sabato 24 ottobre 2020

Libri: "SMALP"

Il libro è stato pubblicato in occasione dell’Adunata degli Alpini tenutasi a Milano nel 2019. Andrea Ferriani, titolare della casa editrice Editoriale Delfino, ha frequentato il 102° corso AUC svoltosi nel 1981 e ha voluto rendere omaggio all’Adunata degli Alpini tenutasi a Milano dal 10 al 12 maggio 2019 con la pubblicazione di questo libro. Attraverso una meticolosa e approfondita ricostruzione storica, rende omaggio agli uomini che hanno avuto l’onore di trascorrere una parte della loro vita in questa Scuola. Una Scuola di vita, che ha lasciato a tutti ricordi ed emozioni ricchi di valori indelebili. Questo volume è dedicato a tutti coloro che in più di sessant’anni hanno frequentato i corsi come Allievi Ufficiali di Complemento dalla Scuola Militare Alpina di Aosta, ma anche a tutti gli appassionati.

Il testo è acquistabile al seguente link https://www.editorialedelfino.it/smalp.html.

giovedì 22 ottobre 2020

Magari un giorno...

Se non lo avete mai visto, guardatelo... e guardatelo fino alla fine. Ed immaginate che un giorno anche in Italia si possa realizzare qualche cosa di analogo, magari sui ragazzi della Russia e magari trasmesso in prima serata al posto di qualche stupida trasmissione e magari proiettato nelle scuole e magari...

lunedì 19 ottobre 2020

Il falso mito delle “scarpe di cartone"

Molto spesso si sente parlare delle famigerate “scarpe di cartone”, con le quali, secondo una diffusa convinzione, i soldati italiani avrebbero affrontato la campagna di Russia durante la Seconda Guerra Mondiale, andando incontro ad esiti terribili per via delle calzature assolutamente inadeguate, addirittura con la suola realizzata in cartone pressato. In realtà questa è essenzialmente solo una leggenda storica.

I soldati italiani combatterono nel secondo conflitto mondiale con calzature di buona qualità, che, almeno nella loro configurazione ottimale, non potevano certo considerarsi pericolose per i piedi dei soldati. Come modello standard era previsto l’uso dello scarpone adottato nel 1937, che aveva un gambaletto più basso dei precedenti, con la tomaia realizzata in cuoio ingrassato e la suola in legno e cuoio, rinforzata da una chiodatura leggera per le armi a piedi e a cavallo, un diverso modello, con chiodatura da montagna, era in uso alle truppe alpine. Questo particolare tipo di calzatura era stato concepito tenendo presente il clima dell’Europa occidentale e, come ipotesi di impiego, il terreno dell’arco alpino italiano.

Indubbiamente, quando questi scarponi si trovarono ad affrontare l’inverno russo, con i suoi meno quaranta gradi, e le particolari condizioni ambientali del fronte orientale, mostrarono dei limiti. In modo particolare, gravi effetti derivarono dalla mancanza di approvvigionamenti e, dunque, dalla capacità di sostituire efficacemente le dotazioni usurate. L’Esercito Italiano era carente di automezzi, rendendo difficile rifornire rapidamente i raparti in prima linea, specie sulle enormi distanze del fronte russo. Le calzature assegnate ai nostri soldati, seppur di buona qualità, utilizzate nelle lunghe ed estenuanti marce a piedi, nel fango e nella neve del fronte orientale, erano sottoposte ad una inevitabile usura, rendendo necessaria la loro sostituzione entro pochi mesi.

L’Intendenza Militare, però, pur avendo i propri depositi nelle adiacenze del fronte, era spesso impossibilitata ad utilizzare i mezzi adeguati per rifornire i reparti. Non è secondario notare come questo tipo di problematica fu assai meno sentita nel 1941, all’epoca in cui era impiegato il CSIR, Corpo di Spedizione Italiano in Russia, che aveva una consistenza numerica piuttosto contenuta e che occupava una porzione ridotta del fronte.

I problemi logistici maggiori iniziarono dal 1942, con la nascita dell’ARMIR, l’Armata Italiana in Russia, una grande unità di notevoli dimensioni composta da una grande moltitudine di soldati, alla quale era assegnato un lungo tratto di fronte, pertanto le linee di comunicazione si allungarono ed il numero di militari da dover rifornire aumentò in modo esponenziale. Un aumento che l’Intendenza non fu in grado di sostenere con dotazioni adeguate, in particolare erano scarsi gli automezzi che avrebbero consentito di portare rapidamente i rifornimenti in prima linea.

Dal punto di vista costruttivo, probabilmente, il principale limite degli scarponi italiani va ricercato proprio nel sistema della chiodatura: aprendo microfori nella suola della scarpa si consentiva il passaggio di una certa quantità di umidità che, ad una temperatura di meno 40 gradi, gelava rapidamente esponendo il piede al congelamento. Per far fronte a tali difficoltà si ricercarono modelli di calzature più efficienti, ad alcuni reparti alpini, in primo luogo al Battaglione “Monte Cervino”, furono dati in dotazione nuovi scarponi con suola gommata in Vibram che risultarono particolarmente adatti a reggere le rigide temperature dell’inverno russo. Allo stesso tempo, studiando un peculiare tipo di stivale utilizzato dalle popolazioni locali, i cosiddetti “valenki”, furono creati stivali in feltro di lana pressato che potevano essere indossati sopra i normali scarponi come una sorta di galosce, oltre ad essere imbottiti di lana o paglia per mantenere gamba e piedi ancor più al caldo ed isolati dal gelo.

Purtroppo anche queste dotazioni soffrirono la difficoltà dei trasporti per gli approvvigionamenti, gran parte di esse finì per accumularsi nei magazzini militari senza la possibilità di essere distribuite effettivamente alle truppe al fronte.

Nel complesso può considerarsi solo parzialmente vero che i soldati italiani affrontarono i vari fronti della Seconda Guerra Mondiale con dotazioni e vestiario non sempre all’altezza delle esigenze belliche, ma va definitivamente sfatato il mito degli scarponi di cartone e, con esso, il terribile sospetto che possano esserci state gravi speculazioni sulle forniture militari e, quindi, sulla vita dei nostri soldati.

Fonte: articolo di Salvatore De Chiara sul sito Historia Regni.

venerdì 16 ottobre 2020

Un mito da sfatare il T34/76

All'inizio del conflitto, il ben corazzato T-34, pur con la sua imperfetta trasmissione, incapace di sostenere lunghe marce, si dimostrò tuttavia un buon carro armato di supporto alla fanteria. Ma progressivamente perse il suo vantaggio in corazzatura che aveva avuto all'inizio del conflitto.

Alla fine del 1943 o all'inizio del 1944, il T-34 era diventato un obiettivo relativamente facile per i carri tedeschi con i cannoni da 75 mm e per le armi anti-carro, mentre i colpi del cannone da 88 millimetri del Tiger, le batterie anti-aeree e le armi anti-carro PAK-43 risultavano invariabilmente letali.

La torretta era perforata in maniera relativamente facile dalle armi tedesche. La situazione era aggravata dal fatto che spesso le torrette del T-34 erano colpite da pezzi di artiglieria pesante come l'88 mm antiaereo e dai carri tedeschi equipaggiati con cannoni a canna lunga come il 75 mm e il 50 mm.

A ciò si univa una gravissima mancanza di vie di fuga adeguate per l'equipaggio, dal momento che il portellone monoblocco sulla torretta rappresentava l'unica uscita facilmente agibile per i membri dell'equipaggio (il portello davanti alla postazione del pilota, infatti, era fin troppo piccolo e macchinoso da aprire).

Bisogna poi ricordare che la produzione dei carri sovietici divenne numericamente consistente grazie alle macchine utensili (44.600), ai forni elettrici ed alle lastre di acciaio (6.000.000 di tonnellate la maggior parte in lastre pronte per essere tagliate e saldate) inviate dagli USA. Vennero prodotti 35,467 T34/76.

Altro grave difetto era la torretta biposto dove il capocarro era anche servente al pezzo, la visibilità esterna era troppo scarsa ed in più non c'era una radio. Anche i cingoli erano un punto debole. Nel 1941, per il carro russo compiere viaggi di centinaia di chilometri sarebbe risultato letale.

Quando nel giugno del 1941 l'8º Corpo Meccanizzato di D.I. Ryabyshev avanzò verso Dubno, perse metà dei suoi veicoli. A.V. Bodnar, che si trovò in combattimento nel 1941-42 ricordava: "Dal punto di vista dell'operatività, le macchine corazzate tedesche erano più perfette, si rompevano meno spesso. Per i tedeschi, coprire 200 chilometri era nulla, ma con i T-34 qualcosa si sarebbe rotto, qualcosa si sarebbe perso. L'equipaggiamento tecnico delle loro macchine era migliore, l'armamento peggiore".

I cingoli erano un serio punto debole. Erano la parte riparata più di frequente. Gli equipaggi si portavano addirittura le parti di ricambio in combattimento. A.V. Maryevski ricordava: "I cingoli si potevano spezzare anche senza essere colpiti. Quando la terra si incollava tra le ruote dentate, il cingolo, soprattutto durante una curva, si tendeva tanto che i perni e gli stessi cingoli non potevano resistere".

Inoltre la trasmissione dei primi modelli di T-34 era la più primitiva dei suoi tempi. Cambiare marcia nei T-34 dei primi anni del conflitto, con cambio a quattro marce, era molto complicato e richiedeva una grande forza fisica. I veterani carristi russi ricordavano quanto fosse difficile cambiare marcia e di come dovessero aiutarsi con le ginocchia. Inoltre, risultava quasi impossibile, pena la rottura degli ingranaggi, utilizzare III e IV marcia in fuoristrada (la velocità massima effettiva si riduceva così a soli 15-20 km/h).

La frizione, poi, estremamente arcaica (era composta da semplici dischi di ferro), non poteva essere fatta slittare senza incorrere nel rischio di una sua rottura. Era assolutamente necessario che gli equipaggi dei T-34 fossero molto ben addestrati. "Se un guidatore non lo era - ricordava il comandante di plotone A.V.Bodnar - avrebbe potuto ingranare la quarta invece della prima e la terza invece della seconda, la qual cosa avrebbe portato alla inevitabile rottura del cambio".

Per un certo periodo i russi scartarono ogni progetto di miglioria o di modifica del T-34, per mantenere la produzione la più alta possibile, almeno fino all'arrivo del Panzer V Panther e del Panzer VI Tiger. I lunghi cannoni di questi nuovi carri permettevano ai carristi tedeschi di combattere senza preoccuparsi di nascondersi.

Il comandante di plotone Nikolai Yakovlevich Zheleznov ricordava: "Dato che i nostri cannoni da 76 millimetri potevano perforare le loro corazze da non più di 500 metri, essi restavano all'aperto. Perfino i proiettili da 76 millimetri rinforzati al tungsteno non davano alcun vantaggio, dato che potevano perforare corazze di 90 millimetri da una distanza di 100 metri, quando la blindatura frontale del Tiger era spessa 102 millimetri".

Per loro fortuna i Sovietici potevano disporre di aerei anticarro tra i quali gli Hawker Hurricane con 4 cannoni da 20 mm e razzi da 127 mm ed i Bell P39 con cannone da 37 mm.

Fonte: articolo di Sergio Mazzella sul gruppo Le Grandi Battaglie della Storia.

domenica 20 settembre 2020

Tornano le piastrine dei dispersi

Altro articolo de Il Giornale nel quale viene giustamente anche citata la posizione di U.N.I.R.R. sul tema dei piastrini e sul relativo commercio... oltre ad un accenno a Un italiano in Russia che fa sempre piacere...

Fonte: articolo di Fausto Biloslavo su Il Giornale,

Preghiera del caduto in Russia

Oggi... per tutti i caduti e dispersi della Campagna di Russia, ma anche per tutti quelli che a casa li hanno aspettati invano per anni!

lunedì 14 settembre 2020

Le piastrine dei morti in Russia

Le piastrine dei nostri caduti in Russia fra macabro mercato e consegna gratuita ai parenti. Il toccante ricordo dei dispersi dopo 77 anni dalla ritirata del Don. Le ultime piastrine purtroppo in vendita e le foto degli alpini...

Fonte: articolo di Fausto Biloslavo su Il Giornale,

lunedì 7 settembre 2020

I piastrini dei nostri caduti

Questo un post su uno dei diversi gruppi che tengono vivo il ricordo dei nostri caduti in Russia...

Chiariamo un aspetto che forse ai più sfugge: vado in Russia da quasi 10 anni in quei luoghi per vedere e ricordare; i russi giustamente hanno a cuore i loro caduti e forse meno, molto meno, i nostri... ma mi viene da dire che è quasi comprensibile e sinceramente non gliene faccio una colpa. Questo commercio esiste solo perchè ci sono persone che qui in Italia COMPRANO i piastrini dei vostri cari e alimentano così questo squallido commercio; altri ne traggono anche prestigio personale e non dico altro. Poi aggiungo un altro aspetto molto meno conosciuto qui in Italia: i tedeschi ben più odiati dei nostri, ancora oggi, vanno continuamente a recuperare i corpi o i resti dei loro caduti. Quanto detto è verificabile cercando su Internet alcuni siti che ne parlano costantemente. In uno dei miei precedenti viaggi e in uno dei paesi attraversati dalle nostre colonne in ritirata, le persone del luogo ci hanno indicato il punto esatto dove erano ancor oggi sepolti dei nostri soldati; a poca distanza ci hanno indicato un piccolo bosco nel quale erano stati sepolti o gettati i corpi di alcuni caduti tedeschi... hanno poi aggiunto "Ora non ci sono più... i tedeschi sono venuti a riprenderli". Prima di dare la colpa ad altri, guardiamo in casa nostra. Ora U.N.I.R.R. si sta muovendo proprio per colmare certe lacune ed impedire anche questo squallido commercio.