venerdì 5 agosto 2022

Rapporto sui prigionieri, parte 19

Pubblico l'ultima parte di alcuni estratti del "Rapporto sui prigionieri di guerra italiani in Russia" a cura di Carlo Vicentini e Paolo Resta, fonte UNIRR, 2a edizione, anno 2005, a mio avviso la fonte più autorevole per fare chiarezza sulle perdite e sulle vicissitudini dei nostri soldati in Russia durante il secondo conflitto mondiale.

LA LUNGA STRADA PER ARRIVARE A SAPERE.

La prima fonte di notizie su chi era morto in prigionia furono le dichiarazioni di coloro che erano sopravvissuti e che al rientro in Patria, testimoniarono di aver assistilo alla morte dei loro commilitoni. Queste testimonianze rese nelle dovute forme, cioè con dichiarazioni scritte e firmate davanti ai carabinieri, avevano dato luogo alla stesura di atti di morte postumi, da parte di una speciale Commissione del Ministero della Difesa. Sovente, però, queste notizie venivano comunicate solo alle famiglie del Caduto senza essere segnalate all'autorità militare, per cui il soggetto, negli archivi dell'Albo d'Oro, continuò ad essere considerato disperso.

Sia in un caso che nell'altro, la data di morte, raramente veniva segnalata con precisione; cosa comprensibile, ove si pensi che nei primi mesi di prigionia, si era persa la cognizione del tempo e che mancava la possibilità materiale di annotare qualsiasi cosa; quando in seguito, sulla scorta della memoria, vennero redatti elenchi dei morti con luoghi e date abbastanza precise, dato il breve tempo trascorso, essi vennero sistematicamente sequestrati. Il complesso di queste testimonianze ha consentito di accertare la morte in prigionia di circa 5.800 militari italiani.

A partire dagli anni sessanta, ad iniziativa della Croce Rossa Italiana e tramite la Croce Rossa Internazionale, vennero trasmesse alla Croce e Mezzaluna Rossa sovietica schede segnaletiche nominative per la ricerca dei Dispersi. Questi invii a cadenza bimestrale riguardavano ogni volta cento nominativi. I risultati furono deludenti perché le schede individuate superavano raramente il 3-4% delle richieste. Per tale via, in complesso, si è avuta la notizia della morte in prigionia di circa mille nostri soldati, rispetto ai 35.000 nominativi per i quali la nostra Croce Rossa aveva chiesto informazioni. In un primo tempo, i russi trasmettevano un certificato di morte del militare, compilato pro forma, perché la sua redazione non risaliva alla data del decesso, ma a dopo la richiesta di notizie da parte della Croce Rossa. II governo russo ha inviato 377 di questi certificati.

In seguito le risposte venivano date con una lista, nella quale, oltre alla data di morte, ma mai la località, era indicata la causa del decesso. Quest'ultima annotazione era un'insolente presa in giro, perché vi figuravano le malattie più astruse e mai le vere responsabili della morte del prigioniero. L'assurdità di queste gratuite dichiarazioni è lampante scorrendo la tabella allegata: vi figura un solo caso di tifo petecchiale, un solo caso di deperimento organico, un solo caso di setticemia da congelamento! Questo sistema è rimasto operante fino al febbraio 1992.

Una svolta veramente decisiva si è avuta con la nuova amministrazione Gorbaciov. Nella primavera del 1992, il socio dell'UNIRR, signor Guido Caleppio, ex prigioniero con ottima padronanza della lingua russa, quale incaricato di ONORCADUTI, poteva avere accesso all'Archivio Generale dell'Armata Rossa. Qui, in una campagna di ricerca durata quattro mesi, ha fotografato o ricopialo centinaia di schede di prigionieri, ricercate e selezionate con molta difficoltà tra migliaia e migliaia di schede di tedeschi, rumeni, ungheresi e giapponesi. Ha reperito e fotografato altresì altri importanti documenti che riguardano i prigionieri.

Poiché tale sistema avrebbe richiesto moltissimo tempo e considerevole impegno da parte dell'incaricato di ONORCADUTI, quest'ultimo Commissariato riusciva a fare inserire nei protocolli che regolano l'esumazione dei nostri cimiteri campali ed il rimpatrio delle Salme dei nostri Caduti, anche la fornitura, da parte dell'Archivio di Mosca, dell'elenco dei prigionieri a suo tempo presenti nei lager dell'Unione Sovietica. Una prima tranche del medesimo, con circa 8.000 nomi, veniva consegnala al generale Gavazza nell'aprile del 1992. Ad essa seguirono altri sette elenchi - l'ultimo dei quali in ottobre 1992 - per complessivi 64.400 nomi.

Gli elenchi, in forma di tabulati computerizzati, contengono, ove noti, i dati del prigioniero; Cognome e nome, anno di nascita; luogo di nascita e domicilio; grado militare e reparto di appartenenza; data e luogo della cattura; codice dei vari lager dove il prigioniero fu rinchiuso; data di morte ed eventuale luogo d'interramento. La presenza completa di tutti questi dati si riscontra solo per i prigionieri che sono stati rimpatriati o che sono morti in epoca successiva alle grandi epidemie dei primi mesi. La loro lunga permanenza in prigionia, i ripetuti interrogatori, la collaborazione degli stessi prigionieri, hanno permesso di rilevare con esattezza e compiutamente i dati di cui sopra.

Per la stragrande maggioranza degli altri, i dati contenuti negli elenchi, si limitano a cognome e nome, anno di nascita, data e lager di decesso. Per alcuni lager, come il 56 di Uciostoje (Miciurinsk) o il 67 di Bostianovka (Sverdlovsk) la data di morte è sistematicamente assente. E' qui il caso di smentire quanto sovente si è scritto sui giornali o detto in televisione e cioè che negli archivi sono conservati i fascicoli di tutti i prigionieri catturati. Come si è detto, solo per i 20.000 rimpatriati e per pochi altri è stato possibile ai russi raccogliere materiale ed arricchire i dossier con i verbali degli interrogatori, il frutto delle innumerevoli perquisizioni, le copie degli articoli da loro scritti per il giornale murale o "L'ALBA", i rapporti dei delatori, gli appelli da loro firmati. Quale fascicolo poteva essere impiantato per quei poveretti che entrati nei campi al ritmo di migliaia al giorno, vi morivano dopo una settimana? Dall'esame degli originali russi, risulta che le circa 65.000 segnalazioni riguardano: circa 38.000 prigionieri morti nei lager; circa 22.000 prigionieri rimpatriati; circa 5.000 prigionieri non italiani, duplicazioni e deportati civili.

La data del decesso, presente nel 90% dei casi, consente di ricostruire con sufficiente esattezza l'andamento della mortalità nell'arco di tempo che va da dicembre 1942, epoca della cattura dei primi grossi contingenti, al 1946 data del rimpatrio del primo scaglione. Il risultato è evidenziato nell'unita tabella e relativo grafico. Tra il gennaio ed il giugno del 1943 è morto I'85% dei prigionieri entrati nei lager con una concentrazione terrificante in marzo, quando ogni giorno morivano più di 300 nostri soldati e ufficiali. C'è da accennare che, purtroppo, anche alla vigilia del rimpatrio, in taluni campi si è verificata una nuova epidemia di tifo che ha provocato ancora innumerevoli morti.

L'esame degli elenchi russi ha dato la possibilità di conoscere il numero di codice di circa 270 lager e circa 200 lager-ospedali dove sono morti i nostri prigionieri e di individuare l'ubicazione di buona parte di essi. Si è constatato che dopo l'internamento nei primi campi improvvisati, relativamente vicini alle zone dove avvenne la cattura (vedi Tambov, Miciurinsk, Uciostoje, Nekrilovo, Khrinovoje) i prigionieri sopravvissuti vennero trasferiti molto più ad est, alcuni addirittura nelle provincie degli Urali (Perm, Sverdlovsk, Celiabinsk), duemila chilometri da Mosca o nell'Asia centrale ad Ak Bulak, Karagandà, Tashkent. Stupefacente è il numero degli ospedali dove furono ricoverati feriti e congelati ed in un secondo tempo i numerosi ammalati di affezioni polmonari ed i denutriti irricuperabili. Anche questi campi-ospedale erano dislocati lontanissimo dal fronte, quasi tutti oltre il Volga: uno, Pinjug, a soli 400 km da Arkangelo, il porto sul Mar Glaciale Artico. A parziale modifica della convinzione di gran parte di prigionieri rimpatriati, anche nei campi di smistamento furono annotati i nomi dei morti. Negli archivi di Mosca, il nostro rappresentante ha fotografato una parte dei registri redatti nel campo di Tambov, dove venivano annotati giornalmente i nomi di chi era morto, senza distinzione di nazionalità. Perfino per il campo di Khrinovoje esiste una strana documentazione fatta di frammenti di carta, scritti frettolosamente a mano e, purtroppo, oggi ben poco leggibili. Si tratta di materiale tutto da studiare attentamente, cosa che richiederà degli anni.

Nei registri di alcuni lager è annotata anche la causa del decesso. Quella più ricorrente è la denutrizione o distrofia alimentare, come la chiamano i russi, seguono la pellagra e le malattie polmonari. Questo conferma che prima della "glasnost" (la trasparenza, instaurata da Gorbaciov), i russi mentivano anche nelle briciole di notizie che lasciavano arrivare in occidente; oltre tutto lo facevano in modo goffo. Che bisogno c'era di redare certificati di morte fasulli, dove si dichiarava che il prigioniero era mono di cirrosi epatica. Forse per eccessivo consumo di vodka? Le fotografie dei registri mostrano un'altra cosa: i russi non erano sinceri nemmeno con se stessi, infatti la parola tifo non compare mai, assolutamente mai. In Russia essa è una parola tabù, perché il tifo, per ordine di Stalin, in Russia non esisteva, non era mai esistito, era un'invenzione di quegli ignoranti di medici capitalisti. La storia e le cronache, oggi senza più bavaglio, ci raccontano che durante la Rivoluzione e dopo, all'epoca della collettivizzazione, la fame fu accompagnata dal tifo e più di un milione di russi sono morti con l'aiuto dei pidocchi.

Dall'esame degli elenchi si è potuto accertare, infine, quanti nostri prigionieri sono morti in ogni lager. Il lager 188 di Tambov è quello che detiene il triste primato con 8.200 morti. Segue il 56 di Uciostoje (Miciurinsk) con più di 4.000 morti. Anche il lager di Khrinovoje avrebbe sicuramente uno dei primi posti in questa classifica se le registrazioni dei decessi fossero avvenute fin dall'inizio e con un minimo di accuratezza. La cifra di 1.800 morti desunta dagli elenchi non ha significato.

L'esame delle caratteristiche generali degli elenchi russi ha potuto essere condotta con relativa facilità anche se ha richiesto molto lavoro e considerevole impegno. Di tutt'altra natura, difficoltà e perdita di tempo si è manifestata l'individuazione di coloro che sono morti in prigionia. La traslitterazione dei cognomi contenuti negli elenchi, presenta un grossissimo problema. E' evidente che i primi frettolosi censimenti furono eseguiti da soldati o sottufficiali russi che scrivevano a mano le generalità declinate dal prigioniero. Analogamente, quando tali soldati annotavano il nome del morto in base alla descrizione di un compagno del defunto, che forse non lo sapeva con esattezza. Le inflessioni dialettali di chi dettava, la pronuncia di suoni che non esistono nella lingua russa o la loro difficile riproduzione con caratteri cirillici, la poca dimestichezza con la penna di chi redigeva quelle note, gli immancabili errori di trascrizione o d'interpretazione di chi li ha ricopiali - ed i passaggi sono stati numerosi - hanno fatto si che gli originali cognomi dei morti siano diventati parole indecifrabili.

Molte volte, invece, si va a riscontrare nell'archivio dei Dispersi un nome apparentemente sicuro, intellegibile, di stampo chiaramente italiano, si scopre che non c'è nessun disperso con quel nome. Inizia allora, una defatigante ricerca fra decine di cognomi simili, per arrivare qualche volta alla conclusione che esistono un paio di soluzioni ammissibili. Quale la giusta? Purtroppo in questa materia non sono ammesse soluzioni ambigue: è necessaria la certezza. Nei pochi casi dove è indicato il luogo di nascita, viene interpellato il Comune o il Distretto. Sono poche le risposte risolutive, sono fornite soprattutto dai piccoli Comuni, dove si lavora con criterio e buona volontà. Nelle anagrafi delle grandi città, impiegati frettolosi rispondono immancabilmente che il nominativo non risulta agli atti, cosa che ONORCADUTI sapeva in partenza, ma desiderava sapere se, tra i nati in tale anno, figurava un disperso con un cognome che si avvicinasse a quello segnalato. A questo lavoro di ricerca provvede anche l'UNIRR prendendo contatto con i Comuni d'origine e con le famiglie degli scomparsi quando si hanno risultati positivi.

Riassumendo, l'insieme di queste difficoltà ha fatto si che contro i 38.000 nomi di morti in prigionia traslitterati, solo poco più della metà sono stati accertati con sicurezza. Naturalmente le ricerche proseguono con tutto l'impegno possibile. L'accertamento della morte in prigionia di un soldato finora ritenuto disperso, mette in moto una complessa procedura. L'ufficio dell'Albo d'Oro del Ministero della Difesa, cioè l'anagrafe dei Caduti e Dispersi su tutti i fronti e tutte le guerre, interessa i carabinieri e Comune di nascita del defunto, perché ne rintraccino i familiari cui viene poi comunicata la notizia in via ufficiale. In seguito, a cura della Commissione Interministeriale Atti Giuridici, si provvede alla compilazione dell'atto di morte che sostituisca la dichiarazione di dispersione o l'eventuale dichiarazione di morte presunta. Tale atto è trasmesso al Comune di nascita per la variazione sui registri di Stato civile ed al distretto Militare che aveva arruolato il militare.

L'UNIRR, per incarico del Commissariato Onoranze Caduti in Guerra, ha provveduto alla pubblicazione degli elenchi dei militari morti in prigionia nell'Unione Sovietica. Sono già stati pubblicati circa 24.000 nominativi, dove oltre alle generalità del militare sono indicati il reparto di appartenenza, la data di morte ed il lager dove questa è avvenuta.

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