lunedì 26 ottobre 2020

Noi e loro 3

Altre volte sempre camminando su una strada innevata, pensavamo a come doveva essere stato per loro. Camion, slitte, urla, ordini, scoppi... o solo il silenzio della disperazione e della solitudine. E passo dopo passo ce li immaginavamo, ci immaginavamo di essere in mezzo a loro.

P.S. la fotografia non ha alcun fine nel tentare di accostare la nostra esperienza ai dolori ed alle privazioni che provarono quei ragazzi; è solo un altro modo per sentirli vicino e ricordarli; non ne abbia male nessuno.

Noi e loro 2

Altre volte in mezzo ad una piccola foresta, mentre ci prendevamo una pausa, i rumori del bosco, vicini e lontani, ci davano la fortissima sensazione di non essere soli. Più volte ci siamo bloccati per guardare fra i rami se le nostre fosse solo sensazioni. Te li immaginavi, fermi al freddo anche loro, magari nello stesso identico posto dove noi casualmente ci eravamo fermati.

P.S. la fotografia non ha alcun fine nel tentare di accostare la nostra esperienza ai dolori ed alle privazioni che provarono quei ragazzi; è solo un altro modo per sentirli vicino e ricordarli; non ne abbia male nessuno.

Noi e loro 1

A volte durante il trekking, camminando nella neve o nella tempesta, ci sembrava di avere intorno a noi delle presenze silenziose; certo, era frutto della nostra immaginazione, ma la sensazione in molti di noi era fortissima. Ne abbiamo parlato spesso. E ci piaceva crederlo; ci piaceva pensare che loro silenziosamente ci stessero osservando.

P.S. la fotografia non ha alcun fine nel tentare di accostare la nostra esperienza ai dolori ed alle privazioni che provarono quei ragazzi; è solo un altro modo per sentirli vicino e ricordarli; non ne abbia male nessuno.

sabato 24 ottobre 2020

I giorni e gli anni, parte 1

Tutto il materiale proposto fa riferimento all'articolo 70 comma 1 della legge numero 633 del 22 Aprile 1941 che cita "Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l'utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali".

Pubblico alcuni estratti del libro "I giorni e gli anni" di Danilo Ferretti, ufficiale della Legione Montebello nella campagna di Russia. Il libro non è facilmente reperibile, ma ne consiglio la lettura.

VERSO IL FRONTE DEL DON.

Il convoglio, partito il 22 agosto dalla stazione Tiburtina di Roma aveva attraversato abbastanza velocemente il territorio italiano, recando sulle fiancate dei vagoni grandi scritte spavalde. A San Ruffillo, una stazioncina secondaria di Bologna, avevo appena avuto il tempo di abbracciare mia moglie e mia madre. Nonostante il facile, spesso gratuito, rifornimento di vino, non c’era allegria negli uomini. All’alba del 23 agosto ci svegliammo a Bronzolo, dove la tradotta era stata messa in sosta dalla mezzanotte in poi. E poi anche il vetro dei fiaschi fu buttato a terra.

Dopo il Brennero niente più cordiali gesti di saluto o sguardi affettuosi, anche se preoccupati. I civili tedeschi ci osservavano in silenzio con gelida indifferenza; i militari, terribilmente composti e seri, qualche volta rispondevano al nostro saluto, ma nei loro sguardi si leggeva ironia, forse disprezzo. A Innsbruck sostammo mezza giornata nella stazione, sempre guardati così. Impossibile non sentirsi a disagio. A partire di lì la tradotta del Montebello diventò una tradotta di consegnati, atmosfera punitiva.

Il treno, instradato su una linea secondaria a binario unico, passava attraverso vaste campagne. Era il pomeriggio avanzato e il convoglio procedeva lentissimo. Nei campi si vedevano gruppi di uomini e di donne al lavoro. Erano lavoratori italiani. Come si accorsero che il treno trasportava dei connazionali, interruppero il lavoro, gettarono a terra gli attrezzi e ci salutarono con alte grida. Alcuni, corsero a fianco dei vagoni, gridando "Italia! Italia!", quasi disperatamente e buttandosi a terra sfiniti quando il treno prese velocità. Quei lavoratori, quei braccianti, quegli italiani non sembravano degli uomini liberi, ma dei prigionieri. Discutemmo nei vagoni, con sofferenza, ma si finì per concludere che i tedeschi facevano la guerra sul serio e che le condizioni della guerra imponevano ferree regole di vita, con le quali dovevano fare i conti quanti già soffrivano per la lontananza dal proprio paese. Cresceva così nell’animo la pena dell’esiliato.

Il giorno seguente, all’alba, guardando fuori dal finestrino, sentii pesare ancora di più su di me una soffocante aria di caserma, anzi di luogo di pena. Certo non fui il solo a provare quella sensazione. La tradotta correva lungo le altissime mura di una fabbrica, per chilometri e chilometri, mura grigie e tetre proprio come quelle di un immenso carcere. Ogni tanto una ciminiera tra volute di fumo nerastro: eravamo ad Halle (Saale). Di qui piegammo verso est.

In Polonia subentrarono altre emozioni. Nella grigia, deserta pianura polacca, così povera di case e di uomini, così piena di tristezza, sotto un cielo basso che colava umidità, sembrava che lo sferragliare del treno rompesse e riempisse un pesante silenzio. Poi il silenzio prevaleva e la tradotta si fermava su un binario morto, non in una stazione, ma in aperta campagna. Passavano convogli pieni di soldati, scivolavano sui binari lucidi di pioggia coi loro carichi silenziosi, spettrali. Muti gli uomini, vestiti di acciaio come i cannoni, come le tanks. Lunghe soste inspiegabili. Dai vagoni, che i nostri lasciavano solo per estremo bisogno, soltanto una canzone trovava voce corale: "ta-pum, ta-pum, ta-pum...". Poi, improvvisamente, senza un segnale di preavviso, nulla... magari solo poche centinaia di metri e si ritornava indietro nello stesso posto di prima... senza indizio di ragione. Infine si ripartiva davvero, ma non era finita l'angoscia.

La Polonia cambiava aspetto, non più l'aperta, vuota campagna, ma villaggi, paesi, città e la visione della terribile condizione di miseria della popolazione polacca. Migliaia di bimbi, migliaia di donne ebree, mandrie affamate e perseguitate da guardiani senza ombra di pietà. Nella sosta di alcune ore alla periferia di Varsavia, benché i binari fossero presidiati metro per metro da orrende guardie tedesche dalle vecchie facce pietrificate e dai fucili con baionetta spianati, nugoli di bambini si precipitarono verso la nostra tradotta gridando "Italiano, gaglieta! Prego, italiano, gaglieta!".

Quel grido, quell’invocazione moltiplicò la nostra generosità, ma ferì profondamente i nostri sentimenti. Magra soddisfazione vedere che i bimbi polacchi non avevano paura di noi italiani, mentre i tedeschi erano visibilmente oggetto del loro odio. Che causa servivamo? Si affossarono i nostri residui, incerti, confusi, ideali.

In altre stazioni, negli immensi intrichi di smistamento di strade ferrate, donne ebree con la gialla stella di Davide sul petto lavoravano come schiave a ripulire i binari degli escrementi lasciati da innumerevoli convogli di militari, di prigionieri di guerra, di deportati, di bestie. Erano per lo più ragazze giovani, smunte, denutrite, dai vestiti laceri. Nessuna di loro, però, ci rivolgeva la parola o faceva un gesto per chiederci qualcosa da mangiare. I guardiani tedeschi non l'avrebbero tollerato ed erano pronti a sparare. Esse, al massimo, osavano lanciare uno sguardo furtivo, ed erano occhi di agnello ferito a morte quelli che si posavano per un attimo su di noi.

In una grande stazione, poco prima di entrare nella Russia Bianca, il nostro convoglio si era appena fermato quando un ufficiale del locale comando italiano ci informò che era assolutamente proibito dare cibi o qualsiasi altra cosa alle donne ebree e che la Kommandatur aveva protestato per il comportamento degli alpini, i cui convogli erano transitati alcune settimane prima ed avevano quasi fraternizzato con le donne ebree. La raccomandazione del nostro imbarazzatissimo compatriota, naturalmente, sortì l'effetto contrario, perché subito facemmo a gara nel porgere pane, scatolette, tabacco e quanto altro possedevamo, cercando di eludere la vigilanza dei guardiani tedeschi. Le ragazze ebree erano sveltissime ad afferrare quanto porgevamo o lanciavamo; subito si ricomponevano nel lavoro.

Purtroppo, però, una fu sorpresa dalla guardia appostata dietro un vagone. Era un vecchio dalla faccia di cane che si precipitò contro di noi urlando frasi incomprensibili, schiumando di rabbia, poi a pedate e a colpi di calcio di fucile cacciò davanti a sé, verso la stazione, come fosse una bestia immonda, la povera ragazza, che non tentava neppure di sottrarsi ai colpi, né emetteva un lamento. Le altre ragazze, a testa bassa, in silenzio, continuavano a raccogliere gli escrementi.

"Merci, monsieur!" - aveva mormorato la ragazza, cercando di nascondere in seno il pacchetto di gallette, prima che la guardia l’aggredisse. "Merci, monsieur!". Poco più tardi, mentre stavamo per partire, l'addetto al comando italiano di stazione ci informava che la poveretta era stata fucilata nel fossato che scorreva nei pressi. Questa è la Polonia del mio ricordo.

Poi attraversammo la Bielorussia o Russia Bianca. Non vedemmo più né bambini né ragazze ebree. Sembrava di passare per regioni abbandonate dall'uomo in seguito ad uno spaventoso cataclisma. In tutte le stazioni anche le più piccole e quasi sperdute nel bosco, resti di incendi e distruzioni, vagoni sventrati, treni blindati, che a noi ricordavano immagini della prima guerra mondiale, rovesciati ai lati della strada ferrata, ammassi di lamiere contorte.

Regione di Gomel, zona di partigiani, Nel convoglio correva voce che ancora pochi giorni prima una tradotta di alpini era stata attaccata e gli alpini avevano subito molte perdite. Su ogni vagone piazzammo le mitragliatrici pesanti e appostammo le Breda. In silenzio passammo per una foresta che sembrava non finire mai; l'ombra degli alberi portava nei vagoni folate di fresco che davano i brividi.

Dopo la regione di Gomel, l'Ukraina. Campi immensi di grano e di miglio non ancora mietuti. Non si vedeva un civile né nelle stazioni né nei campi. Dove si era cacciata, o dove era stata cacciata la gente? Chi avrebbe raccolto tutta quella ricchezza?

La nostra tradotta sembrava trovare da sola la strada attraverso la sterminata pianura, quasi scegliesse il passaggio là dove non c'era gente, e lento era il procedere del convoglio, ovattato il fragore ritmico delle ruote sui giunti. Se in Polonia ci avevano irritato le lunghe inspiegabili soste sui binari morti tanto che sembravamo impazienti di giungere, ora, invece, nessuno di noi si spazientiva. Ci si era adattati a dormire sulle tavole nude e rannicchiati in poco spazio. Su tutti passava una strana sonnolenza, un torpore che era stato certamente prodotto dal movimento del treno. Era come se fossimo stati dolcemente, a lungo cullati.

Poi, inaspettatamente, dissero che eravamo arrivati.

Una stazione più desolata delle altre, ovunque rottami di ferro contorti, ovunque ruggine, anche la terra color ruggine. A fianco dei binari i muri devastati e sbrecciati di una grossa fabbrica, recente bersaglio di massicci bombardamenti, che sembravano aver lasciato intatta, assurdamente, solo l'altissima ciminiera. Una strada disselciata si allungava verso una collinetta piatta su cui si intravedevano edifici apparentemente ancora in efficienza, ma gli edifici, come la strada, erano color polvere di carbone.

Dove eravamo finiti? Dov'era la stazione?

Finalmente, portati avanti e indietro dal treno che non smetteva di manovrare, vedemmo la stazione, o meglio, quello che rimaneva: quattro muri barcollanti e sui resti di una tettoia una grande insegna: "JSIUM".

Si dovette scendere dal treno. Gli uomini si muovevano di malavoglia, cercavano di sgranchirsi. Bene o male dentro quei vagoni si era vissuto. Dove si sarebbe andati ora? Fuori ruggine e carbone, poi anche pioggia, una pioggia plumbea da novembre avanzato, in Italia.

Sotto una tettoia sforacchiata dalle schegge cataste di zaini e di altro materiale militare italiano. Sul mucchio, avvolti nelle coperte da campo, stavano dormendo gli ultimi alpini del C.d’A. arrivato in Russia poco prima di noi. Ci fecero l'impressione di gente "anziana", già da molti mesi dentro il meccanismo di quella guerra. Ma già noi eravamo stanchi come loro, quantunque avessimo appena messo piede in Jsium, opprimente e plumbea.

Scendemmo, dunque, a terra e ci avviammo verso il teatro del paese sulla collinetta piatta, dove il battaglione avrebbe trovato sistemazione per qualche giorno, in attesa degli autocarri che ci trasporterebbero al fronte.

Finalmente vedemmo gente: donne e vecchi in fila sotto l’acqua in attesa della distribuzione del pane. Pane nerissimo intonato al colore di tutte le cose, anche dei vestiti e dei volti della piccola folla. Una scena penosa, tuttavia solo dieci giorni prima saremmo stati segnati da un’impressione ben altrimenti graffiante. Avveniva in noi qualcosa di paradossalmente contraddittorio. La realtà con cui venivamo a contatto allargava i dubbi e smascherava falsi valori e falsi ideali; nello stesso tempo, ognuno di noi, quasi animalescamente, si conformava a vivere la quotidianità dei disastri e degli orrori della guerra.

Libri: "SMALP"

Il libro è stato pubblicato in occasione dell’Adunata degli Alpini tenutasi a Milano nel 2019. Andrea Ferriani, titolare della casa editrice Editoriale Delfino, ha frequentato il 102° corso AUC svoltosi nel 1981 e ha voluto rendere omaggio all’Adunata degli Alpini tenutasi a Milano dal 10 al 12 maggio 2019 con la pubblicazione di questo libro. Attraverso una meticolosa e approfondita ricostruzione storica, rende omaggio agli uomini che hanno avuto l’onore di trascorrere una parte della loro vita in questa Scuola. Una Scuola di vita, che ha lasciato a tutti ricordi ed emozioni ricchi di valori indelebili. Questo volume è dedicato a tutti coloro che in più di sessant’anni hanno frequentato i corsi come Allievi Ufficiali di Complemento dalla Scuola Militare Alpina di Aosta, ma anche a tutti gli appassionati.

Il testo è acquistabile al seguente link https://www.editorialedelfino.it/smalp.html.

giovedì 22 ottobre 2020

Magari un giorno...

Se non lo avete mai visto, guardatelo... e guardatelo fino alla fine. Ed immaginate che un giorno anche in Italia si possa realizzare qualche cosa di analogo, magari sui ragazzi della Russia e magari trasmesso in prima serata al posto di qualche stupida trasmissione e magari proiettato nelle scuole e magari...

lunedì 19 ottobre 2020

Il falso mito delle “scarpe di cartone"

Molto spesso si sente parlare delle famigerate “scarpe di cartone”, con le quali, secondo una diffusa convinzione, i soldati italiani avrebbero affrontato la campagna di Russia durante la Seconda Guerra Mondiale, andando incontro ad esiti terribili per via delle calzature assolutamente inadeguate, addirittura con la suola realizzata in cartone pressato. In realtà questa è essenzialmente solo una leggenda storica.

I soldati italiani combatterono nel secondo conflitto mondiale con calzature di buona qualità, che, almeno nella loro configurazione ottimale, non potevano certo considerarsi pericolose per i piedi dei soldati. Come modello standard era previsto l’uso dello scarpone adottato nel 1937, che aveva un gambaletto più basso dei precedenti, con la tomaia realizzata in cuoio ingrassato e la suola in legno e cuoio, rinforzata da una chiodatura leggera per le armi a piedi e a cavallo, un diverso modello, con chiodatura da montagna, era in uso alle truppe alpine. Questo particolare tipo di calzatura era stato concepito tenendo presente il clima dell’Europa occidentale e, come ipotesi di impiego, il terreno dell’arco alpino italiano.

Indubbiamente, quando questi scarponi si trovarono ad affrontare l’inverno russo, con i suoi meno quaranta gradi, e le particolari condizioni ambientali del fronte orientale, mostrarono dei limiti. In modo particolare, gravi effetti derivarono dalla mancanza di approvvigionamenti e, dunque, dalla capacità di sostituire efficacemente le dotazioni usurate. L’Esercito Italiano era carente di automezzi, rendendo difficile rifornire rapidamente i raparti in prima linea, specie sulle enormi distanze del fronte russo. Le calzature assegnate ai nostri soldati, seppur di buona qualità, utilizzate nelle lunghe ed estenuanti marce a piedi, nel fango e nella neve del fronte orientale, erano sottoposte ad una inevitabile usura, rendendo necessaria la loro sostituzione entro pochi mesi.

L’Intendenza Militare, però, pur avendo i propri depositi nelle adiacenze del fronte, era spesso impossibilitata ad utilizzare i mezzi adeguati per rifornire i reparti. Non è secondario notare come questo tipo di problematica fu assai meno sentita nel 1941, all’epoca in cui era impiegato il CSIR, Corpo di Spedizione Italiano in Russia, che aveva una consistenza numerica piuttosto contenuta e che occupava una porzione ridotta del fronte.

I problemi logistici maggiori iniziarono dal 1942, con la nascita dell’ARMIR, l’Armata Italiana in Russia, una grande unità di notevoli dimensioni composta da una grande moltitudine di soldati, alla quale era assegnato un lungo tratto di fronte, pertanto le linee di comunicazione si allungarono ed il numero di militari da dover rifornire aumentò in modo esponenziale. Un aumento che l’Intendenza non fu in grado di sostenere con dotazioni adeguate, in particolare erano scarsi gli automezzi che avrebbero consentito di portare rapidamente i rifornimenti in prima linea.

Dal punto di vista costruttivo, probabilmente, il principale limite degli scarponi italiani va ricercato proprio nel sistema della chiodatura: aprendo microfori nella suola della scarpa si consentiva il passaggio di una certa quantità di umidità che, ad una temperatura di meno 40 gradi, gelava rapidamente esponendo il piede al congelamento. Per far fronte a tali difficoltà si ricercarono modelli di calzature più efficienti, ad alcuni reparti alpini, in primo luogo al Battaglione “Monte Cervino”, furono dati in dotazione nuovi scarponi con suola gommata in Vibram che risultarono particolarmente adatti a reggere le rigide temperature dell’inverno russo. Allo stesso tempo, studiando un peculiare tipo di stivale utilizzato dalle popolazioni locali, i cosiddetti “valenki”, furono creati stivali in feltro di lana pressato che potevano essere indossati sopra i normali scarponi come una sorta di galosce, oltre ad essere imbottiti di lana o paglia per mantenere gamba e piedi ancor più al caldo ed isolati dal gelo.

Purtroppo anche queste dotazioni soffrirono la difficoltà dei trasporti per gli approvvigionamenti, gran parte di esse finì per accumularsi nei magazzini militari senza la possibilità di essere distribuite effettivamente alle truppe al fronte.

Nel complesso può considerarsi solo parzialmente vero che i soldati italiani affrontarono i vari fronti della Seconda Guerra Mondiale con dotazioni e vestiario non sempre all’altezza delle esigenze belliche, ma va definitivamente sfatato il mito degli scarponi di cartone e, con esso, il terribile sospetto che possano esserci state gravi speculazioni sulle forniture militari e, quindi, sulla vita dei nostri soldati.

Fonte: articolo di Salvatore De Chiara sul sito Historia Regni.

venerdì 16 ottobre 2020

Un mito da sfatare il T34/76

All'inizio del conflitto, il ben corazzato T-34, pur con la sua imperfetta trasmissione, incapace di sostenere lunghe marce, si dimostrò tuttavia un buon carro armato di supporto alla fanteria. Ma progressivamente perse il suo vantaggio in corazzatura che aveva avuto all'inizio del conflitto.

Alla fine del 1943 o all'inizio del 1944, il T-34 era diventato un obiettivo relativamente facile per i carri tedeschi con i cannoni da 75 mm e per le armi anti-carro, mentre i colpi del cannone da 88 millimetri del Tiger, le batterie anti-aeree e le armi anti-carro PAK-43 risultavano invariabilmente letali.

La torretta era perforata in maniera relativamente facile dalle armi tedesche. La situazione era aggravata dal fatto che spesso le torrette del T-34 erano colpite da pezzi di artiglieria pesante come l'88 mm antiaereo e dai carri tedeschi equipaggiati con cannoni a canna lunga come il 75 mm e il 50 mm.

A ciò si univa una gravissima mancanza di vie di fuga adeguate per l'equipaggio, dal momento che il portellone monoblocco sulla torretta rappresentava l'unica uscita facilmente agibile per i membri dell'equipaggio (il portello davanti alla postazione del pilota, infatti, era fin troppo piccolo e macchinoso da aprire).

Bisogna poi ricordare che la produzione dei carri sovietici divenne numericamente consistente grazie alle macchine utensili (44.600), ai forni elettrici ed alle lastre di acciaio (6.000.000 di tonnellate la maggior parte in lastre pronte per essere tagliate e saldate) inviate dagli USA. Vennero prodotti 35,467 T34/76.

Altro grave difetto era la torretta biposto dove il capocarro era anche servente al pezzo, la visibilità esterna era troppo scarsa ed in più non c'era una radio. Anche i cingoli erano un punto debole. Nel 1941, per il carro russo compiere viaggi di centinaia di chilometri sarebbe risultato letale.

Quando nel giugno del 1941 l'8º Corpo Meccanizzato di D.I. Ryabyshev avanzò verso Dubno, perse metà dei suoi veicoli. A.V. Bodnar, che si trovò in combattimento nel 1941-42 ricordava: "Dal punto di vista dell'operatività, le macchine corazzate tedesche erano più perfette, si rompevano meno spesso. Per i tedeschi, coprire 200 chilometri era nulla, ma con i T-34 qualcosa si sarebbe rotto, qualcosa si sarebbe perso. L'equipaggiamento tecnico delle loro macchine era migliore, l'armamento peggiore".

I cingoli erano un serio punto debole. Erano la parte riparata più di frequente. Gli equipaggi si portavano addirittura le parti di ricambio in combattimento. A.V. Maryevski ricordava: "I cingoli si potevano spezzare anche senza essere colpiti. Quando la terra si incollava tra le ruote dentate, il cingolo, soprattutto durante una curva, si tendeva tanto che i perni e gli stessi cingoli non potevano resistere".

Inoltre la trasmissione dei primi modelli di T-34 era la più primitiva dei suoi tempi. Cambiare marcia nei T-34 dei primi anni del conflitto, con cambio a quattro marce, era molto complicato e richiedeva una grande forza fisica. I veterani carristi russi ricordavano quanto fosse difficile cambiare marcia e di come dovessero aiutarsi con le ginocchia. Inoltre, risultava quasi impossibile, pena la rottura degli ingranaggi, utilizzare III e IV marcia in fuoristrada (la velocità massima effettiva si riduceva così a soli 15-20 km/h).

La frizione, poi, estremamente arcaica (era composta da semplici dischi di ferro), non poteva essere fatta slittare senza incorrere nel rischio di una sua rottura. Era assolutamente necessario che gli equipaggi dei T-34 fossero molto ben addestrati. "Se un guidatore non lo era - ricordava il comandante di plotone A.V.Bodnar - avrebbe potuto ingranare la quarta invece della prima e la terza invece della seconda, la qual cosa avrebbe portato alla inevitabile rottura del cambio".

Per un certo periodo i russi scartarono ogni progetto di miglioria o di modifica del T-34, per mantenere la produzione la più alta possibile, almeno fino all'arrivo del Panzer V Panther e del Panzer VI Tiger. I lunghi cannoni di questi nuovi carri permettevano ai carristi tedeschi di combattere senza preoccuparsi di nascondersi.

Il comandante di plotone Nikolai Yakovlevich Zheleznov ricordava: "Dato che i nostri cannoni da 76 millimetri potevano perforare le loro corazze da non più di 500 metri, essi restavano all'aperto. Perfino i proiettili da 76 millimetri rinforzati al tungsteno non davano alcun vantaggio, dato che potevano perforare corazze di 90 millimetri da una distanza di 100 metri, quando la blindatura frontale del Tiger era spessa 102 millimetri".

Per loro fortuna i Sovietici potevano disporre di aerei anticarro tra i quali gli Hawker Hurricane con 4 cannoni da 20 mm e razzi da 127 mm ed i Bell P39 con cannone da 37 mm.

Fonte: articolo di Sergio Mazzella sul gruppo Le Grandi Battaglie della Storia.

domenica 20 settembre 2020

Tornano le piastrine dei dispersi

Altro articolo de Il Giornale nel quale viene giustamente anche citata la posizione di U.N.I.R.R. sul tema dei piastrini e sul relativo commercio... oltre ad un accenno a Un italiano in Russia che fa sempre piacere...

Fonte: articolo di Fausto Biloslavo su Il Giornale,