Ma realmente cosa accadde durante le tristemente famose "marce del davai"? Lo lascio raccontare ad un "protagonista" d'eccezione, suo malgrado. Ecco la testimonianza di Giuseppe Bassi, uno degli ultimi reduci di Russia in vita, dal suo libro "Dal fronte del Don ai lager sovietici - 42 mesi di prigionia nei campi di Tambov - Oranki - Suzdal - Vladimir - Odessa - S.Valentino”.
“Eravamo una turba di soldati esausti e demoralizzati, provati dalle sofferenze di una marcia tormentata dal freddo, da cinque giorni di fame, dal sonno e dai continui combattimenti marciavamo sotto la sferza del grido tragico: “Davai, davi, bistreij!” cioè: “Avanti, avanti, presto!”, gridato in continuazione dai soldati russi. Mentre la neve continuava a cadere, stormi di lugubri corvi svolazzavano gracchiando sopra le nostre teste. La lunga colonna, come una serpe umana si snodava sulla neve lasciando ai bordi della pista, rigidi corpi stremati dalla fatica; ogni tanto alle nostre spalle sentivamo i colpi che partivano dai moschetti delle sentinelle russe che “risparmiavano” le sofferenze della prigionia a tanti nostri soldati incapaci di proseguire. Fiocchi di neve avrebbero coperto quei corpi che presto sarebbero stati irrigiditi dal gelo. Uno sguardo impotente verso gli uccisi e di odio verso i carnefici, ci dava la forza e l'energia per proseguire nella marcia crudele. A volte il grido straziante di “Pausa, pausa…” risaliva come una valanga per giungere come invocazione ai soldati russi che in testa, facevano il passo. Se la pausa veniva concessa, ci si accovacciata a terra, approfittando della sosta per mangiare qualche manciata di neve. Era questo il nostro cibo e la nostra bevanda. Al grido di “Davai” qualcuno restava a terra, vinto dalla fatica e allora bisognava svegliarlo con la forza, altrimenti sarebbe stato una delle tante vittime della morte bianca. Alle nostre continue richieste su quanti chilometri ci fossero ancora da percorrere, le sentinelle rispondevano sempre: “Dsvai” (due) e la marcia, implacabile, continuava in mezzo ad una bufera di neve che ci investiva nel pieno della notte. Il vento sollevava dalla steppa una neve ghiacciata, sottile e gelida che ci tagliuzzava il viso e, come spilli, ci penetrava nella carne; molti morirono assiderati in quell'interminabile notte. Il freddo polare e la tormenta di neve rendevano inumana ed insostenibile la marcia notturna nella steppa. Nelle condizioni fisiche e morali in cui ci trovavamo, solo Iddio poteva salvarci da quest’inferno e la nostra volontà di vivere per poter testimoniare e raccontare ciò che ci stava succedendo, senza immaginare che il nostro calvario era appena cominciato. Il Rosario dei chilometri continuava con i morti ai bordi della pista che indicavano il cammino percorso dalle colonne che ci avevano preceduto […]”.
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