplorativo" effettuato nel 2011... la steppa fuori Novo Georgiewskij.
La Tagliamento da Legione a Gruppo
LA TAGLIAMENTO DA LEGIONE A GRUPPO (dicembre - aprile 1942).
Il 9 maggio 1942 il gen. Messe in un messaggio agli ufficiali, sottufficiali, caporali, soldati camicie nere del C.S.I.R. scriveva: "Le grandi, memorabili imprese che avete compiute rinverdendo la gloria delle bandiere, degli stendardi, dei labari, delle insegne che la Patria vi ha affidato, hanno arricchito la storia militare italiana di pagine che splendono di vivida luce nei fasti della Nazione".
Ancor sino a pochi giorni prima le Camicie nere erano rappresentate sul fronte russo soltanto dalla legione "Tagliamento" (un reggimento), il cui labaro sarà decorato con la medaglia d'oro. Il 24 aprile infatti, la legione, come tale, aveva chiuso il suo breve, sanguinoso, vittorioso, ciclo guerriero; nello stesso giorno era nato il Gruppo CC.NN. "Tagliamento" (una brigata) che, nella mutata fortuna della guerra, continuò la tradizione di valore e di umanità della piccola formazione primogenita. Quest'ultima, in una quasi ininterrotta serie di combattimenti contro un nemico superiore per numero, coraggioso e perfettamente armato, all'indomani della battaglia di Natale (24 dicembre 1941 - 26 gennaio 1942) avendo avuto centinaia di morti, feriti e congelati, era ridotta allo stremo delle forze. Rimaneva integro lo spirito: senso del dovere e dell'onore militare, lealtà verso il nemico, rispetto e anzi cordialità per le popolazioni dei luoghi occupati.
Quando quel gelido, ventoso 22 marzo 1942 a Mikailowska, presente il gen. Marazzani comandante della Celere, il cappellano don Biasutti benedì il Camposanto dove erano state raccolte le salme dei Caduti di Natale, una piccola folla di donne, ragazze e bimbi, accorsi anche da villaggi vicini, chiese di assistere al rito. Non li spingeva soltanto curiosità; il caposquadra Valle, interprete, interrogate alcune donne, tradusse: "I soldati italiani sono sempre stati buoni con noi". A Mikailowska aveva infuriato la battaglia, come a Krestowka, a Malo Orlowka, a Nowo Orlowka e poi a quota 331,7 ed a Woroscilowa. La battaglia non era inattesa. Il 9 dicembre il gen. Messe aveva comunicato ai comandi dipendenti: "L'alleato è in grave, se momentanea, crisi. Il C.S.I.R. deve occupare e tenere il contrafforte su cui corre la ferrovia Debalzewo-Rassypnaja, saldando i contatti le Grandi Unità germaniche laterali. Impegno tutti al massimo sforzo".
Il 10, l'11, il 12, il 13 dicembre arditi colpi di mano russi contro caposaldi e blocchi della legione erano stati respinti con perdite dalle due parti. Il 12 era stato gravemente ferito il centurione Pigozzi. Tutte le nostre ricognizioni esplorative avevano accertato grandi movimenti di truppe nemiche. Sulla linea più avanzata del C.S.I.R. il settore del vice comandante della Celere, col. Lombardi i.g.s., era tenuto dalla legione, dal 18° Btg. del III° bersaglieri, dal gruppo 75/27 del Bgt. artiglieria a cavallo, da uno squadrone del Savoia Cavalleria: Nella notte del 23 venne l'ordine: "Tenersi pronti a difendere ad oltranza le località occupate".
Quelle località erano in un certo senso gli estremi avamposti di Stalino. Perderle, significava aprire al nemico la strada verso il cuore dell'Ucraina. Furono tenute. Poi la legione andò, più avanti, sino a Woroscilowa che espugnò e mantenne; e quando al ritorno i superstiti passarono per Iwanoka un maggiore tedesco ordinò ad un suo drappello di presentare le armi e disse al Console Nicchiarelli che per gli italiani di Woroscilowa bisognava creare un vocabolo nuovo: disse "panzer soldaten" intendendo dire soldati d'acciaio. É difficile dare un'idea di Woroscilowa. Un ufficiale della legione, il cent. Avenati, testimone oculare, ne fece più tardi una descrizione fedele, obbiettiva su "La Stampa" di Torino: "W. non è un paese, è - letteralmente - un buco, uno conchiglia gigantesca e cupa fra quote e balke... Ero un kolkos (magazzino) per la raccolta di bestiame, derrate, arnesi di lavori. Qualche capannone, qualche casa ad un piano, ora semidistrutti. L'unica risorsa locale è un pozzo, ma per attingervi l'acqua bisognava spezzare con il calcio dei moschetti il lastrone di ghiaccio che ne ricopre permanentemente la bocca. Le poche slitte disponibili - sempre bersagliate dal nemico - ci portano i viveri. Non arrivando le slitte, si mangiano i resti dei cavalli trovati uccisi sul posto e la cui carne, data la temperatura che oscilla tra i 30 e i 40 sotto zero con una punta sui 42, si conserva ottimamente. Per i turni di guardia a quota 331,7 si percorrono 800 metri, che abbiamo definito la pista della morte. La prova di scavare camminamenti, ricoveri, ecc., è fallito giacché le stesse mine scalfiscono appena la dura crosta di ghiaccio. Ogni giorno e, naturalmente, ogni notte siamo in allarme. Qui i legionari combattono duramente".
Ora il fiore di quei prodi era li, sotto la bruna terra del cimitero di Mikailowska. C'era la camicia nera scelta Garofolo, porta-treppiede, che a Orlowka, subito colpito mortalmente, poi ferito alla coscia, continuò a far fuoco finché l'arma si inceppò ed allora si trascinò fuori dalla postazione e lanciò bombe a mano sino all'istante supremo. C'era il leggendario cent. Luigi Mutti che ferito a morte, volle rimanere fra i commilitoni e disse di essere contento di sacrificarsi per l'Italia: "Bella Italia, muoio per lei - disse. Salutatemi la cara Patria". Ed ecco i capomanipoli Sandrigo, Meoli, Mazzocchi tutti caduti con l'arma in pugno; ecco la croce su cui si legge il nome del sottotenente Ezio Prigelio. Era di Trieste, era il più giovane degli ufficiali, apparteneva al Btg. Armi accompagnamento, e precedette nel cielo degli eroi il suo comnadante, ten. col. De Franco, morto in Italia, appena rimpatriato, per postumi di guerra. Qui due mitraglieri: l'uno ferito, volle rimanere all'arma dicendo: "Ho ancora qualche nastro...". Furono le sue ultime parole. L'altro, un piemontese, colpito in fronte spirò con stoica semplicità; disse: "Toca a mi" (tocca a me). Una a fianco all'altra le tombe del cent. Gentile e del capomanipolo Barale. Il primo era sostituto procuratore del Re, aveva moglie e due figli. Colpito a morte, al suo comandante, primo seniore Patroncini, disse: "Sono felice di dar la vita per l'Italia". Poi chiese che gli cercassero nel portafogli la fotografia dei famigliari, la baciò e si fece il segno della Croce. I legionari dissero ch'era morto un santo. Del capo manipolo Barale, il suo attendente, Mantello scriverà: "Per tutto il giorno è stato un vero eroe, cioè, in termini nostri, un leone. Morì in un a corpo a corpo all'arma bianca".
E gli altri, i cento altri! Il cons. Nicchiarelli ne lesse i nomi, estremo appello e saluto. Poi nomi non detti, altre immagini fraterne balenarono alle menti tra il sibilo del vento, il tuonar dei cannoni, il rombo dei velivoli nemici. Era come se fossero davvero tutti lì raccolti, i morti di prima e di dopo Natale, i caduti per ferro, fuoco, gelo, in otto mesi di campagna. Praticamente per la legione il ciclo operativo di Natale non si concluse che col febbraio del '42. "Qui rimangono duecento leoni", aveva detto la sera del 9 gennaio il primo seniore Zuliani, comandante del 63°. Niente retorica, nessuna esagerazione in quelle parole superbe. Lo dimostrò la giornata del 18 quando fu respinto l'attacco in forza dei russi; lo dimostrò la giornata del 25 quando una Cp. formata coi resti del 79° Btg., in fraterna gara di valore con i bersaglieri del III° attaccò arditamente il nemico. Di tutti quelli della "Tagliamento" - Camicie nere e fanti - si deve dire che tennero fede alla consegna servendo con onore la Bandiera.
Il 9 maggio 1942 il gen. Messe in un messaggio agli ufficiali, sottufficiali, caporali, soldati camicie nere del C.S.I.R. scriveva: "Le grandi, memorabili imprese che avete compiute rinverdendo la gloria delle bandiere, degli stendardi, dei labari, delle insegne che la Patria vi ha affidato, hanno arricchito la storia militare italiana di pagine che splendono di vivida luce nei fasti della Nazione".
Ancor sino a pochi giorni prima le Camicie nere erano rappresentate sul fronte russo soltanto dalla legione "Tagliamento" (un reggimento), il cui labaro sarà decorato con la medaglia d'oro. Il 24 aprile infatti, la legione, come tale, aveva chiuso il suo breve, sanguinoso, vittorioso, ciclo guerriero; nello stesso giorno era nato il Gruppo CC.NN. "Tagliamento" (una brigata) che, nella mutata fortuna della guerra, continuò la tradizione di valore e di umanità della piccola formazione primogenita. Quest'ultima, in una quasi ininterrotta serie di combattimenti contro un nemico superiore per numero, coraggioso e perfettamente armato, all'indomani della battaglia di Natale (24 dicembre 1941 - 26 gennaio 1942) avendo avuto centinaia di morti, feriti e congelati, era ridotta allo stremo delle forze. Rimaneva integro lo spirito: senso del dovere e dell'onore militare, lealtà verso il nemico, rispetto e anzi cordialità per le popolazioni dei luoghi occupati.
Quando quel gelido, ventoso 22 marzo 1942 a Mikailowska, presente il gen. Marazzani comandante della Celere, il cappellano don Biasutti benedì il Camposanto dove erano state raccolte le salme dei Caduti di Natale, una piccola folla di donne, ragazze e bimbi, accorsi anche da villaggi vicini, chiese di assistere al rito. Non li spingeva soltanto curiosità; il caposquadra Valle, interprete, interrogate alcune donne, tradusse: "I soldati italiani sono sempre stati buoni con noi". A Mikailowska aveva infuriato la battaglia, come a Krestowka, a Malo Orlowka, a Nowo Orlowka e poi a quota 331,7 ed a Woroscilowa. La battaglia non era inattesa. Il 9 dicembre il gen. Messe aveva comunicato ai comandi dipendenti: "L'alleato è in grave, se momentanea, crisi. Il C.S.I.R. deve occupare e tenere il contrafforte su cui corre la ferrovia Debalzewo-Rassypnaja, saldando i contatti le Grandi Unità germaniche laterali. Impegno tutti al massimo sforzo".
Il 10, l'11, il 12, il 13 dicembre arditi colpi di mano russi contro caposaldi e blocchi della legione erano stati respinti con perdite dalle due parti. Il 12 era stato gravemente ferito il centurione Pigozzi. Tutte le nostre ricognizioni esplorative avevano accertato grandi movimenti di truppe nemiche. Sulla linea più avanzata del C.S.I.R. il settore del vice comandante della Celere, col. Lombardi i.g.s., era tenuto dalla legione, dal 18° Btg. del III° bersaglieri, dal gruppo 75/27 del Bgt. artiglieria a cavallo, da uno squadrone del Savoia Cavalleria: Nella notte del 23 venne l'ordine: "Tenersi pronti a difendere ad oltranza le località occupate".
Quelle località erano in un certo senso gli estremi avamposti di Stalino. Perderle, significava aprire al nemico la strada verso il cuore dell'Ucraina. Furono tenute. Poi la legione andò, più avanti, sino a Woroscilowa che espugnò e mantenne; e quando al ritorno i superstiti passarono per Iwanoka un maggiore tedesco ordinò ad un suo drappello di presentare le armi e disse al Console Nicchiarelli che per gli italiani di Woroscilowa bisognava creare un vocabolo nuovo: disse "panzer soldaten" intendendo dire soldati d'acciaio. É difficile dare un'idea di Woroscilowa. Un ufficiale della legione, il cent. Avenati, testimone oculare, ne fece più tardi una descrizione fedele, obbiettiva su "La Stampa" di Torino: "W. non è un paese, è - letteralmente - un buco, uno conchiglia gigantesca e cupa fra quote e balke... Ero un kolkos (magazzino) per la raccolta di bestiame, derrate, arnesi di lavori. Qualche capannone, qualche casa ad un piano, ora semidistrutti. L'unica risorsa locale è un pozzo, ma per attingervi l'acqua bisognava spezzare con il calcio dei moschetti il lastrone di ghiaccio che ne ricopre permanentemente la bocca. Le poche slitte disponibili - sempre bersagliate dal nemico - ci portano i viveri. Non arrivando le slitte, si mangiano i resti dei cavalli trovati uccisi sul posto e la cui carne, data la temperatura che oscilla tra i 30 e i 40 sotto zero con una punta sui 42, si conserva ottimamente. Per i turni di guardia a quota 331,7 si percorrono 800 metri, che abbiamo definito la pista della morte. La prova di scavare camminamenti, ricoveri, ecc., è fallito giacché le stesse mine scalfiscono appena la dura crosta di ghiaccio. Ogni giorno e, naturalmente, ogni notte siamo in allarme. Qui i legionari combattono duramente".
Ora il fiore di quei prodi era li, sotto la bruna terra del cimitero di Mikailowska. C'era la camicia nera scelta Garofolo, porta-treppiede, che a Orlowka, subito colpito mortalmente, poi ferito alla coscia, continuò a far fuoco finché l'arma si inceppò ed allora si trascinò fuori dalla postazione e lanciò bombe a mano sino all'istante supremo. C'era il leggendario cent. Luigi Mutti che ferito a morte, volle rimanere fra i commilitoni e disse di essere contento di sacrificarsi per l'Italia: "Bella Italia, muoio per lei - disse. Salutatemi la cara Patria". Ed ecco i capomanipoli Sandrigo, Meoli, Mazzocchi tutti caduti con l'arma in pugno; ecco la croce su cui si legge il nome del sottotenente Ezio Prigelio. Era di Trieste, era il più giovane degli ufficiali, apparteneva al Btg. Armi accompagnamento, e precedette nel cielo degli eroi il suo comnadante, ten. col. De Franco, morto in Italia, appena rimpatriato, per postumi di guerra. Qui due mitraglieri: l'uno ferito, volle rimanere all'arma dicendo: "Ho ancora qualche nastro...". Furono le sue ultime parole. L'altro, un piemontese, colpito in fronte spirò con stoica semplicità; disse: "Toca a mi" (tocca a me). Una a fianco all'altra le tombe del cent. Gentile e del capomanipolo Barale. Il primo era sostituto procuratore del Re, aveva moglie e due figli. Colpito a morte, al suo comandante, primo seniore Patroncini, disse: "Sono felice di dar la vita per l'Italia". Poi chiese che gli cercassero nel portafogli la fotografia dei famigliari, la baciò e si fece il segno della Croce. I legionari dissero ch'era morto un santo. Del capo manipolo Barale, il suo attendente, Mantello scriverà: "Per tutto il giorno è stato un vero eroe, cioè, in termini nostri, un leone. Morì in un a corpo a corpo all'arma bianca".
E gli altri, i cento altri! Il cons. Nicchiarelli ne lesse i nomi, estremo appello e saluto. Poi nomi non detti, altre immagini fraterne balenarono alle menti tra il sibilo del vento, il tuonar dei cannoni, il rombo dei velivoli nemici. Era come se fossero davvero tutti lì raccolti, i morti di prima e di dopo Natale, i caduti per ferro, fuoco, gelo, in otto mesi di campagna. Praticamente per la legione il ciclo operativo di Natale non si concluse che col febbraio del '42. "Qui rimangono duecento leoni", aveva detto la sera del 9 gennaio il primo seniore Zuliani, comandante del 63°. Niente retorica, nessuna esagerazione in quelle parole superbe. Lo dimostrò la giornata del 18 quando fu respinto l'attacco in forza dei russi; lo dimostrò la giornata del 25 quando una Cp. formata coi resti del 79° Btg., in fraterna gara di valore con i bersaglieri del III° attaccò arditamente il nemico. Di tutti quelli della "Tagliamento" - Camicie nere e fanti - si deve dire che tennero fede alla consegna servendo con onore la Bandiera.
giovedì 8 aprile 2021
La guerra sul fronte orientale, parte 4
Senza altra finalità se non quella della condivisione storica e militare, pubblico questo quarto video sugli orrori della guerra in generale e sul fronte orientale in particolare.
Il processo D'Onofrio, parte 5
Il processo D'Onofrio, quinta parte. Premetto un aspetto molto importante che ha sempre contraddistinto questa pagina: a volte si toccano argomenti scottanti ed ancora oggi delicati; quello che qui tratterò è forse uno dei più significativi da questo punto di vista. Ma detto questo sottolineo che quanto andrò a riportare NON ha alcun fine politico o di parte, ma esclusivamente storico. Sono fatti relativi alla Campagna di Russia ed alle sue conseguenze e come tali vengono riportati. Qualsiasi commento inopportuno da una parte e dall'altra verrà immediatamente cancellato. Chiedo a chi segue la pagina di esporre la propria idea con educazione e rispetto verso chi magari espone pensieri opposti: la storia e non solo la storia ha già condannato chi mandò quei sfortunati ragazzi in Russia e chi contribuì a tenerli più del dovuto.
LA SESTA UDIENZA.
Nessuna tregua, non un attimo di respiro, né la possibilità di prendere la minima iniziativa, ha dato il primo teste escusso oggi 28 maggio 1949, con la valanga di precise accuse che ha rovesciato sul capo del senatore D'Onofrio. Don Enelio Franzoni, cappellano della Divisione Pasubio, catturato nel dicembre del 1942, proposto per la medaglia d’oro sul campo, prima di cominciare la sua deposizione, ha guardato fisso negli occhi, con uno sguardo sicuro e leale, il querelante. E poi ha iniziato la narrazione dei numerosi interrogatori subiti da parte del Fiammenghi, del D'Onofrio e prima ancora dal Robotti che lo assillò con le solite domande sul perché fosse venuto a fare la guerra in Russia e sul perché mai l'esercito non si ribellasse, ricordandogli, a conclusione, la storia di Napoleone e della campagna di Russia: 'In Russia si va, ma non si torna', commentò il fuoruscito.
Don Franzoni: 'Fui fatto entrare in una stanza nel campo di Oranki, poco prima del 25 luglio 1943, dove trovai, insieme al D'Onofrio, Fiammenghi e il maggiore russo Orloff. Un soldato russo chiuse la porta alle mie spalle e rimase fuori di piantone. D'Onofrio m'invitò prima a sedere, e poi volle sapere le mie generalità e dove avessi esercitato il ministero religioso in Italia. Risposi che ero insegnante al seminario di Bologna'.
Presidente: 'Scriveva qualche cosa il D'Onofrio, durante questo colloquio?'.
Don Franzoni: 'Sì, prendeva degli appunti e il magg. Orloff faceva la stessa cosa. Mi chiese poi quali fossero le mie idee politiche e malgrado rispondessi che, come sacerdote, non potevo avere idee politiche, insistette dicendo, fra l’altro, che oltre ad essere sacerdote ero anche cittadino. Ancora una volta replicai che un cappellano militare non può avere idee politiche, ma lui non si dette per inteso: voleva ad ogni costo che gli rispondessi. Ma visto che a quel modo non riusciva ad ottenere una risposta, tentò un’altra strada e cominciò a dirmi che, ovviamente, come cappellano dovevo almeno conoscere le idee degli altri ufficiali. Rimasi offeso da queste parole. D'Onofrio voleva abusare della mia qualità e servirsene per i suoi scopi. Mi guardai bene, perciò, dal rispondere ad una domanda tanto maligna e insinuante.
Ma non era ancora finito: l'interrogatorio si protrasse per altre due ore. D'Onofrio cambiò argomento e mi parlò della Patria lontana e della famiglia. Mi chiese se desideravo rivedere la mia famiglia. Certo, aggiunse, se volevo rivederla era necessario che mi allineassi ai nuovi tempi. Nelle sue parole non stentai a riconoscere una aperta minaccia.
Un giorno, mentre ero ancora al campo di Tamboff, ebbi ordine dal comandante russo di scrivere una lettera al Papa, nella quale dovevo consigliarlo sull’andamento della guerra suggerendogli di cercare di por fine ad essa. Io scrissi a Sua Santità pregandola di aiutarci, ma non feci cenno alcuno al suggerimento che m'era stato dato dal comandante russo, il quale, dopo aver letto la lettera disse che non andava bene e me la fece riscrivere daccapo. In sostanza tornai a scrivere le stesse cose, ampliandole con giri di parole, ma non nel senso desiderato dall'ufficiale russo. Comunque, prima di consegnarla, la lessi agli ufficiali ed ebbi la loro approvazione.
È assolutamente falso che io nella lettera abbia esaltato la Unione Sovietica, come asserì il D'Onofrio all'epoca della polemica avuta con il 'Risorgimento Liberale'. Non avrei certamente potuto farlo mentre attorno a me, per fame e per freddo, morivano ad uno ad uno i miei uomini'.
Il tenente degli alpini Mario Braga dichiara che nel campo di Susdal incontrò il cap. Magnani, proveniente dal campo di Elabuga, il quale gli disse di essere stato informato dai sovietici stessi che si trovava in quel campo in seguito a segnalazione del signor D'Onofrio e del magg. Orloff.
L’affermazione del teste provoca un vivace scambio di frasi fra l'avv. Taddei e i due avvocati di parte civile i quali sostengono che il teste, in una sua precedente deposizione scritta, non aveva accennato alla circostanza ora citata e chiedono l'incriminazione del teste. Il quale, intervenendo nel battibecco, spiega che non accennò allora alla circostanza in questione perché temeva che, facendo il nome del cap. Magnani ancora prigioniero, potesse in qualche modo danneggiarlo. Siccome il Magnani è stato citato più volte in quest’aula, oggi sente il dovere di dire tutta la verità.
Prima che salga sulla pedana l'altro testimone, il tenente degli alpini Carlo Colombo, nasce un secondo incidente. L'avv. Taddei presenta al tribunale una foto nella quale è ritratto il corpo di un bersagliere spaventosamente mutilato dai soldati russi all'atto della cattura. È il corpo della medaglia d’oro alla memoria Guido Cassinelli il quale rimase abbarbicato alla sua mitragliatrice fino a che, sparato l'ultimo colpo, i russi non riuscirono a farlo prigioniero ancora al suo posto di combattimento. Avv. Sotgiu: 'Mi oppongo che la fotografia venga allegata agli atti. Essa esula dalla materia del processo'.
L'avv. Taddei insiste. Il Presidente consente che la fotografia, esibita dalla difesa, circoli nell’aula per sola visione.
Avv. Taddei: 'Però i criminali di guerra erano i bersaglieri...'.
Chiuso l'incidente il ten. Colombo può dire che nel campo di Susdal incontrò la signora Torre che fungeva da interprete. Le chiese di aiutarlo a far pervenire una sua lettera alla famiglia, ma la Torre, sorridendo, rispose che la posta era un 'dono che bisognava saper contraccambiare'. Anche il ten. Colombo parla a lungo del cap. Magnani ribadendo quanto già è stato detto da tutti gli altri testi.
Aggiunge solo che il capitano gli disse: 'Se alla fine della guerra io non tornerò più in Italia, lei può attribuire pubblicamente la colpa di ciò al signor D'Onofrio...'.
Ultimo teste della difesa il tenente dei Carabinieri Francesco Mantineo, anch’egli internato nel campo di Susdal, dove conobbe quasi tutti gli ufficiali che non hanno fatto ritorno. Cita, fra gli altri, il gen. Battisti, il magg. Massa, il magg. Zigiotti, don Brevi, il cap. Magnani. Questi gli raccontò degli snervanti interrogatori ai quali era stato sottoposto dal D'Onofrio che il Magnani stesso chiamava 'il Giuda'. Il teste dichiara che il Magnani gli disse allora: 'Se avrò la fortuna di ritornare in Patria, cosa che mi sembra difficile, ne racconterò delle belle sul conto di questo signore'.
L'udienza è finita. Il sen. D'Onofrio raccoglie con cura le proprie cartelle, gli appunti che prende continuamente. Un vago sorriso increspa le sue labbra mentre si allontana dall’aula. Da lunedì la valanga delle accuse si arresterà e alle sue orecchie suoneranno soltanto parole amiche: per una settimana.
LA SETTIMA UDIENZA.
30 maggio 1949 - Prima che comincino ad avvicendarsi sulla pedana coloro che sono stati chiamati a dimostrare la falsità delle accuse lanciate contro il sen. D'Onofrio, il querelante deve ascoltare ancora la voce, non certo gradita, del ten. Giuseppe Cangiano della Divisione Torino, il quale non fece in tempo a deporre nella udienza precedente.
L’ultimo teste addotto dalla difesa ha raccontato che nel campo di Kiev, dove aveva conosciuto il cap. Magnani proveniente da Elabuga, fu invitato a sottoscrivere una dichiarazione nella quale si diceva pressappoco: 'Il capitano Magnani e il tenente Giuseppe Ioli sono colpevoli dei massacri contro le popolazioni civili russe; sono colpevoli dell’incendio delle chiese russe; sono fascisti irriducibili. Essi perciò dovranno essere eliminati perché diversamente continueranno la loro opera nefasta'. La dichiarazione, nella quale si aggiungeva che la morte dei prigionieri italiani nei campi di concentramento era avvenuta per malattie da essi contratte prima della cattura, era redatta in lingua italiana e recava, in calce, due firme...
D'Onofrio: 'Lo dica pure... Una delle firme era la mia...'.
Cangiano: 'Infatti, stavo per dirlo. Delle due firme l’una era di un certo cap. Gullino e l'altra era quella del D'Onofrio. La dichiarazione era assolutamente falsa ed io naturalmente mi rifiutai di firmarla anche perché in essa si diceva che io avevo la certezza delle accuse ed ero a conoscenza degli episodi citati.
Fui rinchiuso in carcere per due mesi e, scontata la pena, nuovamente chiamato e nuovamente invitato a sottoscrivere la dichiarazione. Era il 26 dicembre del 1946. Al mio rifiuto, un soldato russo mi legò ad una sedia. Poi insieme ad un capitano sovietico cominciò, per ordine di quello, a picchiarmi a schiaffi, a calci, a pugni. Il capitano usava una riga di ferro. Ad un certo punto l'ufficiale mi disse: 'Ma insomma perché lei si ostina a fare il martire? I veri italiani, non hanno esitato a firmare'. Mi rifiutai ancora e loro ricominciarono a percuotermi finché non svenni'.
D'Onofrio: 'È falso. Tutto falso. Non ho mai fatto dichiarazioni del genere. Ho conosciuto il cap. Gullino nel campo di Skit, ma non ho parlato con lui di crimini di guerra. Per principio aborrisco la guerra e non avrei un attimo di esitazione nel denunciare chiunque di tali crimini si fosse macchiato. Ma non ho mai saputo che il cap. Magnani o il ten. Ioli abbiano commesso azioni del genere. Del resto io al fronte russo non ci sono mai stato'.
Avv. Mastino Del Rio: 'Se al D'Onofrio fossero stati noti crimini di guerra commessi da militari russi, li avrebbe, egli, denunciati?'.
D'Onofrio: 'Pubblicamente. Ma non mi è mai risultato che soldati russi abbiano commesso crimini di guerra'.
Prima che sia introdotto il primo teste della parte civile, l’avvocato Taddei ha fatto sapere al Collegio che la federazione comunista di Parma, prima che avesse inizio il processo, fece delle indagini presso i suoi organizzati allo scopo di sapere tutto quello che era possibile sul conto del signor Luigi Avalli, uno degli imputati: le sue idee politiche, quale fu il suo comportamento prima dell’8 settembre 1943 e dopo tale data e dopo il suo rientro dalla prigionia. Evidentemente la difesa ha voluto rendere la pariglia a quanto aveva detto in precedenza la parte civile a proposito di una circolare che l'Unione Reduci dalla Russia inviò a tutti i commilitoni per sollecitare testimonianze da servire nell'attuale processo. Ed è cominciata la serie dei testimoni addotti dal querelante.
Il primo è un ufficiale d'artiglieria Alessandro D’Alessandro che fu nei campi di Tamboff e Susdal.
D'Alessandro: 'Avevamo una certa libertà e, se è vero che durante i primi tempi della prigionia il morale era molto depresso e le cose andavano piuttosto male, è pur vero che a poco a poco notammo un certo generale miglioramento della situazione. Nel campo potevamo servirci di una biblioteca discretamente fornita di libri di letteratura e di politica...'.
'Per compensare la mancanza del cibo necessario per vivere' s’è inteso gridare da qualcuno del pubblico.
D'Alessandro: 'Cominciai a farmi una cultura politica e mi convertii all'antifascismo e osservai come il commissario politico del campo si prodigasse per migliorare sempre più le condizioni dei prigionieri'.
Presidente: 'Conobbe, lei, il D'Onofrio durante la sua permanenza al campo di Susdal?'.
D'Alessandro: 'No. Durante la mia permanenza in terra di Russia non vidi mai Edoardo D'Onofrio. Ho conosciuto il senatore soltanto al mio ritorno in Italia'.
Avv. Mastino Del Rio: 'Quanti morti vi furono a Valuiki?'.
D’Alessandro: 'Nella mia baracca perirono 15 uomini su 60 occupanti'.
Avv. Mastino del Rio: 'E a Tamboff?'.
D’Alessandro: 'A Tamboff le condizioni divennero più critiche e la percentuale dei morti crebbe'.
Il teste cade in contraddizioni evidenti, dimenticando che poco prima ha parlato di progressivo 'generale miglioramento della situazione nei campi'.
Avv. Taddei: 'Il teste, per caso, è iscritto al partito comunista italiano?'.
Avv. Paone: 'Abbiamo chiesto, noi, ai vostri testi se erano iscritti al movimento sociale italiano?'.
Il Presidente taglia corto dichiarando non valida la domanda e il teste viene congedato. È la volta di un caporale di fanteria, Luigi Leggeri, il quale teste fu inviato in quella scuola per premio: aveva esaltato la vittoria delle armi russe. Ricorda soltanto i nomi di Fiammenghi e di Vella, come insegnanti; nella scuola si studiava il movimento operaio e l'insegnamento era improntato a criteri antifascisti. Alla fine del corso il teste e tutti gli altri che erano in quel campo-scuola, furono fatti rientrare in Italia.
Avv. Taddei: 'È vero che alla fine del corso si doveva prestare un giuramento?'.
Leggeri: 'Sì. Ma era un giuramento di fedeltà al popolo italiano e non era obbligatorio'.
Il teste a discarico Sergio Fiaschi, appositamente richiamato, riferisce la formula di tale giuramento: 'Nel nome del popolo, giuro di non desistere dalla lotta intrapresa per il trionfo del proletariato e i miei compagni mi sopprimano nel sangue se verrò meno a tale giuramento'. Il Fiaschi ha aggiunto, però, che l'ultima parte della formula fu abolita, perché alcuni frequentatori della scuola stessa vi si opposero.
Elio Pietrocola, ex sergente automobilista, chiamato a deporre successivamente, ha affermato che i discorsi tenuti dal D'Onofrio non erano affatto improntati a sentimenti antinazionali, ma auspicavano che il nostro Paese divenisse una nazione libera e indipendente. Il teste notò che le conferenze del D'Onofrio erano di tanto grande interesse, da 'essere desiderate'. Nel campo non mancava una 'certa' libertà di critica. Le dichiarazioni del teste Pietrocola, sottolineate dai lunghi mormorii dei reduci che si trovano nello spazio riservato al pubblico, concludono la seduta.
LA SESTA UDIENZA.
Nessuna tregua, non un attimo di respiro, né la possibilità di prendere la minima iniziativa, ha dato il primo teste escusso oggi 28 maggio 1949, con la valanga di precise accuse che ha rovesciato sul capo del senatore D'Onofrio. Don Enelio Franzoni, cappellano della Divisione Pasubio, catturato nel dicembre del 1942, proposto per la medaglia d’oro sul campo, prima di cominciare la sua deposizione, ha guardato fisso negli occhi, con uno sguardo sicuro e leale, il querelante. E poi ha iniziato la narrazione dei numerosi interrogatori subiti da parte del Fiammenghi, del D'Onofrio e prima ancora dal Robotti che lo assillò con le solite domande sul perché fosse venuto a fare la guerra in Russia e sul perché mai l'esercito non si ribellasse, ricordandogli, a conclusione, la storia di Napoleone e della campagna di Russia: 'In Russia si va, ma non si torna', commentò il fuoruscito.
Don Franzoni: 'Fui fatto entrare in una stanza nel campo di Oranki, poco prima del 25 luglio 1943, dove trovai, insieme al D'Onofrio, Fiammenghi e il maggiore russo Orloff. Un soldato russo chiuse la porta alle mie spalle e rimase fuori di piantone. D'Onofrio m'invitò prima a sedere, e poi volle sapere le mie generalità e dove avessi esercitato il ministero religioso in Italia. Risposi che ero insegnante al seminario di Bologna'.
Presidente: 'Scriveva qualche cosa il D'Onofrio, durante questo colloquio?'.
Don Franzoni: 'Sì, prendeva degli appunti e il magg. Orloff faceva la stessa cosa. Mi chiese poi quali fossero le mie idee politiche e malgrado rispondessi che, come sacerdote, non potevo avere idee politiche, insistette dicendo, fra l’altro, che oltre ad essere sacerdote ero anche cittadino. Ancora una volta replicai che un cappellano militare non può avere idee politiche, ma lui non si dette per inteso: voleva ad ogni costo che gli rispondessi. Ma visto che a quel modo non riusciva ad ottenere una risposta, tentò un’altra strada e cominciò a dirmi che, ovviamente, come cappellano dovevo almeno conoscere le idee degli altri ufficiali. Rimasi offeso da queste parole. D'Onofrio voleva abusare della mia qualità e servirsene per i suoi scopi. Mi guardai bene, perciò, dal rispondere ad una domanda tanto maligna e insinuante.
Ma non era ancora finito: l'interrogatorio si protrasse per altre due ore. D'Onofrio cambiò argomento e mi parlò della Patria lontana e della famiglia. Mi chiese se desideravo rivedere la mia famiglia. Certo, aggiunse, se volevo rivederla era necessario che mi allineassi ai nuovi tempi. Nelle sue parole non stentai a riconoscere una aperta minaccia.
Un giorno, mentre ero ancora al campo di Tamboff, ebbi ordine dal comandante russo di scrivere una lettera al Papa, nella quale dovevo consigliarlo sull’andamento della guerra suggerendogli di cercare di por fine ad essa. Io scrissi a Sua Santità pregandola di aiutarci, ma non feci cenno alcuno al suggerimento che m'era stato dato dal comandante russo, il quale, dopo aver letto la lettera disse che non andava bene e me la fece riscrivere daccapo. In sostanza tornai a scrivere le stesse cose, ampliandole con giri di parole, ma non nel senso desiderato dall'ufficiale russo. Comunque, prima di consegnarla, la lessi agli ufficiali ed ebbi la loro approvazione.
È assolutamente falso che io nella lettera abbia esaltato la Unione Sovietica, come asserì il D'Onofrio all'epoca della polemica avuta con il 'Risorgimento Liberale'. Non avrei certamente potuto farlo mentre attorno a me, per fame e per freddo, morivano ad uno ad uno i miei uomini'.
Il tenente degli alpini Mario Braga dichiara che nel campo di Susdal incontrò il cap. Magnani, proveniente dal campo di Elabuga, il quale gli disse di essere stato informato dai sovietici stessi che si trovava in quel campo in seguito a segnalazione del signor D'Onofrio e del magg. Orloff.
L’affermazione del teste provoca un vivace scambio di frasi fra l'avv. Taddei e i due avvocati di parte civile i quali sostengono che il teste, in una sua precedente deposizione scritta, non aveva accennato alla circostanza ora citata e chiedono l'incriminazione del teste. Il quale, intervenendo nel battibecco, spiega che non accennò allora alla circostanza in questione perché temeva che, facendo il nome del cap. Magnani ancora prigioniero, potesse in qualche modo danneggiarlo. Siccome il Magnani è stato citato più volte in quest’aula, oggi sente il dovere di dire tutta la verità.
Prima che salga sulla pedana l'altro testimone, il tenente degli alpini Carlo Colombo, nasce un secondo incidente. L'avv. Taddei presenta al tribunale una foto nella quale è ritratto il corpo di un bersagliere spaventosamente mutilato dai soldati russi all'atto della cattura. È il corpo della medaglia d’oro alla memoria Guido Cassinelli il quale rimase abbarbicato alla sua mitragliatrice fino a che, sparato l'ultimo colpo, i russi non riuscirono a farlo prigioniero ancora al suo posto di combattimento. Avv. Sotgiu: 'Mi oppongo che la fotografia venga allegata agli atti. Essa esula dalla materia del processo'.
L'avv. Taddei insiste. Il Presidente consente che la fotografia, esibita dalla difesa, circoli nell’aula per sola visione.
Avv. Taddei: 'Però i criminali di guerra erano i bersaglieri...'.
Chiuso l'incidente il ten. Colombo può dire che nel campo di Susdal incontrò la signora Torre che fungeva da interprete. Le chiese di aiutarlo a far pervenire una sua lettera alla famiglia, ma la Torre, sorridendo, rispose che la posta era un 'dono che bisognava saper contraccambiare'. Anche il ten. Colombo parla a lungo del cap. Magnani ribadendo quanto già è stato detto da tutti gli altri testi.
Aggiunge solo che il capitano gli disse: 'Se alla fine della guerra io non tornerò più in Italia, lei può attribuire pubblicamente la colpa di ciò al signor D'Onofrio...'.
Ultimo teste della difesa il tenente dei Carabinieri Francesco Mantineo, anch’egli internato nel campo di Susdal, dove conobbe quasi tutti gli ufficiali che non hanno fatto ritorno. Cita, fra gli altri, il gen. Battisti, il magg. Massa, il magg. Zigiotti, don Brevi, il cap. Magnani. Questi gli raccontò degli snervanti interrogatori ai quali era stato sottoposto dal D'Onofrio che il Magnani stesso chiamava 'il Giuda'. Il teste dichiara che il Magnani gli disse allora: 'Se avrò la fortuna di ritornare in Patria, cosa che mi sembra difficile, ne racconterò delle belle sul conto di questo signore'.
L'udienza è finita. Il sen. D'Onofrio raccoglie con cura le proprie cartelle, gli appunti che prende continuamente. Un vago sorriso increspa le sue labbra mentre si allontana dall’aula. Da lunedì la valanga delle accuse si arresterà e alle sue orecchie suoneranno soltanto parole amiche: per una settimana.
LA SETTIMA UDIENZA.
30 maggio 1949 - Prima che comincino ad avvicendarsi sulla pedana coloro che sono stati chiamati a dimostrare la falsità delle accuse lanciate contro il sen. D'Onofrio, il querelante deve ascoltare ancora la voce, non certo gradita, del ten. Giuseppe Cangiano della Divisione Torino, il quale non fece in tempo a deporre nella udienza precedente.
L’ultimo teste addotto dalla difesa ha raccontato che nel campo di Kiev, dove aveva conosciuto il cap. Magnani proveniente da Elabuga, fu invitato a sottoscrivere una dichiarazione nella quale si diceva pressappoco: 'Il capitano Magnani e il tenente Giuseppe Ioli sono colpevoli dei massacri contro le popolazioni civili russe; sono colpevoli dell’incendio delle chiese russe; sono fascisti irriducibili. Essi perciò dovranno essere eliminati perché diversamente continueranno la loro opera nefasta'. La dichiarazione, nella quale si aggiungeva che la morte dei prigionieri italiani nei campi di concentramento era avvenuta per malattie da essi contratte prima della cattura, era redatta in lingua italiana e recava, in calce, due firme...
D'Onofrio: 'Lo dica pure... Una delle firme era la mia...'.
Cangiano: 'Infatti, stavo per dirlo. Delle due firme l’una era di un certo cap. Gullino e l'altra era quella del D'Onofrio. La dichiarazione era assolutamente falsa ed io naturalmente mi rifiutai di firmarla anche perché in essa si diceva che io avevo la certezza delle accuse ed ero a conoscenza degli episodi citati.
Fui rinchiuso in carcere per due mesi e, scontata la pena, nuovamente chiamato e nuovamente invitato a sottoscrivere la dichiarazione. Era il 26 dicembre del 1946. Al mio rifiuto, un soldato russo mi legò ad una sedia. Poi insieme ad un capitano sovietico cominciò, per ordine di quello, a picchiarmi a schiaffi, a calci, a pugni. Il capitano usava una riga di ferro. Ad un certo punto l'ufficiale mi disse: 'Ma insomma perché lei si ostina a fare il martire? I veri italiani, non hanno esitato a firmare'. Mi rifiutai ancora e loro ricominciarono a percuotermi finché non svenni'.
D'Onofrio: 'È falso. Tutto falso. Non ho mai fatto dichiarazioni del genere. Ho conosciuto il cap. Gullino nel campo di Skit, ma non ho parlato con lui di crimini di guerra. Per principio aborrisco la guerra e non avrei un attimo di esitazione nel denunciare chiunque di tali crimini si fosse macchiato. Ma non ho mai saputo che il cap. Magnani o il ten. Ioli abbiano commesso azioni del genere. Del resto io al fronte russo non ci sono mai stato'.
Avv. Mastino Del Rio: 'Se al D'Onofrio fossero stati noti crimini di guerra commessi da militari russi, li avrebbe, egli, denunciati?'.
D'Onofrio: 'Pubblicamente. Ma non mi è mai risultato che soldati russi abbiano commesso crimini di guerra'.
Prima che sia introdotto il primo teste della parte civile, l’avvocato Taddei ha fatto sapere al Collegio che la federazione comunista di Parma, prima che avesse inizio il processo, fece delle indagini presso i suoi organizzati allo scopo di sapere tutto quello che era possibile sul conto del signor Luigi Avalli, uno degli imputati: le sue idee politiche, quale fu il suo comportamento prima dell’8 settembre 1943 e dopo tale data e dopo il suo rientro dalla prigionia. Evidentemente la difesa ha voluto rendere la pariglia a quanto aveva detto in precedenza la parte civile a proposito di una circolare che l'Unione Reduci dalla Russia inviò a tutti i commilitoni per sollecitare testimonianze da servire nell'attuale processo. Ed è cominciata la serie dei testimoni addotti dal querelante.
Il primo è un ufficiale d'artiglieria Alessandro D’Alessandro che fu nei campi di Tamboff e Susdal.
D'Alessandro: 'Avevamo una certa libertà e, se è vero che durante i primi tempi della prigionia il morale era molto depresso e le cose andavano piuttosto male, è pur vero che a poco a poco notammo un certo generale miglioramento della situazione. Nel campo potevamo servirci di una biblioteca discretamente fornita di libri di letteratura e di politica...'.
'Per compensare la mancanza del cibo necessario per vivere' s’è inteso gridare da qualcuno del pubblico.
D'Alessandro: 'Cominciai a farmi una cultura politica e mi convertii all'antifascismo e osservai come il commissario politico del campo si prodigasse per migliorare sempre più le condizioni dei prigionieri'.
Presidente: 'Conobbe, lei, il D'Onofrio durante la sua permanenza al campo di Susdal?'.
D'Alessandro: 'No. Durante la mia permanenza in terra di Russia non vidi mai Edoardo D'Onofrio. Ho conosciuto il senatore soltanto al mio ritorno in Italia'.
Avv. Mastino Del Rio: 'Quanti morti vi furono a Valuiki?'.
D’Alessandro: 'Nella mia baracca perirono 15 uomini su 60 occupanti'.
Avv. Mastino del Rio: 'E a Tamboff?'.
D’Alessandro: 'A Tamboff le condizioni divennero più critiche e la percentuale dei morti crebbe'.
Il teste cade in contraddizioni evidenti, dimenticando che poco prima ha parlato di progressivo 'generale miglioramento della situazione nei campi'.
Avv. Taddei: 'Il teste, per caso, è iscritto al partito comunista italiano?'.
Avv. Paone: 'Abbiamo chiesto, noi, ai vostri testi se erano iscritti al movimento sociale italiano?'.
Il Presidente taglia corto dichiarando non valida la domanda e il teste viene congedato. È la volta di un caporale di fanteria, Luigi Leggeri, il quale teste fu inviato in quella scuola per premio: aveva esaltato la vittoria delle armi russe. Ricorda soltanto i nomi di Fiammenghi e di Vella, come insegnanti; nella scuola si studiava il movimento operaio e l'insegnamento era improntato a criteri antifascisti. Alla fine del corso il teste e tutti gli altri che erano in quel campo-scuola, furono fatti rientrare in Italia.
Avv. Taddei: 'È vero che alla fine del corso si doveva prestare un giuramento?'.
Leggeri: 'Sì. Ma era un giuramento di fedeltà al popolo italiano e non era obbligatorio'.
Il teste a discarico Sergio Fiaschi, appositamente richiamato, riferisce la formula di tale giuramento: 'Nel nome del popolo, giuro di non desistere dalla lotta intrapresa per il trionfo del proletariato e i miei compagni mi sopprimano nel sangue se verrò meno a tale giuramento'. Il Fiaschi ha aggiunto, però, che l'ultima parte della formula fu abolita, perché alcuni frequentatori della scuola stessa vi si opposero.
Elio Pietrocola, ex sergente automobilista, chiamato a deporre successivamente, ha affermato che i discorsi tenuti dal D'Onofrio non erano affatto improntati a sentimenti antinazionali, ma auspicavano che il nostro Paese divenisse una nazione libera e indipendente. Il teste notò che le conferenze del D'Onofrio erano di tanto grande interesse, da 'essere desiderate'. Nel campo non mancava una 'certa' libertà di critica. Le dichiarazioni del teste Pietrocola, sottolineate dai lunghi mormorii dei reduci che si trovano nello spazio riservato al pubblico, concludono la seduta.
mercoledì 7 aprile 2021
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