lunedì 24 aprile 2023

Capitano Pilota Giorgio Iannicelli, 11

La storia del Capitano Pilota GIORGIO IANNICELLI, Medaglia d'Oro al Valor Militare, nelle parole del figlio GianLuigi, undicesima parte. P.S. oggi questa testimonianza ha ancora più valore perché, seppur ho conosciuto il Signor Gianluigi una sola volta al telefono, ho appreso qualche mese fa che ha raggiunto il suo povero padre; ad entrambi va la mia più profonda stima e il mio ricordo.

Breve biografia.

Azioni di mitragliamento a terra. Giungere sulle linee, riconoscere su quel territorio sconvolto e arato da giorni e giorni di lotta le linee studiate per ore sulla carta, centimetro per centimetro: qui erano i nostri, li erano loro. C'era un boschetto: la linea ferroviaria diritta andava da questa parte, quella sinuosa da quell'altra. Bisognava stare attenti. Avanzavano. Erano qui un'ora fa. Ora saranno più avanti. Mitragliare passando a molto più di cento metri al secondo sulle due masse di uomini in lotta e saper distinguere gli amici dai nemici. Mitragliare al passaggio con armi che sputavano centinaia e centinaia di pallottole al minuto, sapendo che ogni ondeggiamento dell'apparecchio porta ad un errore enorme della mira. Mitragliare fra il fuoco delle batterie contraeree che viene su preciso, tra quello delle mitragliatrici leggere e dei fucili delle truppe in seconda linea che un attimo bastava a raggiungere, fisso l'occhio alla mira col bersaglio che veniva su, raggiungeva, gonfiava, diveniva immenso, sembrava quasi che li volesse inghiottire, e poi una lieve pressione della levetta di tiro, l'inferno di fuoco delle traccianti che andavano giù a centinaia, il palmo della mano premeva la leva di comando dell'apparecchio, l'orizzonte si inclinava, ruotava, ondeggiava, tornava diritto.

Eravamo ancora nel pieno della battaglia, ancora in giro, ancora il bersaglio che si ingigantiva, che ti voleva inghiottire. Cento metri, cinquanta, dieci, cinque. Via! La raffica s'arrestava, l'apparecchio si impennava. Girava. Per ricominciare. E dietro il comandante tutta la formazione seguiva, irregolare negli intervalli fra apparecchio ed apparecchio per non facilitare il tiro nemico, perfetta nel sincronismo delle manovre, nella scelta dei bersagli, nella successione delle virate. Ma quando la notte cominciava già a discendere sulla terra e la minaccia della neve della mattina cominciava a tradursi in realtà, la notizia giungeva che rinforzi nemici erano in marcia verso il campo della battaglia ove aveva subito un istante di sosta. Pronti erano gli uomini della terra a parare la minaccia, pronti dovevano essere gli uomini del cielo. La notte scendeva, la neve cadeva dal cielo ormai fosco; non importava. Il campo di fortuna che li ospitava non disponeva di una sola luce, non importava. Dove si combatteva, la caccia non doveva mancare. E nella notte incipiente gli apparecchi partivano scomparendo nell'oscurità ai hmiti appena visibili del campo. Andavano leggendo agli ultimi barlumi di luce l'angolo di bussola che li doveva portare alla meta.

Serrati ala contro ala, macchine appena più scure nel cielo scuro. Vampe nel cielo dal tubo di scarico degli apparecchi. Vampe sulla terra della battaglia che incominciava. Vampe orizzontali di cannonate. Vampe verticali di contraeree, quelle su cui gli aviatori contavano per scegliere con sicurezza il bersaglio. A terra era nero, non si poteva più distinguere gli amici dai nemici se erano a diretto contatto. Ma le colonne che venivano giù ancora non avevano raggiunto il campo della lotta e contro il pericolo che le minacciava aprivano il fuoco di tutte le loro mitragliatrici, di tutti i loro cannoni. Salivano dalla terra compatte colonne di fuoco alla ricerca del nemico quasi invisibile. Giù dal cielo contro la terra più nera. Giù a cinquanta, a dieci metri, contro le vampe eruttami della terra. Giù a più di cento metri al secondo. Giù fino a lambire con l'ala il pezzo che sparava.

Fiamme vivissime danzavano sulla prua degli apparecchi dalla bocca delle mitraglie. Non avevano più gli apparecchi che il fuoco delle mitragliatrici per ritrovarsi. Ogni pilota vedeva alla sua destra sprofondare nella terra la colonna di fuoco dell'apparecchio che gli era vicino. E la formazione andava sempre unita: mitragliando, innalzandosi, tornando ovunque vedeva zampillare fuoco sulla terra. La notte era chiusa, piena, implacabile. Aveva avvolto nel suo manto nerissimo gli apparecchi che avevano finito le munizioni e tornavano a casa. Il capo dell'ultima coppia aveva voluto avere l'ultima parola contro una batteria leggera che gli era parso ce l'avesse un poco con lui e si era allardato un attimo di più. Quando girava non vedeva più nulla. Scomparse anche le fiammelle dei tubi di scarico che solo potevano fargli individuare i compagni. Intanto il comandante andava, l'occhio alla bussola fosforescente, diritto al suo campo. Aveva contato le colonne infuocate dell'ultimo mitragliamento: c'erano tutti. Ora si voltava: contava le fiamme che vedeva lampeggiare nella notte, ammiccanti. Ne mancavano due e non si sapeva chi erano. I fari della sua automobile messa li contro vento a dare una direzione ed un punto, uno solo, di riferimento. E gli apparecchio atterravano con quel sol punto.

Ma il cuore del comandante era grosso. Sapeva che nella buia notte due suoi apparecchi erano in volo. Sapeva che giravano attorno anche se non li sentiva. Razzi di segnalazione si alzavano nel cielo. E chiamavano, chiamavano, chiamavano. L'ansia stringeva la gola di tutti. Il tenente Marcolini rimasto solo in volo, con il suo gregario, s'era ricordato subito che la sua bussola non era più fosforescente. Bussola destinata ad un apparecchio che doveva volare solo di giorno, vecchia fida bussola alla quale era affezionato; essa aveva visto di giorno in giorno impallidire la luce dei suoi muretti, delle sue gradazioni; luce che non serviva più, ma che ora sarebbe servita. "31, 31, 31" erano i trecentodieci gradi di rotta da seguire per tornare a casa, per tornare dove la squadriglia aspettava. Ma fra lo scintillare di tutti gli altri strumenti solo la bussola non rispondeva.

Il tenente girava. Non si voleva allontanare dal posto di cui conosceva l'esatta ubicazione. E il suo caposaldo non lo abbandonava. E intanto lavorava. Con una sola mano, l'altra impegnata nella manovra dell'apparecchio. Lavorava con le unghie, rompendole, con le dita, lacerandosele, ma riusciva. La bussola era strappata dal suo alveolo, portata dinnanzi agli occhi, a pochi centimetri. La pupilla, dilatata fino ad assorbire tutto l'iride, coglieva il barbaglio di luce. Fosforo esaurito. Rotta 28, cioè 280. Una tacca piccola 255, una tacca lunga 290, piccola 295, lunga 300, piccola 305 e poi il numero abbreviato 31 uguale a 310. Diritto, diritto dinnanzi a sé nella notte fonda, diritto verso la squadriglia che attendeva e che chiamava. Il gregario fedele era con l'ala sull'ala, le fiammelle del suo scarico sembravano chiari occhi allegramente ammiccanti. Ce l'aveva fatta! Ecco, ecco l'ansia della squadriglia in attesa che nel cielo. Un razzo rosso, un razzo bianco, ancora uno rosso. Sono qui, sono qui.

Da terra li avevano già visti e l'ansia in frenata dalla disciplina erompeva e si dileguava nel grido di trionfo che saliva incontro alle pallide fiammelle occhieggianti. E il comandante sentiva il suo cuore diventargli piccolo piccolo nel petto. Sono qui, sono qui: giravano, atterravano, rullavano, spuntavano nell'alone di luce e dei fari. Ancora un giro d'elica poi i motori si erano fermati. L'avventura è finita".

Vicende successive.

Con la caduta del muro di Berlino e le conseguenti vicende politiche è stato poi possibile stabilire degli accordi diplomatici, prima con l'URSS e poi con l'Ucraina indipendente, per l'inizio di ricerche sistematiche nei territori dell'ex Unione Sovietica dei luoghi di sepoltura nei nostri soldati deceduti sia in combattimento, che nei luoghi di prigionia. Tutto ha inizio nel mese di dicembre 1989 con la visita del Presidente Gorbaciov al nostro Presidente della Repubblica, Francesco Cossiga, ed è una vicenda complessa e difficile, lunga, commovente, sconosciuta ai più, che prosegue tuttora e la cui narrazione occuperebbe le pagine di un libro.

Nel caso del capitano Giorgio Iannicelli, le ricerche effettuate negli anni 1996/2000, dal Ministero della Difesa (ONORCADUTI), dall'UNIRR - Sezione delle Marche, e dai familiari e la precisione dei dati relativi alla sua sepoltura, assicurata dalle numerose fotografie e dalle planimetrie redatte con cura dal tenente cappellano don Pasquale Ferrari e concordanti con le testimonianze raccolte sui luoghi, anche fornite spontaneamente dagli abitanti, hanno consentito, sia pure fra difficoltà di ogni genere, l'identificazione del cimitero nel suo complesso. Le sue spoglie, però, nonostante la certezza della loro esatta localizzazione, suffragata anche dai primi ritrovamenti (tenente pilota Lucio Lai ed i componenti del suo equipaggio) che confermavano l'attendibilità della documentazione, non sono state alla fine ritrovate, essendo andate probabilmente disperse, insieme a quelle di vari altri caduti ivi inumate, durante i lavori edili eseguiti nel corso degli anni anche nell'area cimiteriale.

La superficie del cimitero militare italiano di Jussowo (detto anche "degli aviatori", per i numerosi componenti della Regia Aeronautica ivi composti), infatti, nulla conserva della sua destinazione a luogo di sepoltura ed è oggi coperta da un marciapiede, ombreggiato da alberi e prospiciente un'animata strada che conduce alla stazione della città (che conta, oramai, un milione di abitanti), con dei grandi palazzi incombenti sullo sfondo, la cui costruzione, eseguita senza alcun rispetto per il luogo, ha danneggiato in parte le sepolture, delle quali, quindi, solo parzialmente è stato possibile il ritrovamento ed il trasferimento in Italia. Ulteriori ricerche, sia negli archivi della città, che sui luoghi, sono tuttora in corso, su iniziativa dei familiari e dell'U.N.I.R.R. - Sezione Marche, almeno al fine di poter conoscere la sorte delle salme mancanti. Roma, sua città natale, gli ha dedicato una strada fra la via Cassia e la via Trionfale ed è ricordato nel museo annesso al sacrario di Cargnacco (Udine), eretto a ricordo dei caduti di Russia.

Vale la pena ricordare qui quello che avvenne a Nisida, allora sede dell'Accademia Aeronautica, il 29 aprile 1951, giorno del giuramento degli allievi del corso "IBIS 2", in particolare il discorso pronunciato dal colonnello pilota Raoul Zucconi, amico e collega del capitano Iannicelli e con lui, vent'anni prima, allievo del primo "IBIS", nella sua veste di "padrino" del nuovo corso: "Vent'anni fa questo stesso vessillo, che voi ora ricevete, è stato affidato a noi del 1° Corso "IBIS". Intorno a questo simbolo, dal motto che è un vaticinio di fortuna e di gloria, erano riunite, allora, le esuberanti nostre giovinezze, anelanti come voi in questo giorno, di offrire alla Patria e all'Arma la dedizione di tutta una vita. Ed è con suprema generosità che il Corso "IBIS" ha saputo tener fede al suo ideale durante le vicende tragiche e gloriose vissute dall'Aeronautica in questi anni. Ne è prova il sacrificio dei suoi 28 caduti e le sette medaglie d'oro che fra essi risplendono. I loro nomi sono simbolicamente impressi nel vessillo che oggi viene a voi consegnato: Dell'Incerti, Dell'Oro, Iannicelli, Larsimont, Maione, Mezzetti, Serini; i volti sereni d'ognuno sono davanti ai nostri occhi e si confondono nel brivido di commozione che offusca le nostre pupille, con i vostri volti giovani ed entusiasti.

E infatti voi avete raccolto il seme fecondo da essi gettalo e chiedete di esserne degni; siete i germogli più sani che sempre sorgono, come per miracolo di resurrezione, dall'alone di luce che promana da ogni vita donala sull'altare di un ideale sublime. La Patria è per noi ed è per voi questo supremo ideale. In suo nome vi passiamo il sacro fuoco dell'eroismo dalla fiaccola che abbiamo acceso immergendola nella fiamma della fede, tanti anni fa, e che abbiamo sempre tenuto in alto, il più in alto possibile, per illuminare il sacro volto d'Italia. La vostra face, che oggi tendete alla fiamma ideale che vi doniamo, è simbolo di continuità e di speranza. Il vessillo che ci è comune, traccia a voi la stessa strada che abbiamo percorsa. "Ibis victor redibis'. I cieli della Patria vi attendono. Andate e, come fu per noi, tornate con la certezza di aver donato all'Italia tutta la vostra vita ardente. Sarà questo, in ogni caso, il titolo di nobiltà che, trascendendo eventi e circostanze, vi farà degni di chi, sono la vostra stessa bandiera, ha conseguito la piena vittoria entrando nel cielo degli Eroi".





Nessun commento:

Posta un commento